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Quadrotti friabili al cacao e nocciole, senza burro Biscotti con olio (di semi o di oliva) nell'impasto e tante nocciole

Questi biscotti sono adatti a una domenica di pioggia o ad accompagnarvi nell’inizio della settimana. Leggeri e intensi, perfetti anche con il sole che oggi mi ha letteralmente colta di sorpresa.
Sono semplici e veloci da fare, con una forma davvero rustica, niente formine o ritagli complicati, solo un impasto da stendere alto, quanto le nocciole intere che sono all’interno, e da tagliare a quadrati regolari.

Ho pensato di sostituire il burro con olio per un risultato più leggero e successivamente, avendo un po’ di albumi in frigo, ho utilizzato il solo bianco d’uovo al posto dell’uovo intero.

 
Ne derivano dei biscotti sbriciolosi e friabili, ma le nocciole sono valorizzate anche dalla differenza di consistenza. 
Il consiglio naturalmente è di usare nocciole di ottima qualità, come la Tonda Gentile delle Langhe che ho usato io oppure la nocciola IGP di Giffoni. Se usate delle nocciole in granella, potrete fare biscottini più sottili e più piccoli, a voi la scelta!
 
Con questo post ringrazio Valentina, la blogger di Latte Dolce Fritto; anche questo blog, conosciuto da poco, mi ha subito conquistato. Valentina mi ha fatto dono di un piccolo premio, questo:
 
Non sono solita continuare le catene, ma mi ha fatto davvero piacere e visto che fin dall’antica Roma era uso regalare piantine di nocciole per augurare felicità, io omaggio Valentina con questi super biscotti alla nocciola, con lo stesso augurio.
E a tutti voi, che mi leggete e mi seguite con affetto, una cascata di biscotti alla nocciola per un felice inizio di settimana!

 

 

La ricetta: Quadrotti friabili al cacao e nocciole, senza burro
(ho seguito la ricetta di Francesca, ma ho dimezzato le dosi. Ho cambiato il burro con l’olio di semi, nella proporzione di 100 g di burro a 80 g di olio di semi, e l’uovo intero con pari peso di albume)

225 g di farina
15 g di cacao amaro
60 g di olio extravergine di oliva (o di semi di girasole)
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
80 g di zucchero a velo
1 albume
85 g nocciole (le mie qualità tonda gentile delle Langhe)

Mescolare in una grande ciotola farina, cacao e zucchero. Aggiungere mescolando l’olio e poi l’albume, formando grosse briciole di impasto. Completare con le nocciole intere e la vaniglia. Formare un panetto alto due dita e riporre in frigo a raffreddare per un’oretta.
Stendere l’impasto in un rettangolo spesso quanto le nocciole e ritagliarlo in quadrotti di 5 cm di lato.
Infornare a circa 180° per circa 13 minuti.
Maneggiare delicatamente finchè non sono ben freddi.

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ai fornelli, ricette tradizionali

Semolini dolci fritti: semplici golosità

Una ricetta della tradizione, immancabile nel fritto misto alla piemontese, ma che scopro essere diffusa in altre parti d’Italia. D’altronde gli ingredienti sono di una semplicità assoluta, il semolino, il latte, lo zucchero, la buccia del limone.
 
Ecco la ricetta dell’Artusi che val la pena leggere già solo per il suo lessico affascinante:
170. Fritto di Semolino
Semolino di grana fine, grammi 70 a 80.
Latte, decilitri 3.
Uova, n. l.
Zucchero, tre cucchiaini.
Burro, quanto una noce.
Sale, un pizzico.
Odore di scorza di limone.
Ponete
il latte al fuoco col burro e lo zucchero e quando comincia a bollire
versate il semolino a poco a poco, girando in pari tempo il mestolo.
Salatelo e scocciategli dentro l’uovo; mescolate e quando l’uovo si è
incorporato levate il semolino dal fuoco e distendetelo sopra a un
vassoio unto col burro o sulla spianatoia infarinata, all’altezza di un
dito. Tagliatelo a mandorle e mettetelo prima nell’uovo sbattuto poi nel
pangrattato fine e friggetelo. Spolverizzatelo di zucchero a velo, se
lo desiderate più dolce, e servitelo solo o, meglio, per contorno a un
fritto di carne.

