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Fritole venete, per un… Carnevale di Venezia Le frittelle veneziane con uvetta e pinoli dall'antica storia

Il quadro con cui si apre questo post è La venditrice di fritole di Pietro Longhi, dove una popolana veneziana, vestita di abiti dimessi, vende le frittelle carnevalesche a un signore ben vestito e dall’espressione decisamente poco simpatica, che sventola un grande fazzoletto con il quale, probabilmente, si proteggeva dai terribili miasmi che provenivano dai canali di una Venezia settecentesca.

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ai fornelli, ricette originali

Cuori teneri di farina di castagne per la colazione di San Valentino

Dopo miriadi di cuori in rete, arrivano anche i miei, per augurarvi un felice San Valentino, ma soprattutto per darvi la possibilità di prepararli (ci vuole pochissimo) e fare colazione assieme a chi amate, con questi biscotti-merendina davvero straordinari. 
La loro consistenza tenera li fa quasi sciogliere in bocca, forse merito della farina di castagne. Io sono rimasta “in tema” e li ho farciti con la crema di marroni; l’aggiunta di cioccolato fondente ha il vantaggio di renderla più robusta e consistente e meno stucchevole, per un perfetto equilibrio. 
Ho scelto di farli grandini, perchè fossero davvero una sorta di merendina, la mia formina a cuore ha dimensioni di 8 cm di altezza per 7,5 cm di larghezza.

La ricetta: Cuori di farina di castagne con crema di marroni e fondente

50 g di zucchero
65 g di burro 
2 uova piccole (i tuorli e un po’ di albume)
30 g di maizena
60 g di farina 00
60 g di farina di castagne 
1punta di cucchiaino di lievito per dolci
1 punta di cucchiaino di bicarbonato
1 pizzico di sale
Per la farcitura:
65 g di crema di marroni
35 g di cioccolato fondente al 60%
Setacciare insieme maizena, farina 00 e farina di castagne con il lievito e il bicarbonato.
Lavorare il burro morbido con lo zucchero. Aggiungere i due tuorli con il pizzico di sale
Aggiungere a questo composto le farine e formare un impasto. Se risulta troppo asciutto, aggiungere qualche cucchiaino di albume. Formare un panetto, avvolgere in pellicola e riporre in frigorifero per un’ora abbondante.
Sulla spianatoia ben infarinata stendere l’impasto con il mattarello ottenendo una sfoglia alta 0,5 cm o poco più. Ritagliare tanti cuori e su metà di essi ritagliate un cuoricino più piccolo. 
Deporre tutti i biscotti ottenuti su una teglia coperta da carta forno. Ripetere la stessa operazione con gli scarti fino ad esaurire l’impasto. I biscotti sono molto fragili, quindi sollevarli con attenzione.
Infornare a 170° per 10 minuti circa, tenendo d’occhio la cottura, perchè la farina di castagne può ingannare. Bisogna sfornarli ancora morbidi, raffreddandosi diverranno più croccanti.
Lasciar raffreddare i biscotti sulla teglia o su una gratella, maneggiandoli con cura, perchè caldi sono molto fragili.
Far fondere il cioccolato fondente a bagnomaria, poi versarlo sulla crema di marroni e mescolare accuratamente.
Stendere subito un cucchiaino di ripieno sui biscotti interi ed accoppiarli con quelli bucati.
Lasciar rassodare il ripieno e poi… assaggiare.

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Quasi una Tarte Genin, al lime, basilico…e burro, ça va sans dire!

