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Il mistero della zucchina gialla e una focaccia-Tatin

La raccolta di questa stravagante zucchina risale a qualche settimana fa, alla fine di agosto. 

Ne avevamo identificate tre, nel giardino dei suoceri ed io ho cominciato a puntarle per poterne fare una ricetta coi fiocchi per il blog. 
Una zucchina gialla…l’impatto visivo è decisamente interessante…e la risposta sui social sarebbe stata di sicuro tantissima. D’altronde quanti di voi conoscono le zucchine gialle? Io non le avevo mai viste.
Le zucchine gialle sono coltivate in Veneto, in provincia di Treviso, con una produzione di poche decine di quintali, e distribuite quasi esclusivamente ai ristoranti di livello, attenti a portare in tavola piatti originali e prodotti tradizionali di nicchia. La vendita al dettaglio è, per contro, piuttosto bassa, tanto che nel resto d’Italia questa varietà della comune zucchina verde è quasi sconosciuta.
La perplessità si è dipinta anche sul volto di mio suocero quando ha visto spuntare queste strane zucchine, dopo aver seminato dei semi che gli erano stati donati… e loro – gialle – sono rimaste nell’orto, attaccate alla pianta, per più tempo del dovuto. Il tempo ottimale di raccolta è in realtà all’inizio di luglio. Noi le abbiamo scoperte solo quando i miei suoceri sono partiti per il mare, quando il mio fidanzato andava ad annaffiare le piante, e tra me e loro – gialle – è stato subito amore, giallo, a prima vista.
Ero lì, che mi prefiguravo come fotografarle e come cucinarle, e mi chiedevo se il loro sapore sarebbe stato davvero così dolce e delicato come scrivono… un tesoro prezioso dopo le difficoltà dovute alla raccolta tra tante foglie e parecchie spine.
Ma il giorno prescelto per la raccolta il mio fidanzato mi dà, al telefono, una notizia agghiacciante: le MIE zucchine (erano già mie, dal momento che sono nate gialle) erano sparite!
Staccate dalla pianta, quando soltanto il giorno prima ce n’erano tre, belle grassocce, e sparite; ne era rimasta una sola, a terra, abbandonata nell’erba.

Chi sarà stato a rubare le preziose gialle zucchine? Un animale notturno o una temeraria foodblogger che ha intercettato le mie intenzioni e mi ha messo i bastoni tra le ruote?
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«Prendi l’ultimaaaa!» ho strillato al mio fidanzato, al telefono. E quell’ultima ce la siamo mangiata. Era lontana dalla perfezione, forse perchè cresciuta un po’ troppo, ma il sapore era davvero delicatissimo.

Io l’ho tagliata sottile con la mandolina e l’ho fatta marinare con succo di limone, olio e menta per farne la farcitura di una focaccia. Rovesciata. E gialla.
La ricetta: Focaccia Tatin con zucchine gialle trevisane marinate al limone e menta
200 g di farina
6 g di lievito di birra
100 ml di acqua
1 cucchiaio d’olio extravergine d’oliva
1 cucchiaino raso di sale
1 zucchina gialla trevisana (almeno 3 o 4 se le raccogliete al tempo giusto, quando sono piccole e tenere)
olio extravergine d’oliva
menta qb
sale
succo di un limone
scorza di mezzo limone
1/2 pomodoro cuore di bue
Preparare l’impasto della focaccia, sciogliendo il lievito in acqua a temperatura ambiente e unendolo poi alla farina. Quando l’impasto è formato aggiungere l’olio ed infine il sale, impastando ancora per qualche minuto. Riporre in una ciotola unta, al tiepido, fino al raddoppio.
Intanto marinare le zucchine. Lavarle e tagliarle sottlissime con una mandolina. In una insalatiera salarle e poi irrorarle di olio extravergine d’oliva, del succo di limone, aggiungendo anche le zeste e la menta tritata.
Quando l’impasto della focaccia ha raggiunto la lievitazione, ungere una teglia da forno e disporvi le zucchine sul fondo. Sopra le zucchine, allargare con delicatezza la focaccia, prendendola sempre dalla parte inferiore e tirandola verso i bordi. Lasciar riposare una ventina di minuti.
Scaldare il forno a 200° e quando è ben caldo infornare la focaccia finchè non è dorata.
Nel frattempo tagliare a cubetti il pomodoro e salarlo.
Sfornare ed attendere qualche minuto, poi rovesciarla su un’altra teglia della stessa dimensione e decorarla con i pomodori.
Tagliare a quadrati e servire.

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Blinis con crema di peperoni e Roquefort per IlFiorDiLoto e il SANA2014

Chi mi legge sa che amo le storie ed è una storia tutta familiare quella che voglio raccontarvi oggi: quella de Il Fior Di Loto. L’azienda è nata nel 1972, pionera, con altri pochi in Italia, dell’importazione di prodotti macrobiotici dal Giappone. Il fondatore Riccardo Maschio si concentrò in primis sulla macrobiotica e sulla produzione di gallette di riso biologiche quando in Italia a parlar di biologico erano ancora in pochissimi.
L’intento era quello di portare sulle tavole degli italiani prodotti senza traccia di residui di diserbanti e fitofarmaci, e la volontà di limitare al massimo l’impatto ambientale delle coltivazioni.
Oggi il biologico per molti è diventato una moda, all’epoca era una grandissima scommessa. Una scommessa che è stata vinta, visto che oggi nell’azienda lavorano il figlio di Riccardo, Roberto, e la nipote Virginia.
Oggi Fior Di Loto ha prodotti a marchio proprio e distribuisce prodotti biologici di altre grandi aziende.  Ha in catalogo prodotti cosmetici biologici da laboratori di grandissima esperienza come Cattier (1968), Vogel, Victor Philippe ed altri. Al SANA sono stati premiati per Biopuro, gamma di detergenti a produzione escusivamente vegana, totalmente ecobio e ipoallergenico, talmente naturale che l’acqua di risciacquo dei piatti può essere utilizzata per bagnare le piante.
Anche per chi ha scelto l’alimentazione vegana molte alternative sono presenti in Fior Di Loto, con ingredienti e cibi già pronti da consumare, con gli yogurt vegetali Joya, il biscotto Gojino, con bacche di goji, Lemò con limone e Risorì con farina di riso, confezionati senza prodotti di origine animale; e ancora i formaggi Veggilette e Vegratì, completamente vegani, ed alcune delle proposte gastronomiche pronte di Bio per Te, partner del Fior Di Loto.
Il Fior di Loto, impegnata da più di 40 anni nel mondo del biologico, mi ha invitata al SANA di Bologna, il grande salone internazionale dell’alimentazione biologica e naturale per farmi diventare protagonista di uno showcooking e di una sfida tra blogger: il Finger Food Bio Contest. Assieme a me, in questa avventura, c’erano Valeria e Silvia, conoscete già i loro blog?
Siamo arrivate con l’idea del nostro fingerfood già in testa. Non ci restava che prepararlo con il supporto di Daniele Fantinato, Consulting Chef di Bio per Te, che ci spronava ad utilizzare per tutto il Bimby…ecco il Bimby, questo sconosciuto!