 
Io normalmente non metto l’uovo all’interno, e faccio riposare in infusione le bucce di un limone bio nel latte caldo. 
Appena fatti sono croccantissimi, con quel dolce che appena si sente. Una coccola che sa di antico.
 
La ricetta: Semolini dolci fritti
250 ml di latte intero
50 g di semolino
25 g di zucchero
la buccia di un limone
1 uovo
pangrattato q.b.
sale
olio per friggere q.b.
zucchero semolato per guarnire q.b.
 
Per prima cosa prelevare la buccia del limone con un pelapatate. Metterla nel latte e farlo scaldare. Lasciar riposare il latte così per mezz’ora.
Riaccendere il fuoco e, quando il latte è caldo, aggiungere lo zucchero e farlo sciogliere. Quando il latte bolle, togliere le bucce di limone e versare a pioggia il semolino; mescolando, far cuocere e addensare per cinque minuti. Aggiungere 1/2 uovo sbattuto amalgamando all’impasto.
Versare il semolino così ottenuto in un piatto o una teglia rettangolare unta d’olio, dell’altezza di 1,5-2 cm e pareggiarlo con il dorso di un cucchiaio bagnato in acqua fredda.
Lasciar raffreddare e rassodare, anche tutta la notte. 
Tagliare il semolino a losanghe, passarle nell’uovo e poi nel pangrattato e friggere finchè non sono dorate.
Cospargere di zucchero semolato.
 

 

ai fornelli, ricette tradizionali

Ābolu pankūka per l’Abbecedario Culinario

La ricerca di una ricetta per l’Abbecedario Culinario che questo mese fa tappa in Lettonia, ospite del blog di Brii, non è stata semplice.
La cucina lettone è contaminata da quella dei paesi limitrofi,e non è semplice capire se una ricetta sul web proviene davvero dalle tradizioni di questa terra o è frutto di contaminazioni recenti. In compenso, una certezza: ho letto ovunque che in Lettonia si mangia benissimo e che i suoi abitanti sono dei veri buongustai, ragione di più per me, che sono attratta dai paesi del Nord Europa, di visitarla presto.
Le ricette veramente tradizionali in cui sono incappata erano quasi tutte
a base di patate e con i giorni di primavera che questo marzo
ci ha già regalato avevo voglia di qualcosa di più fresco.
Alla fine, come spesso accade la ricetta l’ho scelta per golosità: mele, cannella e cardamomo… ed ero già conquistata! 
Il blog da cui ho preso la ricetta è questo e, viaggiatori dell’Abbecedario Culinario, vi consiglio di dargli un’occhiata perchè la sua autrice ha cucinato e condiviso 195 ricette da 195 paesi diversi in 195 settimane e la sua bimba ha assaggiato i 195 piatti in questione, prima di compiere 5 anni. Non proprio tutti i piatti sono stati di suo gradimento: guardate il video! 😀 
Ma l’iniziativa è nata per offrire un messaggio di pace globale al mondo: Hungry for Peace. Eat Global, Shop Local. 
In Lettonia ci sono molti dolci tradizionali a base di mele. Queste frittelle sono una via di mezzo tra i pancakes anglosassoni, le crêpe francesi e i blinis russi.
Le mele che le completano sono ovviamente speziate, con la cannella e con un tocco di cardamomo, molto utilizzato a queste latitudini.
L’autrice del blog ci dice che i lettoni mangiano spesso questo piatto a colazione, servito caldo e accompagnato da yogurt e miele o confettura.
La ricetta: Ābolu pankūka


1 mela croccante (o anche 1 e mezza)
poche gocce di succo di limone
1/2 cucchiaino di cannella
1/2 cucchiaino di cardamomo
25 g di zucchero
3 uova
28 g di burro
da 120 a 240 ml di latte (da aggiungere gradualmente)
125 g di farina
1 pizzico di sale
burro per cuocere
Pelare e affettare finemente la mela con la mandolina. Spruzzarla con qualche goccia di succo di limone perchè non annerisca e cospargerla di spezie e di zucchero.
Sbattere le uova con la farina e il pizzico di sale formando una pastella liscia. Aggiungere il burro sciolto e gradualmente il latte a filo fino a raggiungere una consistenza più liquida dei pancakes e più densa delle crêpe.
Aggiungere le mele e cuocere da entrambi i lati in una padella unta di burro finchè non sono dorate.
Qualche consiglio:
– io ho dimezzato le dosi, ma la mela l’ho messa tutta, perchè si sentisse un po’ di più sotto i denti; 
– se non trovate il cardamomo in polvere o se non riuscite a tritarlo, scaldate il latte con i semini, e poi filtratelo;
– io ho allargato queste frittelle su tutta la superficie del padellino ma vi consiglio di farle più piccole e magari più spesse;
– ho completato con yogurt bianco e miele; ci sta bene anche qualche semino (di lino o di girasole).

Questa ricetta va dritta dritta ad arricchire la raccolta dell’Abbecedario Culinario per la Lettonia.

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Triangolotti di farina di farro con radicchio e gorgonzola

Quest’oggi non ci perdiamo in chiacchiere ed andiamo dritti alla ricetta.
Una sfoglia consistente e rustica a base di farina di farro racchiude un ripieno di gorgonzola e radicchio, reso omogeneo dalla ricotta. A completare il piatto, burro fuso, aromatizzato all’aglio, con una cascata di noci sbriciolate.

La ricetta: Triangolotti di farina di farro con radicchio e gorgonzola
per la sfoglia:
150 g di farina di farro
75 g di semola di grano duro Senatore Cappelli
per il ripieno:
1/2 cespo di radicchio tondo (da cotto ne ho prelevato 80 g)
100 g di gorgonzola
50 g di ricotta
1 tuorlo
1 spicchio d’aglio
1 cucchiaio d’olio
sale
per il condimento:
1 noce di burro a persona
2 noci a persona
1 spicchio d’aglio a persona
Preparare l’impasto per la sfoglia, miscelando le due farine con un pizzico di sale un poco d’acqua tiepida. Lavorare bene l’impasto finchè non è sodo ma perfettamente liscio. Coprire con una ciotola e far riposare una mezz’ora.
Pulire e tagliare finemente il radicchio. Farlo saltare in padella per pochi minuti con l’olio, l’aglio e un pizzico di sale. Quando è tiepido unirlo al gorgonzola e alla ricotta scolata e formare un impasto omogeneo e asciutto. Assaggiare ed eventualmente regolare di sale (se il gorgonzola è quello piccante, non serve). Aggiungere il tuorlo e mescolare bene.
Stendere la sfoglia sottilissima, con il mattarello o fino allo spessore minimo con la macchinetta.
Ritagliare tanti cerchi del diametro di 6 cm e deporre al centro di ognuno una pallina di ripieno della grandezza di un’oliva.
Inumidire man mano qualche cerchio sul bordo. Per formare i triangolotti sollevare tre lembi dalla circonferenza e portarli verso il centro, poi unire tutti i bordi. (è più facile a vedersi che a spiegarlo!)

Portare a bollore l’acqua per la cottura della pasta.
Per il condimento, sminuzzare le noci al coltello. Far sciogliere il burro in padella con due spicchi d’aglio. Quando il burro spumeggia, togliere l’aglio ed aggiungere le noci. Spegnere il fuoco.
Cuocere i triangolotti al dente sono pronti, scolarli con una schiumarola e passarli in padella nel burro fuso prima preparato.

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Para frittus, le frittelle a forma di frate Golose ciambelle fritte della tradizione sarda

Non potevo far passare il Carnevale di quest’anno senza regalarvi i parafrittus.
 
Erano un paio d’anni che mia madre esprimeva il desiderio di prepararli, prima di farsi prendere da altri propositi più salutisti e ripiegare su dolci al forno.

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ai fornelli, al cucchiaio, dolci, storia & cultura

Pommes meringuées con uvetta e cannella per il mese di marzo in Normandia.

Per il calendario culinario La France à Table oggi viaggiamo fin nel nord della Francia.

La Normandia è considerata la culla dell’Impressionismo, non solo per Claude Monet, che vi soggiornò lungamente e la scelse per più di 40 anni ma perchè moltissimi altri pittori dell’epoca rappresentarono su tela i suoi paesaggi.
 