Mentre Valeria ha puntato su un fingerfood totalmente vegano, composto da miso e seitan, e Silvia ha elaborato un fingerfood dal gusto esotico, grazie al tahine, che faceva l’occhiolino all’Italia con la cialda croccante di Parmigiano Reggiano colorata dai semini di chia, io mi sono tenuta su sapori molto semplici che conosco bene.

I peperoni, che sono di stagione, l’aglio, l’olio extravergine d’oliva, il formaggio erborinato, che in questo caso era il Roquefort certificato bio di Papillon, adagiati su un soffice blinis. Se la storia del Roquefort vi incuriosisce potete leggerla qui.
I blinis sono simili a pancakes, ma vengono dalla Russia e in generale dall’Europa dell’Est, e vengono preparati con farina di grano saraceno etradizionalmente lievitano con lievito di birra. Io li ho velocizzati con l’utilizzo del lievito per torte salate ed ho cercato di inserire quanto più possibile prodotti Fior di Loto, dal loro vastissimo catalogo.
La ricetta: Piccoli blinis con crema di peperone e ricotta e cubetto di Roquefort
(per circa 40-50 fingerfood)

-per i blinis:
1 uovo bio (intero)
2 uova bio (separate)
100 g di farina di grano saraceno bio
100 g di farina tipo 0 bio
200 ml di latte di riso
100 ml di yogurt magro
la punta di un cucchiaino di lievito per torte salate
sale
olio per ungere il padellino

-per la crema di peperoni:
3 peperoni rossi grandi

250-300 g di ricotta vaccina

1 spicchio d’aglio
sale
olio

-per 50 cubetti di roquefort:
150 g di Roquefort Bio Papillon
Preparare i peperoni. Pulirli e tagliarli a pezzettini.
Rosolare in padella lo spicchio d’aglio pulito e leggermente
schiacciato; poi toglierlo ed aggiungere i peperoni. Lasciarli
ammorbidire a fuoco vivace, aggiungendo gradualmente dei goccini
d’acqua. Se tendono a rosolare troppo coprire con un coperchio finchè
non sono morbidi, poi lasciarli raffreddare.
Nel frattempo preparare l’impasto dei blinis, mettere in una terrina capiente le due farine. Aggiungere un uovo intero e un tuorlo con un bel pizzico di sale ed iniziare a mescolare con una frusta o una forchetta. Ammorbidire la pastella, aggiungendo gradualmente lo yogurt e il latte, continuando a mescolare, fino ad ottenere un composto liscio ed omogeneo. Aggiungere il lievito setacciato e lasciar riposare il tutto almeno 10 minuti.
Frullare i peperoni ormai freddi ed emulsionarli alla ricotta; regolare di sale.
Tagliare il Roquefort a cubetti di 1 cm di lato.
Montare i due albumi rimasti ed aggiungerli all’impasto dei blinis
In una padella antiaderente ben calda versare delle piccole cucchiaiate di impasto, dopo un minuti girare tutti i blinis e far cuocere per un altro minuto dall’altro lato. Trasferire i blinis man mano in un piatto, e cominciare a completarli con un cucchiaino di salsa ai peperoni e con un cubetto di Roquefort.

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Focaccione sofficissimo per la colazione, con la Selezione di Stagione Simply

La ricetta di oggi si accompagna ad una iniziativa dei supermercati Simply. A partire dal 27 giugno e fino alla fine del 2014, sono disponibili in giorni prestabiliti, nel caso del mio supermercato di fiducia, il venerdì e il sabato, delle cassettine di frutta oppure di verdura contenenti esclusivamente prodotti di stagione a 0,79 € al Kg. Sono andata anch’io a provare questa selezione. Ecco la cassettina di frutta che ho scelto:

Uva, pesche bianche, mele e susine. Già pesate e pronte da portare a casa.
L’iniziativa è nata per promuovere il consumo della frutta e della verdura di stagione anche a chi si rifornisce al supermercato e non ha il tempo di andare dal fruttivendolo di fiducia. D’altronde con molti prodotti che ormai si trovano tutto l’anno, per i “non foodbloggers” c’è ancora un po’ di confusione…
Con questa cassettina di frutta ho elaborato una ricetta. Le pesche bianche me l’ero già mangiate e quindi ho pensato di preparare qualcosa per la colazione di settembre. Una focaccia che ricordasse un po’ la toscana schiacciata coll’uva, che si fa con le uve da vino, e un po’ la focaccia dolce di Susa, ricca di zucchero croccante in superficie.
Dalla Selezione di stagione Simply ho preso l’uva bianca e le susine che si prestano perfettamente a questo tipo di preparazione e alla cottura che ho adottato. Ho aggiunto solo una manciata di mirtilli freschi.
La focaccia è davvero perfetta per la colazione, dolce ma non troppo e con tanta frutta. Io l’ho tagliata a spicchi e surgelata: è sufficiente passarla in frigo la sera e scaldarla per 3 minuti in forno prima di gustarla al mattino, con il té, il caffelatte o una bella tazza di yogurt greco.
E naturalmente è personalizzabile con altra frutta di stagione!