Gli storici dell’arte mettono agli albori dell’impressionismo il Déjeuner sur l’herbe di Manet, esposto al Salon des Refusée (dove venivano esposti i dipinti rifiutati dal Salon ufficiale) nel 1863.
Il dipinto  venne riproposto con una chiave diversa e con lo
stesso titolo dal giovane Monet nel 1865: il suo Déjeuner sur l’herbe
stacca nettamente dalla
pittura classica, anche se ancora lontano dalle pennellate di colore che
saranno il tratto distintivo della nuova corrente pittorica.
i due “Déjeuner” di Manet e di Monet
 
Claude Monet era nato a Parigi ma già nel 1845, a 5 anni, si era trasferito con la famiglia in un sobborgo di Le Havre, sull’estuario della Senna, in Alta Normandia, dove il padre gestiva una drogheria. 
Quasi subito Monet si sentì predisposto per la pittura di paesaggio en plein air, prima ancora che l’impressionismo venisse codificato. Nel 1859 si era trasferì a Parigi, incontrando tutti gli esponenti del circolo nascente, pittori, poeti e scrittori, che coloreranno almeno quattro radiosi decenni di Francia. Con alcuni, ad alterne vicende, si trovò anche a dividere lo stesso tetto, mentre il suo interesse per la resa della luce e la pittura di paesaggio venne influenzato dalla permanenza in Marocco, durante il servizio militare, e durante i soggiorni a Trouville, ad Argenteuil e a Londra. Qui ebbe anche la possibilità di studiare le opere di Turner e Constable, pittori romantici inglesi di paesaggio.
Nel 1874 era nuovamente a Parigi, quando si inaugurò la mostra del gruppo Societé anonyme des peintres, sculpteurs et graveurs, nello studio del fotografo Nadar, e qui Monet esponne la sua Impression, soleil levant, che diede il nome all’Impressionismo stesso. Pennellate di colore che sono luce, per un quadro dipinto che rappresenta proprio il porto di Le Havre all’alba.

Altri luoghi in Normandia conservano memoria di Monet.
A Giverny egli visse dal 1883 al 1926, in una bellissima casa con giardino che oggi è museo. Fare il confronto tra le fotografie e i suoi dipinti è emozionante:

 

A Rouen, la cittadina di origine medievale che vide la morte sul rogo Giovanna d’Arco, Monet dedicò una serie di sue opere alla cattedrale gotica, fino a produrre più di 30 tele, tra
il 1892 e il 1894
, e nel periodo più produttivo fino a 14 versioni diverse in un solo giorno, seguendo i cambiamenti indotti dal mutare della luce.

Un altro soggetto che incantò Monet, tanto da indurlo a rappresentarlo molte volte e farne oggetto di studio per la luce, furono le scogliere di Etretat.

E qui potete vedere la stessa scogliera in una fotografia recente:

 
La Normandia non è però solo un luogo dai paesaggi incantevoli, ma è tra le regioni francesi la maggiore produttrice di mele. Si conta una stima di 7 milioni di alberi di mele, come uno sterminato frutteto, che tra ottobre e novembre si colorano di frutti. Tra le varietà più note la Belle de Boskoop, la Cox Orange, la Jonagold, la Reine des Reinettes.

La mela è quindi molto utilizzata in cucina, ma è soprattutto la materia prima per la produzione della bevanda più diffusa. La Normandia è l’unica regione di Francia a non avere vigneti, qui si beve il sidro. C’è anche una Route du Cidre, circa 40 km che si snodano tra cantine e frutteti.

E se in Normandia il vino sta al sidro, la grappa sta al Calvados, profumatissimo distillato a base di sidro, che vanta una storia risalente al 28 marzo 1553, la prima citazione scritta del prezioso nettare. Non è leggenda il trou normand, narrato da Maupassant e da Flaubert, ovvero il bicchierino di Calvados da buttar giù tutto d’un fiato a metà dei luculliani pasti per scuotere lo stomaco e far posto ad altre vivande.
La Normandia è anche terra di qualitativamente importanti bovini da latte e di celebri e raffinati formaggi ed è la seconda produttrice francese di ostriche, ma la protagonista della ricetta di questo mese doveva essere la mela. Non in forma di tarte normande, la celebre crostata di mele e calvados, ma più semplicemente una mela meringata, semplicissima da preparare, un finepasto semplice e golosissimo.
 
La ricetta: Mele meringate all’uva passa e cannella

(per 4 persone)
2 mele grandi
10 g di burro
1 cucchiaino di zucchero
1 cucchiaino di cannella
4 cucchiaini di marmellata di mele
2 cucchiai di uva passa
1 bicchierino di Calvados (o in assenza brandy)

1 albume
30 g di zucchero

Tagliare le mele a metà, sbucciarle e togliere la parte centrale con i semi. Cospargerle di succo di limone.Mettere a bagno l’uvetta nel bicchierino di Calvados.
Mettere le mezze mele in padella con il burro e la cannella e farle cuocere coperte per 10 minuti, rigirandole spesso.
Scolarlele mele e disporle in una piccola teglia con il buco verso l’alto. Mettere in ogni cavità un cucchiaino di marmellata di mele e l’uva passa, scolata.
Scaldare il forno a 160°C.
Cominciare a montare a neve l’albume e, quando diventa schiumoso, aggiungere i 30 g di zucchero e finire di montare.
Disporre la meringa su ciascuna mezza mela ed infornare subito. Lasciar cuocere finchè la meringa non è soda in superficie (all’interno resterà più morbida).

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Le bugie che uniscono l’Italia… Il dolce di Carnevale più amato e conosciuto

bugie-chiacchiere-cenci
Forse e senza forse, le bugie sono il dolce carnevalesco più conosciuto e diffuso, tanto che tutte le regioni d’Italia ne hanno la propria versione e danno loro un nome tipico, caratteristico ed evocativo.
 

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ai fornelli, lievitati, pane&co, ricette tradizionali

Panini americani da hot-dog Soffici e gustosi perfetti per gli hot-dog fatti in casa

Come promesso ieri, ecco che dopo il ketchup, arriva la ricetta dei panini da hot-dog.
Sono molto sostanziosi, contengono latte, burro e uova. 
Perchè farli, dunque? Perchè vale il principio del “va bene una volta ogni tanto” e perchè quelli acquistati non sono buoni: sono normalmente intrisi di alcool etilico per conservarli, come gli altri pani in busta, anche quelli affettati, e contengono altri additivi.

 

Quindi per regalarsi ogni tanto una american style dinner fra amici, meglio prepararli in casa, con un procedimento semplicissimo!
Con questa ricetta si possono fare anche i buns da hamburger; la forma in quel caso sarà tonda!

Panini da hotdog

per circa 7-8 panini per hot dog (la ricetta originale con queste dosi consiglia 6 pezzi, ma guardate le foto e considerate se per voi la grandezza dei panini è soddisfacente):
340 g di farina 0
1 cucchiaino di lievito di birra liofilizzato (3,5 g)
2 cucchiai di zucchero
1 cucchiaino di sale fino
25 g di burro
75 g di acqua
100 ml di latte
2 tuorli d’uovo

In una ciotola capiente, o in quella dell’impastatrice, mettere tutti gli ingredienti secchi: farina, sale, zucchero e lievito e mescolare.
In un pentolino scaldare la’cqua con il burro, fino a farlo sciogliere completamente, poi aggiungere il latte e controllare che la temperatura sia intorno ai 50°C.
A questo punto aggiungere il mix liquido a quello secco, impastando prima con una forchetta e poi con le mani, o lasciando andare l’impastatrice per 10 minuti.
Quando l’impasto si forma aggiungere il primo tuorlo e poi a seguire il secondo quando il primo è ben assorbito.
Raggiunti i 20 minuti di impasto, mettere a lievitare in uan ciotola leggermente unta, in luogo tiepido.
Quando l’impasto è raddoppiato, prenderlo e sgonfiarlo,
Ricavarne porzioni da 60 g l’una. Riprendere ogni porzione e arrotolare la pasta su se stessa, per darle forza, poi formare dei rotolini lunghi circa 12-14 cm.
Così come in foto sono venuti belli cicciotti, se li preferite più sottili e lunghi, tirateli di più alle estremità, sempre con molta delicatezza.
Deporre tutti i panini su una teglia ricoperta di carta forno infarinata ed attendere il raddoppio (circa un’ora).
Scaldare il forno a 210°C, spennellare i panini con un po’ di latte ed infornarli per 10-15 minuti, controllando la doratura.