La ricetta: Focaccione sofficissimo con frutta di stagione
per ogni focaccione di tot cm di diametro:
5 o 6 susine sode (Selezione di stagione Simply)
1 grappoletto di uva (Selezione di stagione Simply)
1 pugnetto di mirtilli freschi
280 g di farina tipo 0
5 g di lievito di birra fresco
100 g di acqua
80 g di zucchero
1 uovo grande (+ un po’ d’albume per la glassatura)
2-3 cucchiai d’olio extravergine d’oliva
q.b zucchero di canna scuro

In una terrina sciogliere il lievito in 50 g di acqua ed impastarlo con 50 g di farina. Lasciar riposare questo lievitino per un paio d’ore, finchè non è bello gonfio.
A questo punto aggiungere la restante farina e lo zucchero con altri 50 g di acqua e formare un impasto. Aggiungervi l’uovo e farlo assorbire, continuando a rigirare l’impasto finchè non è più appiccicoso. Per ultimo aggiungere due cucchiai di olio extravergine di oliva.
Lasciar riposare l’impasto al tiepido fino al raddoppio. 
Ungere una teglia (la mia era da crostata) e porvi l’impasto, allargandolo con delicatezza. Dopo mezz’ora o poco più sarà bello gonfio e pronto da decorare. Disporre in ordine le susine tagliate a metà, i chicchi d’uva e i mirtilli, spennellare con bianco d’uovo e spolverare in superficie con zucchero di canna.
Scaldare il forno a 180° ed infornare per circa 20-25 minuti.

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Il peperone nel raviolo e la 65° Sagra del Peperone di Carmagnola

Oggi vi parlo di peperoni e della Sagra del Peperone che si svolge a due passi da Torino, a Carmagnola dal 29 agosto al 7 settembre e che è giunta ormai alla 65° edizione.

Il 30 agosto, grazie all’invito del Comune di Carmagnola, sono stata lì, tutta la giornata, con Turismo Torino, per conoscere un po’ di più la città, alcuni dei suoi produttori e la sua Sagra, una vera e propria istituzione per il territorio. Nel frattempo avevo già fatto il pieno di peperoni, meraviglioso frutto estivo, che insieme alla melanzana mi fa proprio impazzire e la settimana passata ho condiviso sulla mia pagina Facebook le vecchie ricette a base di peperoni.
Un capitolo tutto suo lo merita il Povron ëd Carmagnòla, il peperone di Carmagnola, prodotto in moltissimi comuni della provincia di Torino e in alcuni della Provincia di Cuneo.
Le varietà sono 4 e i loro suggestivi nomi in piemontese sono: il Bragheis, quadrato, il Long, ovvero il famoso Corno di Bue, presidio Slow Food, il Trottola, conosciuto anche come peperone Cuneo ed infine il Tomaticòt.

peperone quadrato di Carmagnola
Il peperone è giunto a Carmagnola nei primi anni del ‘900, e quindi in epoca relativamente recente, introdotto un orticoltore di Borgo Salsasio, ma qui ha trovato un microclima ideale. Era una pianta piuttosto giovane per l’Europa, avendo preso piede come ortaggio commestibile soltanto nell’800. In precedenza, dopo la scoperta dell’America era sì, conosciuto – Leonardo da Vinci, ad esempio estraeva dal peperone alcuni pigmenti per i suoi dipinti – ma apprezzato soltanto come pianta ornamentale. Questo non stupisce se si pensa ai suoi grandi frutti, colorati e gonfi come palloni.

Il tour di sabato, però, non era dedicato soltanto al peperone ma anche al territorio carmagnolese, ricco di spunti di ogni genere, e la Sagra può fungere da pretesto per una visita più approfondita alla scoperta dei suoi tesori. 
Parliamo intanto dell’Abbazia di Casanova, antica abbazia cistercense risalente nel suo impianto originario al XII secolo, situata lungo una delle vie francigene, che conobbe uno sviluppo ininterrotto fino al XVI secolo quando venne ceduta ai Savoia. Distrutta quasi completamente da un rovinoso incendio, la facciata attuale è in stile tardo barocco piemontese, mentre il resto del monastero e l’interno della chiesa si devono all’intervento di Giovanni Tommaso Prunotto, allievo di Juvarra, nella metà del secolo XVIII. All’interno perfettamente conservati stucchi di pregio e alcuni arredi, e gli affreschi del Guidobono e di Crivelli, mentre è da segnalare una Madonna con bambino del ‘400.

Menzione d’onore all’Ecomuseo della Canapa, in Borgo San Bernardo, per me un vero tesoro. L’Ecomuseo preserva la memoria storica di un territorio in cui le aziende a conduzione familiare che si dedicavano alla produzione di corde erano più di 800 nel XIX secolo. La signora Caterina, con chiarezza e passione, ci ha accompagnato nella scoperta della pianta della canapa, mostrandoci come veniva ricavata la fibra e come venivano poi prodotte le corde. La pianta di canapa veniva lasciata macerare e poi la fibra veniva separata dalla parte più legnosa. La fibra veniva “filata” con l’aiuto di un macchinario, anche se gran parte del lavoro era svolto a livello manuale, e con qualsiasi condizione atomosferica, spesso all’aperto, vista la necessità di un’area di lavoro “lunga”.

I fili ottenuti venivano poi intrecciati grazie all’utilizzo di una sorta di argano e a una spoletta. La spoletta, a seconda della corda che si voleva ottenere variava di dimensione e di scanalature.
La corda veniva poi bagnata e ripassata con una maglia di ferro che la rendeva liscia.

Il territorio carmagnolese ha rifornito di cordami la marina italiana per secoli, ma esisteva un tipo di corda per ogni uso e le lavorazioni erano molte.

Il giro nel centro storico mi ha piacevolmente stupito, gli scorci da scoprire sono davvero tanti. Ma l’orgoglio dei Carmagnolesi, assieme alla chiesa Collegiata dei Santi Pietro e Paolo, è l’interno di Casa Cavassa, con i soffitti a cassettoni tra i più belli della provincia torinese.
Peccato non aver potuto visitare la Sinagoga barocca, tra le più belle d’Italia, segno della presenza a Carmagnola di una fiorente comunità che sfiorava, prima dell’emancipazione del 1848, circa le 200 unità.

Non si poteva organizzare un tour a Carmagnola senza dare un esempio dei produttori gastronomici di eccellenza che con passione danno lustro alla città.
I produttori di peperoni, ovviamente; uno fra tutti La Ca Veja, azienda agricola e agriturismo dove abbiamo anche pranzato a base di peperone di Carmagnola, passando per il porro dolce lungo e per il coniglio grigio, tutte eccellenze del territorio.



Una nota va all’entusiasmo contagioso della signora Chiara di C’era una volta una ricetta, che produce nel suo laboratorio artigianale deliziose conserve a base di prodotti dell’orto, con un occhio alla tradizione e l’altro alla sperimentazione. Recentemente è stata aggiunta anche una linea di pasticceria secca. I colori e i profumi delle sue conserve mi hanno letteralmente conquistata e meritano sicuramente una seconda visita.

Nel centro di Carmagnola si trova, invece, la Pasticceria Di Claudio, dove sono nati il peperone candito e la torta al peperone, oggi presenti in fiera. Anche in questo caso è il sorriso contagioso del titolare a conquistarci, assieme agli infiniti assaggi di tutti i prodotti e alle sue esaurienti spiegazioni: ci dice “diffidate di coloro che dopo tanti anni di lavoro in pasticceria si dicono nauseati dalla dolcezza; vuol dire che non stanno più lavorando con passione“. Anche per noi blogger è così! 😉

Ultimo ma non ultimo, il Carmagnolotto, l’agnolotto tipico di Carmagnola. Presentatomi in anteprima da carmagnolesi DOC, doveva contenere la carne delle vacche anziane e non più produttive, le giore, insieme al porro lungo dolce di Carmagnola, e doveva essere servito nello stesso brodo di carne di vacca o direttamente, nudo, sul tovagliolo. A La Ca’ Veja abbiamo trovato una versione di magro, con la sfoglia di farina di canapa e il ripieno di ricotta di bufala e peperone.
Allora, qual è il vero Carmagnolotto?
Visto che, come al solito, non mi fermo alla prima notizia, ho voluto approfondire: quello di magro è il Carmagnolotto edission limità” nato proprio per venire incontro ai vegetariani e per essere meglio apprezzato durante i giorni ancora caldi della Sagra, mentre dall’autunno potrete gustare nuovamente quello classico di carne.

Sfoglia di canapa a parte, assomiglia al mio raviolo ai peperoni, sperimentato un paio di settimane fa e riproposto in due cene diverse, visto il suo successo.
Un gusto decisamente esplosivo, visto che i peperoni all’interno del ripieno li ho messi a pezzettini, ben rosolati in aglio e acciughe, dopo esser stati passati in forno per eliminare ogni traccia di buccia e renderli digeribilissimi.
Io li ho conditi con un sughetto leggero di pomodorini freschi. Ne rifarò altri, per congelarli, nelle prossime settimane, per gustarli anche in inverno!

La ricetta: Ravioli ai peperoni, con sughetto di pomodorini e cubetti di Macagn

per la sfoglia:
200 g di semola rimacinata di grano duro
125 g di acqua tiepida
1 pizzico di sale

per il ripieno:
200 g di ricotta vaccina asciutta
2 peperoni grandi
2/3 filetti di acciuga
1 grosso spicchio d’aglio
qualche foglia di prezzemolo
olio
sale

Per il ripieno:
Arrostire i peperoni in forno a 200° per 35-40 minuti. Estrarli dal forno e riporli in un sacchetto di plastica per alimenti e chiuderlo bene fino a completo raffreddamento. Poi liberare i peperoni da semi e bucce e tagliarli a quadrettini di un cm di lato.
In una padella, rosolare in due cucchiai d’olio lo spicchio d’aglio appena schiacciato. Abbassare la fiamma e sciogliere i filetti di acciuga, poi aggiungere i peperoni e farli insaporire per qualche minuto, regolando di sale. Aggiungere anche alcune foglie di prezzemolo tagliuzzate fini.

Per la sfoglia, impastare farina e acqua con il pizzico di sale fino ad ottenere una pasta liscia e morbida. Lasciarla riposare sulla spianatoia infarinata, coperta da una ciotola, per circa mezz’ora.

Stendere la sfoglia molto sottile, e formare i ravioli della forma che preferite, con all’interno un cucchiaino di ripieno: questa volta ho usato questo forma-ravioli, badando di inumidire i bordi prima di chiudere il raviolo.

Lessare i ravioli in abbondante acqua salata prima di condirli con il sugo che preferite.
Io ho fatto un sughetto veloce con uno spicchio d’aglio e pomodorini maturi, insaporito da un rametto di maggiorana e arricchito da cubetti di Macagn*.

*il Macagn (o Maccagno) è un formaggio piemontese d’alpeggio, DOP e Presidio Slow Food

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Spaghettoni con zafferano e zucchine

Perchè il cacio e pepe si può fare anche così, colorato. Solo che al
posto del pepe nero ci metti un po’ di pepe bianco e poi ti viene in
mente che un po’ di zucchine saltate non guastano e poi ancora che con
le zucchine ci sta bene lo zafferano: diventa un altro piatto…buono
però e con tutto il colore del sole!

La ricetta: Spaghettoni con zafferano e zucchine
(per 2 persone)
170 g di spaghettoni
1 zucchina grande
30 g cipolla
1 bustina di zafferano
40 g di Parmigiano Reggiano grattugiato
olio
sale
pepe bianco
Mettere l’acqua per la pasta a riscaldare, nel frattempo lavare e tagliare le zucchine a cubetti e la cipolla a pezzettini minuscoli. 
In una padella versare due cucchiai d’olio e rosolare leggermente la cipolla, poi aggiungere le zucchine, rigirando per qualche minuto. Togliere dalla padella e tenere da parte.
Da parte, in una tazzina di acqua già calda sciogliere lo zafferano.
Salare leggermente (perchè il parmigiano porterà sapidità) l’acqua e versarvi la pasta. Far cuocere per cinque minuti.
Con un grosso forchettone prelevare gli spaghetti e travasarli nella padella, aggiungendo anche 2 mestoli dell’acqua di cottura. Far proseguire la cottura della pasta in padella, aggiungendo acqua bollente quando è necessario. Quando la pasta risulta quasi cotta aggiungere lo zafferano precedentemente disciolto e il parmigiano grattugiato e mescolare rapidamente formando un sughetto e aggiungendo ancora qualche cucchiaio d’acqua bollente se necessario. Assaggiare e regolare eventualmente di sale e di pepe. Per ultimi versare le zucchine per una veloce rigirata in padella e servire.
 

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Insalata d’orzo con pere e gorgonzola Non la solita insalata di cereali

Oggi una ricetta con pochissime parole.
Al contadino non far sapere quanto è buono il cacio con le pere, e al mio fidanzato non far sapere che esiste un modo davvero saporito per gustare l’insalata d’orzo!
 