 

 

 

Per farcirli ho usato dei wurstel bolliti, il mio ketchup fatto in casa, un poco di senape e i crauti marinati di Giulia. Secondo me sono ottimi se accompagnati dalle chips di Marina.
I crauti devono essere marinati in anticipo; prima di portarli in tavola io li passo in pentola, aggiungendo cipolla e qualche cucchiaio d’olio e irrorandoli durante la cottura con la marinatura. Per farli diventare morbidi occorrono circa 40 minuti, ma potete anche decidere di lasciarli più croccanti.
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Ketchup fatto in casa

Mi è venuta voglia di fare una piccola cena american style.
L’idea era quella di preparare saporiti hot-dog e concludere con una mini lemon cheesecake (ve le ricordate?!?)
Naturalmente tutto ciò non sarebbe stato opportuno per una foodblogger, se non avessi preparato in casa tutto il preparabile: i panini, naturalmente, soffici-soffici e dolci, e il ketchup.

Veniamo alla ricetta del ketchup, che da molti mi è stata richiesta, dopo aver visto le foto su facebook.
Ho cercato in rete e alla fine mi sono arenata come spesso accade, da Martina, che sembra sempre essere una delle foodblogger più attendibili per ciò che riguarda l’homemade (e anche le preparazioni lievitate!)
Ho trovato il ketchup da lei, ed ho iniziato a pensare di sostituire la cipolla disidratata con quella fresca, ma nella conta degli ingredienti mi sono accorta di non avere abbastanza miele in casa, quindi ho deciso di seguire una strada diversa, tra l’altro utilizzando la passata invece del concentrato di pomodoro, che mi sembra sia sempre “corretto” con dei conservanti.
La ricetta, veramente improvvisata e quasi ad occhio, è riuscita benissimo. Il sapore si avvicina molto al ketchup, dolce e acidulo, ed è senza tutte quelle schifezze che si trovano nelle preparazioni industriali. Si conserva in frigorifero per 5 giorni, abbiate solo l’accortezza di coprire la superficie della salsa, in una bottiglietta o barattolino stretto, con un filo d’olio perchè non si rischi la formazione di muffe. Forse è possibile anche metterlo sottovuoto…io ne ho fatto una piccola quantità e l’abbiamo consumato entro pochi giorni, sebbene non sia una salsa che di norma utilizziamo spesso.
Prima di lasciarvi la ricetta vi lascio un po’ di storia.
La parola ketchup deriva dall’antico malese kecap, che indica una salsa a base di pesce azzurro lasciato fermentare, oppure dal persiano ket-siap, salamoia di pesce.
Proprio da qui si vede che il kechup ha un antenato comune ed illustre con queste salse, il garum, la salsa che gli antichi romani
utilizzavano un po’ su tutto (un po’ come i bambini malati di junk food,
che utilizzano il ketchup pure sugli spaghetti). 

Se volete sapere un po’ di più sul garum, che Apicio, negli scritti che ci sono arrivati, consigliava come completamento di una miriade di ricette, potete sbirciare su archeoricette, dove le informazioni su questa strana salsa sono sempre in aggiornamento. Io vi lascio solo una citazione di Seneca, maestro di temperanza e salutista ante-litteram che in una sua lettera a Lucilio scrive:

«E quella salsa che viene dalle province – è il garum di cui parlava anche Plinio – preziosa poltiglia di pesci guasti, non credi che bruci le viscere col suo piccante marciume?

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Dalla fine dell’Impero Romano, il garum sembra sparire in Europa nella conoscenza e nel gusto comune, suppongo soppiantato dai sapori dolci più apprezzati nel Medioevo.
La salsa torna in Europa al seguito degli esploratori olandesi e inglesi in spedizione in Oriente nel XVII secolo: nel 1690 la parola catchup appare in stampa, soppiantata da ketchup nel 1711, ma l’antica salsa a base di pesce fermentato era costosa da importare e gli inglesi cercano un modo per produrla in casa personalizzandola, a seconda dei cibi ai quali si accostava, con ostriche, funghi, noci e limone.
Si ritrova questa salsa nel libro The Compleat Housewife or Accomplished Gentlewoman’s Companion di Eliza Smith, pubblicato nel 1727 in Inghilterra, un manuale per le casalinghe e governanti; si trovano indicazioni per la preparazione con 12-14 acciughe, 10-12 scalogni, vino bianco, aceto bianco, zenzero, chiodi di garofano, pepe, noce moscata, succo di limone, macis e rafano.
Ma furono i funghi la costante in Inghilterra, talvolta con l’aggiunta di
noci. Pare che ci sia una ricetta con funghi e noci nel libro di cucina
di Martha Lloyd, che veniva preparata niente meno che nella famiglia di
Jane Austen
(e che probabilmente le ispirò tutte le visioni d’amore
romantico che caratterizzano i suoi scritti).
La prima ricetta col pomodoro si ha nel 1801, nel libro Sugar House Book, chiamata tomato-ketchup, con l’indicazione affatto velata che il pomodoro all’interno non era ingrediente abituale.

Però la ricetta della salsa che ispirerà il moderno ketchup arriverà in America non dal vecchio continente europeo, bensì dagli immigrati cinesi. Furono essi a portarsi dietro la parola e la salsa, assieme al vino di riso fermentato che oggi fa parte di molte ricette tradizionali americane; ma mentre il vino di riso rimase uguale, il ketchup conservò soltanto il nome e non la composizione.
Nel 1804 ne scrisse James Mease, scienziato ed orticultore di Philadelphia, come una salsa utilizzata dai creoli francesi di Haiti. Nel 1812 pubblicò la prima ricetta conosciuta a base di pomodoro, ma fu un altro americano, H. J. Heinz, a creare e brevettare una ricetta “unica” e naturalmente segreta, nel 1869 in Pennsylvania, creando uno dei primi gusti globali nella storia.

Negli Stati Uniti, oggi, il ketchup è quello Heinz, tutti gli altri sono imitazioni. I gusti riconoscibili sono pomodoro, aceto, zucchero, cipolla, spezie non ben identificate…senza scervellarci, ne possiamo ricreare a casa una versione del tutto priva di conservanti e soddisfacente nel gusto.

Ora la ricetta del mio ketchup home made; per
la ricetta dei panini da hot dog, ci vediamo qui domani
, mentre vi
consiglio due link utilissimi per completare la vostra finta
junk-food-dinner
:
chips di patata al forno di Marina;
crauti marinati di Giulia.
[fonti:
http://www.ilpost.it/2012/06/01/la-storia-del-ketchup/
http://gizmodo.com/5907313/ketchup-used-to-be-made-of-fish-the-crazy-history-of-the-worlds-greatest-condiment
http://it.wikipedia.org/wiki/Ketchup
http://www.essortment.com/brief-history-ketchup-21820.html ]

La ricetta: Ketchup home-made
(per una bottiglietta da 150 g)

230 g di passata di pomodoro densa (o polpa finissima)
60 g di zucchero di canna
60 g di aceto bianco
6 g di sale
1/4 di cipolla
1/4 di cucchiaino di aglio in polvere
In un pentolino mettere la passata di pomodoro con la cipolla tagliata a pezzi grossi e tutti gli altri ingredienti.
Portare ad ebollizione e cuocere a fuoco dolce per 20-25 minuti, lasciando sobbollire e girando di tanto in tanto. La salsa deve ridursi di circa metà. Poi filtrare in modo da eliminare tutti i pezzetti di cipolla. Lasciar raffreddare a temperatura ambiente e poi conservare in frigo. 

Aggiornamento del 26-2:
Betulla, nei commenti qui sotto, mi consiglia di aggiungere alcune spezie, come da lei personalmente verificato:

P { margin-bottom: 0.21cm; }

«faccio cuocere nella passata una foglia di alloro, un chiodo di
garofano, un pizzico di noce moscata e soprattutto un cucchiaino raso di
zenzero in polvere
»
Io non ho ancora provato la sua versione, ma inizio a condividerla qua, per chi si vorrà cimentare.

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