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Oeuf à la neige per il Calendario Culinario La France à Table

Mentre tutte le foodblogger serie – quelle che ad agosto si stendono in spiaggia, italiana o straniera che sia – si prendono una pausa dal blog e dalla rete, io torno alla carica.
Io ad agosto resto a Torino e qualche giorno lontano dal blog me lo sono già fatto.
Quindi, o golosi cronici, voi che non siete in alcun modo scoraggiati o redarguiti dal caldo imperante (che ora arriva, oh, sì che arriva, è già qui!), ecco che troverete me ad allettarvi, incurante della canicola estiva, perchè ecco, sì… insomma… caldo o non caldo, si deve pur mangiare!
Quindi lasciatele perdere per un mese, le super foodblogger, e fatevi un giro qui, che da leggere ce n’è sempre…pure troppo!
L’Ile de France è la regione in cui si trova Parigi. Il suo nome deriva da île, isola, perchè territorio delimitato dai fiumi Oise, Marne, Epte, Aisne, Yonne ed Eure e attraversato dalla Seine, che bagna anche Parigi. Un’altra interpretazione vuole che la denominazione derivi Liddle Franke in lingua franca, appunto, che significa Piccola Francia.
Alla resa dei conti è tutt’altro che “piccola”, se non per il suo territorio, visto che è la più ricca regione di Francia e il suo reddito procapite è del 70% più elevato del resto della media Europea.
 
Un territorio ricco quindi e fortemente turistico.
In primo piano, ancora una volta, i castelli. Fontainebleau, con un’architettura che attraversa epoche e stili e con i suoi 115 ettari di giardini;
foto da http://www.williamcurtisrolf.com
il castello di Saint-Germain-en-Laye, anche questo notevole per la costruzione in sé, ma ancor di più per le collezioni al suo interno: ospita infatti il Museo di Archeologia Nazionale, che fa fare un viaggio attraverso 30.000 oggetti archeologici dal Paleolitico alla Gallia Merovingia del VIII secolo; 
se invece pensate che le cose preistoriche siano troppo distanti dai vostri gusti, ecco il Castello d’Ecouen, al cui interno sono conservati arazzi, ceraniche, mobili, gioielli e oggetti di uso quotidiano, risalenti al Rinascimento. 
Restando in tema di castelli e palazzi, non si può dimenticare Versailles… anche se, da torinese, ci tengo a dire che al progetto della Venaria Reale cominciarono a lavorare due anni prima…
Per le foodbloggers a caccia di props, l’ideale è fare un salto a Saint-Ouen, dove si svolge un mercatino delle pulci davvero celebre, il tempio europeo dei mercanti di anticaglie.
Un accenno lo merita anche Auvers-sur-Oise dove vissero e lavorarono molti pittori impressionisti francesi, quali Cezanne, Pissarro, Corot, Daubigny e dove morì Vincent Van Gogh, sepolto proprio nel cimitero di Auvers.


La ricetta francese di questo mese è un dessert fresco che ci
siamo spazzolati il dicembre scorso, mentre finivo di fotografare per il
calendario, ma che è adattissimo per concludere una cena anche se fuori
ci sono 30 gradi. La crema inglese la potete preparare in anticipo,
anche la sera prima; le nuvole, un po’ meno in anticipo, due ore prima di portare in tavola,
velocissime da montare e immergere per pochi istanti nell’acqua bollente
e quindi via subito sulla crema inglese. 
Attenzione, però! Alcuni confondono l’ oeuf à la neige con l’île flottante, invece come spiega una francese DOC sul suo blog, le seconde si differenziano per la cottura del bianco d’uovo che nell’île flottante è meringa cotta a bagno maria in forno. Nell’oeuf à la neige la quenelle di meringa viene adagiata nell’acqua bollente e lì cuoce per pochissimi minuti.

La ricetta: Oeuf à la neige

Per la crema inglese:
400 ml di panna fresca da montare
300 ml di latte intero
135 g di zucchero
6 tuorli
1 bacca di vanigliaPer le oeuf à la neige:
4 albumi
70 g di zucchero
1 cucchiaino di fiori di lavanda

Portare a ebollizione il latte e la panna assieme ai semini e alla buccia della bacca di vaniglia. Quando bolle, spegnere il fuoco e lasciare ancora la bacca in infusione per un quarto d’ora. Sbattere i tuorli con lo zucchero finchè non diventano chiari  e spumosi. Versare un po’ di miscela di latte e panna, bollente sui tuorli, mescolare bene e poi aggiungere, gradualmente tutto il liquido, mescolando. Far cuocere poi, in una casseruola, a bagnomaria, finché la crema non nappa il cucchiaio. Con il termometro da cucina, dovrebbe arrivare a 85°C.
La crema a questo punto va raffreddata velocemente, perchè non impazzisca: metterla quindi in una piccola boule e porre questa boule in una più grande, preliminarmente riempita di cubetti di ghiaccio. Mescolare finchè la crema non raggiunge la temperatura ambiente. Rimettere nella crema la buccia di vaniglia e porre il contenitore in fresco per almeno 6 ore.

Un’ora o due ore prima di servire il dolce preparare le oeuf à neige, montando gli albumi finchè non schiariscono ed aggiungendo poi lo zucchero, continuando a montare. Quando la meringa è pronta, scaldare una pentola d’acqua a circa 85°C ed immergervi poi la meringa a cucchiaiate, formnado delle grosse quenelles. Devono cuocere circa 7 minuti. Poi giratele e proseguite la cottura per altri 3 minuti. Deponetele su un piatto o un canovaccio pulito fino al momento di servire.

La crema va posta in coppe o bicchieri larghi e capienti e completata con le nuvole di meringa e, come ho fatto io, con i fiori di lavanda (oppure più semplicemente con qualche scaglia di mandorla o granella di altra frutta secca).

 

 

 

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Pane carasau e frattau per Informacibo, la Cucina Italiana nel Mondo

 

Tutta presa dalla smania di fare mammagatta, sono stata un po’ lontana dal blog e quindi mi trovo a dover rincorrere i tempi per partecipare ai contest che avevo segnato in agenda.

Assolutamente non potevo mancare all’appuntamento con il contest Bloggalline in collaborazione con Informacibo, per far conoscere La Cucina Italiana nel Mondo in vista dell’Expo 2015.
 
Ho scelto un pane – e di conseguenza un piatto – che mi ricordasse da dove vengo. Ho rispolverato le mie origini sarde e mi sono buttata, senza remore, nello sperimentare questo pane che mi ricorda le estati al mare di quand’ero ragazzina. Compravamo quello morbido, non ripassato in forno. Lo farcivamo di tonno o di formaggio e pomodori a fettine e poi lo arrotolavamo su se stesso, come se fosse un kebab. Lo adoravo; soprattutto adoravo quelle bollicine scure che vengono solo con il calore del forno a legna e che purtroppo non sono riproducibili con il forno di casa.

Per il contest ho preparato il pane e, dopo un primo tentativo un po’ più stentato, l’ho visto gonfiare davanti ai miei occhi proprio come un palloncino. Ho poi elaborato una ricetta tradizionale, il pane frattau, che fa ritornare morbido questo pane, bagnandolo con il brodo e insaporendolo con sugo di pomodoro e pecorino semistagionato, e di solito coronandolo con un bell’uovo in camicia.
 
Il termine carasau significa “biscottato”, ovvero cotto due volte. Le forme di pane, sottilissime, vengono impilate frapponendo tra loro uno strato di tela di lino o di lana, chiamato pannos de ispica o tiazas, poi vengono cotte ad una ad una in forno a legna, finchè il calore non le fa gonfiare come palloncini. Vengono poi estratte dal forno e divise in due strati, con un coltello molto affilato, badando agli sbuffi di vapore bollente che esce all’istante. I due sottilissimi strati ottenuti vengono ripassati in forno a legna fino a diventare croccanti. 
L’eliminazione di ogni umidità permetteva una lunghissima conservazione e, cosa molto più difficoltosa con un pane normale, il sottile strato poteva essere reidratato con brodo o acqua per permetterne il consumo ai pastori che seguivano le loro greggi per mesi, senza mai tornare alla civiltà.
 
Fin qui ho descritto la procedura molto semplicemente, ma in realtà il rituale di produzione di questo pane coinvolgeva molte donne in una sorta di catena di montaggio con un nome preciso per ogni operazione che veniva compiuta.
S’inthurta, la fase che prevede l’impasto vero e proprio della farina con l’acqua dove è stato sciolto il lievito; la fase del cariare o hariare, ricorda l’aratura per la violenza con cui il pane viene impastato sul tavolo, anche molto a lungo finchè non diventa liscio ed omogeneo; poi il pane deve pesare, ovvero alzarsi, lievitare, in speciali conche di terracotta; sestare significa dividere: l’impasto viene suddiviso inporzioni uguali e poi messo nuovamente a riposare per completare la lievitazione. 

Illadare significa stendere: le porzioni di impasto lievitato vengono appiattite con le dita e poi stese in cerchi – tundas – sottilissimi con l’aiuto di un piccolo mattarello. A questo punto ogni tunda viene depositata su una porzione di pannos de ispica che poi viene ripiegato sulla tunda stessa. I panni, che si conservano arrotolati, erano chiaramente tessuti a telaio ed arrivavano ad essere lunghissimi, anche dieci metri, per poter accogliere tantissime tundas e renderle trasportabili fino al forno a legna del paese.
Kokere è il momento della cottura, le tundas vengono deposte sul piano del forno a legna. Il forte calore le fa gonfiare e in questa fase diventano come palloni. Vengono tirate fuori dal forno e subito si sgonfiano. A questo punto un’altra donna si occupa di dividere le due metà, di fresare, una faccia sarà liscia, l’altra ruvida e rustica. Da notare che il verbo utilizzato per definire questa operazione evoca il nome delle friselle pugliesi, proprio perchè anche questi pani vengono divisi longitudinalmente a metà.
Le metà vengono poste sotto un peso, perchè non si curvino prima di essere nuovamente infilate in forno per pochi istanti; è la fase del carasare, ovvero della biscottatura. 
I pani dopo questa fase sono croccanti ed hanno perso ogni traccia di umidità che potrebbe farli ammuffire.
Qui un video bellissimo che illustra tutto il procedimento: 

 

[fonte per le fasi di preparazione: http://it.wikipedia.org/wiki/Pane_carasau]

 
Preparare questo pane in casa è possibile, pur scontrandosi con la difficoltà di un forno elettrico che non vi garantirà mai un risultato perfetto ma, vi assicuro, accettabile e molto soddisfacente. 
Le cose importanti che ho imparato sono tre:
1.  la stesura: deve essere davvero sottile; 
2.  la cottura: il forno caldo e chiuso fino al completo rigonfiamento; 
3. l’impilamento: bisogna schiacciare le forme divise in due con un peso, altrimenti i bordi si arricceranno e curveranno come è successo a me.
 
Non potevo che proporre anche un’idea di consumo per questo pane; il più tradizionale è il guttiau, insaporito solo con olio e sale, quello che vi illustro io è il frattau.
Il pane frattau, un tempo diffuso solo in Barbagia, è oggi diventato una prelibatezza per turisti. I suoi ingredienti semplici e la magia del pane spezzato fanno molto più di ricette complicate. 

 

 

 
La ricetta: Pane carasau e frattau
per il pane*:
250 g di semola di grano duro
140 g di acqua a temperatura ambiente
3 g di lievito di birra
3 g di sale 
 
per farlo diventare frattau:
pane carasau (1 sfoglia e 1/2 a testa circa)
300 ml di passata di pomodoro o polpa di pomodoro fresco a tocchetti
1/2 cipolla
sale
olio extravergine di oliva
erbe aromatiche
pecorino sardo tenero (una stagionatura che permetta di tagliarlo a fettine ancora umido, ma anche di grattugiarlo)
1 uovo in camicia a testa (per farlo in camicia potete seguire questo procedimento)Preparazione del pane: 
sciogliere il lievito nell’acqua, versarla nella farina e cominciare ad impastare, prima con una forchetta e poi con le mani. L’impasto sarà asciutto e compatto; aggiungere ancora il sale e lavorarlo a lungo sulla spianatoia, almeno dieci minuti o un quarto d’ora. 
Mettere l’impasto a riposare nella ciotola al riparo da correnti. Dopo circa un’ora riprenderlo e dividerlo in 4 panettini. Arrotondarli bene e metterli a lievitare al coperto, sotto una pellicola, ben spolverati di semola perchè non si attacchino al tavolo o alla pellicola che li copre.
Quando sono raddoppiati di volume si possono riprendere e si può iniziare a formare le tundas. Appiattire ogni panetto con il mattarello, schiacciando delicatamente e facendogli mantenere sempre una forma circolare. Il cerchio alla fine dovrà essere molto sottile e del diametro di circa 25-30 cm.
Stendere un canovaccio, spolverarlo di semola e deporvi il primo cerchio. Coprire con un altro canovaccio e procedere fino all’esaurimento dei panetti.
Accendere il forno a 220° e attendere il raggiungimento della temperatura. Infornare la prima tunda, l’ideale sarebbe su pietra refrattaria, ma anche una teglia calda va benissimo. Richiudere il forno ed attendere che il pane si gonfi, ci vorrà circa 1 minuto. 

***aggiornamento del 2 agosto: recupero dal cellulare la foto del pane in cottura…un palloncino perfetto!

 
Quando sarà ben gonfio aspettare ancora qualche secondo e poi estraetelo. In questo video Vittorio lavora a forno aperto, probabilmente il suo forno è molto più potente…quando io ho provato ad aiutare il pane a svilupparsi, come fa lui, ho ottenuto il risultato contrario…quindi sperimentate ma in linea di massima il forno deve restare chiuso. Mentre procedete con la cottura degli altri pani, iniziate a separare le due metà del primo, facendo attenzione al vapore che fuoriesce dall’interno. Una volta separate le due metà copritele con un canovaccio e schiacciatele con un peso.
A cottura ultimata procedete biscottando ogni cerchio per un minuto in forno caldo.

Preparazione del pane frattau:
preparate il sugo affettando finemente la cipolla, facendola dorare leggermente in due cucchiai d’olio ed aggiungendo poi la passata di pomodoro in conserva o fresca. Far cuocere ed insaporire il sugo e profumarlo con erbe mediterranee a piacere (basilico, maggiorana, timo, santoreggia…) 
Ammorbidire circa 1 cerchio e mezzo per ogni commensare, prima spezzettandolo grossolanamente e poi inumidendolo di brodo o di acqua. Non inzuppatelo, però, il pane deve mantenere consistenza!
Disporre nei piatti il carasau umido, coprirlo con il sugo di pomodoro, facendone un paio di strati ed aggiungendo qualche sottilissima fettina di pecorino fresco.
Completare con l’uovo in camicia e una grattugiata finale di pecorino.
Servire subito.

 
Durante la fase di spezzettamento le bricioline piccole di pane non vengono gettate ma conservate per essere inzuppate nel caffelatte a colazione!
 
*ricetta del pane rivista e rielaborata da qui
.

 

 

Con questa ricetta partecipo al contest La Cucina Italiana nel Mondo, lanciato in collaborazione con Bloggalline e Informacibo!

 

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ai fornelli, buffet salato, ricette originali, secondi piatti

Toad in the hole, il rospo nella tana diventa vegetariano

Il Parmigiano Reggiano lancia ogni anno una competizione internazionale la Parmigiano Reggiano Chef, ispirata ad un tema particolare: quest’anno è toccato al Cross Cooking, ovvero un modo di cucinare “trasversale” reinterpretando le ricette di altri paesi con le eccellenze del nostro.

Quale migliore occasione per sperimentare l’utilizzo del Parmigiano Reggiano in una ricetta tipica appartenente ad un’altra cultura.
Fin da subito mi sono concentrata sull’Europa, sulla quale mi sembra di essere più ferrata…ad un certo punto ecco l’illuminazione.
Il toad in the hole è un piatto tradizionale anglosassone. La locuzione significa “rospo nella tana” ma con i rospi ha davvero poco a che fare…si riferisce infatti a un pezzetto di salsiccia che viene immerso nella morbida pastella che compone la “tana”. Questa pastella si gonfia in forno tutt’intorno alla salsicccia avvolgendola completamente e gonfiandosi lascia pure un’apertura in cima, proprio come una buca scavata nel terreno.
Solitamente è accompagnato da puré di verdure, patate o sedano rapa, oppure da un sugo di cipolle.
 
Pare che una ricetta analoga di carne che viene racchiusa da una morbida pastella si trovi anche nel nostro italianissimo La Scienza in Cucina di Pellegrino Artusi con la denominazione di “Piccioni all’Inglese”. Non resta alcun dubbio quindi che questo modo di completare e cuocere la carne arrivi dal Regno Unito.
 
Ho trasposto questa ricetta in chiave “parmigianosa” e, vista la presenza del formaggio, ho preferito declinarla in leggerezza, trasformandola in vegetariana. Scegliete verdure di stagione, che sono più saporite, e le erbe e le spezie che preferite, per rielaborare questa ricetta all’infinito. E provatele anche con la salsiccia… vi assicuro che sono deliziose.

 

 

 

La ricetta: Toad in the Hole vegetariani
125 g di farina
2 uova grandi
100 ml di birra
80 ml di latte intero
50 g di Parmigiano Reggiano 14 mesi
sale
pepe
olio extravergine d’oliva
 
1 zucchina grande
1 peperone
1 cipolla
olio
sale
timo
 
Per il rospo: cominciare dalle verdure, pulendole e tagliandole a tocchetti.
Scaldare in una padella un filo d’olio e rosolarvi la cipolla affettata finemente. Aggiungere poi le verdure e far proseguire la cottura a fuoco vivace per alcuni minuti. Le verdure devono restare abbastanza sode. Regolare di sale ed insaporire con il timo.
 
Scaldare il forno a 190°.
 
Per la tana: sbattere le uova con un pizzico di sale. Aggiungere la farina tutta insieme e cominciare a mescolare aggiungendo il latte a filo. Aggiungere poi il Parmigiano Reggiano grattugiato, il pepe ed infine la birra.
Scaldare uno stampo per 12 muffin in forno con una goccia d’olio in ogni scomparto. Estrarre dal forno e mettere in ogni stapino un mestolino di impasto, fino a suddividerlo in tutte le formine.
In ogni tana mettere poi una cucchiaiata di verdure.
Infornare subito per 15 minuti, aspettando che la “tana” cresca in altezza e diventi dorata.
 
Servire subito.

 

 
 
 

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ai fornelli, eventi&co, foodblogging

La Galleria del Sapore Cirio e una ricetta legata al ricordo di casa

Vi racconto una bella storia, di quelle che piacciono a me.

Francesco Cirio, nato a Nizza Monferrato da un padre commerciante di granaglie, fin dalla più tenera età ebbe uno spirito imprenditoriale non da poco: ragazzino di undici anni andava a piedi al mercato di Nizza Monferrato, riempiva la sua cesta di ortaggi e andava a rivenderli a Fontanile, dove abitava, consegnandoli porta a porta.


Trasferitosi a Torino, qualche anno più tardi, assieme al fratello Ludovico, e con un lavoro di scaricatore di vagoni ferroviari, acquistava frutta e verdura a Porta Palazzo all’orario di chiusura e a prezzi ragionevoli per andare a rivenderla nelle borgate periferiche che avevano pù difficoltoso accesso al mercato ortofrutticolo.

L’attività dovette rendergli tanto che in poco tempo riuscì ad acquistare un carretto per ampliare il giro di consegne, mentre si arrovellava su come portare verso la stagione fredda i frutti dell’estate.


Il metodo era stato inventato in realtà da Nicolas Appert nel 1795 e presentato al pubblico nel 1810: i più svariati cibi venivano messi in bottiglie di vetro, sigillati e poi tenuti in acqua bollente finchè non erano cotti: questo garantiva una lunga conservazione del prodotto.
Nel 1856 Cirio prese in affitto un locale in via Borgo Dora 34, a Torino, dove fece installare le caldaie per le lavorazioni: cominciò con la sperimentazioni, prima i piselli, seguiti da altre lavorazioni, fino ad arrivare al pomodoro, che fece la sua fortuna.

All’Esposizione Universale di Parigi del 1867 il marchio era già affermato; ne conseguì l’apertura di altri stabilimenti in tutta Europa: a Castellammare di Stabia, Milano, Parigi, Vienna, Berlino, Londra, Bruxelles e Belgrado, mentre le merci già viaggiavano su vagoni ferroviari verdi bianchi e rossi a tariffe agevolate grazie all’apposita legge Cirio varata dal ministro DePretis.


Nel frattempo fioccano le storie sul suo piglio imprenditoriale. Si
racconta che saputo dell’opportunità di vendere dei cavolfiori a
Berlino, ne mandò un cospicuo rifornimento; avvisato del’invenduto si
mosse personalmente con un carico di burro e vino, comunicando che a
chiunque avesse acquistato i cavolfiori italiani sarebbe stato fornito
burro per condirli e vino per annaffiarli, con il risultato di fare in
poche ore il tutto esaurito. 

Francesco Cirio, come i grandi imprenditori alla ricerca di sempre nuove occasioni, aprì un negozio e un albergo a Torino, divenne esportatore di uova, coltivatore di tabacco, imprenditore agricolo, senza mai fermarsi, ma purtroppo alcune operazioni sbagliate portarono a un tracollo del patrimonio poco prima della sua morte.
Nello stesso anno, nel 1900 nasce la «Cirio società generale conserve alimentari», con gli
stabilimenti di punta in Campania a San Giovanni
a Teduccio di Napoli, e Pontecagnano, in provincia di
Salerno.


Il 25 giugno Cirio è tornata a Torino, proprio dove tutto è cominciato, per giocare con il mondo delle foodbloggers e dell’arte, nella cornice d’eccezione della sede della Città del Gusto del Gambero Rosso.
L’artista è 9periodico, giovane emergente romano, che ha ideato per Cirio una serie di tele naif piene di colore.
Le foodbloggers, 16 e scatenate, eccole qua! Riuscite a riconoscermi?

Siamo state testimoni di questo momento di arte producendo noi stesse arte in cucina, mentre 9periodico si dava da fare con fogli e pennelli…

Ecco… le sabaude, contattate da Mariachiara Montera e pronte a tutto, hanno davvero dato il meglio di sé sui social anche prima dell’evento. La sera della sfida, invece, concentrazione assoluta (unita a tante risate, a dire il vero) per tutta la durata della gara! 😀

Ad ogni foodbloggers è stata assegnata una scatola del mistero, in modo casuale, con un ingrediente misterioso e una spezia o un semino da abbinare. Dopo il giro in dispensa per prendere qualche altro ingrediente, ognuna di noi si è messa all’opera per preparare il proprio piatto.

Sono stata fortunata: mi è capitata la ricotta, ingrediente versatile e perfettamente nelle mie corde. L’idea di farne polpettine mi è venuta all’istante, le polpette di ricotta fanno parte della tradizione di famiglia da tempo – le faceva mia nonna, belle grosse, e mio nonno le chiamava bombe, e mia madre le ha sempre fatte in casa, con  il sugo di pomodoro con la cipolla e di solito del prezzemolo nell’impasto.
Io ho usato la maggiorana per insaporire e i semini di papavero presenti nella mistery box per aggiungere un tocco di croccantezza.

Grazie a questa felice intuizione e ad un po’ di fortuna ho anche rimediato una felicissima vittoria, colpendo in qualche modo, con il sapore e la semplicità di questo piatto lo chef giudice della gara Luca Ogliotti.

[Le foto della serata sono di Davide Bellucca.]


Ed ecco la mia ricetta per la Galleria del Sapore Cirio: Il cerchio di Giotto, ovvero polpettine di ricotta con i semini di papavero e un sugo tondo tondo con La Polpa Più Cirio.

(ingredienti per 4 porzioni)

per il sugo:
1 lattina di Polpa Più Cirio
1 cipolla piccola
1 rametto di maggiorana
olio extravergine
sale
peperoncino

per le polpettine:
500 g di ricotta vaccina o di pecora
100 g di pecorino grattugiato
100 g di pangrattato
2 cucchiai di semini di papavero
2 uova
sale
maggiorana

In una padella capiente, versare due cucchiai d’olio e rosolarvi la cipolla tritata per qualche minuto, poi aggiungere la Polpa Più Cirio e fare cuocere per circa un quarto d’ora a fuoco lento, senza far addensare, aggiungendo all’occorrenza un po’ d’acqua. Regolare di sale ed aggiungere un rametto di maggiorana e mezzo peperoncino per insaporire.
Nel frattempo schiacciare la ricotta con la forchetta, aggiungere il pecorino, i semini di papavero e un cucchiaino di maggiorana tritata, creando un composto omogeneo; regolare di sale, poi aggiungere le uova leggermente sbattute e il pangrattato; aggiungerne un po’ se il composto risulta troppo morbido. Formare delle palline grosse come una noce e poi metterle a cuocere nel sugo di pomodoro, coprendo la padella con un coperchio. Ogni tanto far rigirare il contenuto della padella per far cuocere uniformemente le polpettine. Dopo un quarto’ora circa saranno pronte.
Prelevare con un cucchiaio un po’ di sugo e deporlo sul fondo dei piatti. Adagiarvi sopra le polpettine e decorarle con foglioline o fiorellini di maggiorana fresca.

 
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