Jacques Genin è una sorta di istituzione a Parigi.
Non un maître chocolatier con qualifiche ufficiali, ma un autodidatta che è diventato nel giro di pochi anni talmente bravo da vedersi richiedere cioccolatini e piccola pasticceria da 200 tra i migliori alberghi e ristoranti francesi
Ha iniziato la sua carriera nel mondo del cibo in un macello, ha aperto il suo primo ristorante a 28 anni e a 33 è diventato pasticcere capo per La Maison du Chocolat, multinazionale azienda dolciaria. 
Pare che il suo babà faccia fare un tuffo al cuore anche ai napoletani più esigenti e che gli eclairs al cioccolato siano una cosa sublie nella loro assoluta semplicità. 
Con queste premesse, arrischiarsi in una sua torta era un pochino pretenzioso ma, dopo esserne venuta a conoscenza grazie a Teresa De Masi su Facebook, sono stata davvero incuriosita dall’abbinamento tra lime e basilico e mi sono lanciata anch’io nella prova. 
La ricetta è stata condivisa sul forum Gennarino, tradotta dal francese con diverse difficoltà di interpretazione riguardo alla farina grau, che poi si è rivelata essere, non farina di avena, ma “fior di farina”, termine per me altrettanto misterioso: si tratta di farina finissima adatta alla pasticceria.
Il suggerimento era quello di utilizzare una farina per frolla, quindi con una forza molto bassa ed eventualmente batterla, per favorire la stesura. Io sono riuscita a stenderla piuttosto sottilmente, tenendola molto fredda e rimettendola in frigo diverse volte, ma il primo tentativo su uno stampo da 20 non si è rivelato buono: la frolla si è letteralmente ristretta, come accade per le maglie di lana messe in lavatrice…e quello che era un bel bordo da 2 cm, è diventato un rialzino quasi inesistente. Ho risteso una frolla, questa volta in uno stampo del diametro di 13 cm; bordo alto, ben levigato, e stampo tenuto in frigo fino al momento di infornare. Fondo bucherellato con la forchetta e fagioli secchi all’interno. Il risultato è stato migliore, ma decisamente lontano dalla perfezione. Anche in questo caso, come potete edere dalle foto, il bordo si è un po’ ritirato. Ora mi stupisce perchè un’elasticità simile non l’avevo mai riscontrata in nessuna delle mie frolla, neanche con le mandorle…e la mia farina aveva un 9% di proteine, quindi era decisamente debole.
Per quanto riguarda il basilico, non è stagione. Al supermercato lo trovate, ovviamente, a prezzi improponibili. Io ho pagato 30 g di basilico la bellezza di 1,50€…lontano dal costo dei lamponi…ma comunque un prezzo eccessivivo quindi ribadisco la mia scelta di usare solo prodotti di stagione…ma questa era una prova e quindi, amen!
Veniamo al curd. In passato una sola prova al mio attivo con il curd (di limone, però!)piuttosto soddisfacente!
Qui lo Chef Genin consiglia di aggiungere il burro solo alla fine, quando la crema è già addensata, facendo una specie di montatura finale. Al contrario di quel che ho letto da Teresa, per me la crema si è gonfiata parecchio ed era abbondante per la farcitura della mia piccola torta (ne è addirittura avanzata) , ma era anni-luce lontana dal risultato di Genin, per quanto ci lasci vedere la foto. La sua è lucida (come un curd, appunto) la mia era montata e quindi decisamente più opaca e soda. Il sapore è delizioso, molto burroso come da aspettativa. Naturalmente la torta di Genin, che io non ho assaggiato, sarà infinitamente più equilibrata e “apparentemente” leggera.
Con la mia tortina da 13, fate delle porzioncine da dessert a conclusione
di un pasto, per 5 persone, a mio parere; e per 4 servite una merenda
abbondante.
La mia è goduriosa ma molto sostanziosa e quindi forse avrei abbinato una crema di questo tipo ad una frolla ben più spessa o a un altro tipo di base.
Come esperimento sono quindi parzialmente soddisfatta…ma il connubio lime-basilico è da tenere presente per altri esperimenti, magari nella stagione del basilico!!
Qui sotto trovate le mie dosi, ma potete fare riferimento alla ricetta originale su Gennarino.org, tradotta da Rosa Tenore di Torte e Dintorni.
La ricetta: Tarte au Citron Vert et Basilic, de Jacques Genin


per la base:
70 g di burro
50 g di zucchero a velo
13 g di farina di mandorle
1/2 uovo sbattuto (pesatelo!)
i granellini di un pezzetto di bacca di vaniglia
125 g di farina 00
1 pizzico di sale
2 uova piccole
85 g di zucchero
la buccia di 1,5 – 2 lime
10 g di foglie di basilico fresco tritate
90 ml di succo di lime filtrato
90 g di burro
zeste di un lime per decorare la superficie
Preparazione della base:
Ho lavorato insieme burro e zucchero con la farina di mandorle. Ho poi aggiunto l’uovo sbattuto con un pizzichino di sale e la vaniglia. Per ultima ho aggiunto la farina e lavorato brevemente, prima di formare un panetto e riporlo in frigo per tutta la notte. Nella lavorazione il consiglio di Teresa è quello di battere la frolla con il mattarello, per facilitarne poi la stesura.
Il giorno seguente ho steso la frolla su un foglio di pellicola, fino a renderla sottile (circa 2 mm). L’ho riposta stesa in frigorifero.
Ho portato il forno a 170°C ed ho imburrato lo stampo.
Ho inserito la frolla nel suo stampo, bucherellato il fondo con una forchetta e pareggiato il bordo (2,5 cm). Ho riposto nuovamente in frigo.
Ho approntato i fagioli secchi e un foglio di stagnola.
Ho tirato fuori dal frigo la frolla, ho completato con il foglio di stagnola e i fagioli secchi ed infornato per 15 minuti. Ho tolto i fagioli e la stagnola, abbassato a 150° e lasciato in forno ancora 10 minuti.
Preparazione della crema:
Ho messo in una casseruola le uova, lo zucchero, le zeste di lime e il succo e il basilico tritato. Ho mescolato bene con una frusta e poi messo sul fuoco dolcissimo, sempre mescolando, finchè la crema non si è raddensata, senza mai arrivare a bollore. Appena densa ho filtrato con un colino. A questo punto, passando per le maglie del colino, la crema sarà già a 45° circa. Ho aggiunto il burro a pezzetti e mescolando l’ho fatto sciogliere. Dopodichè ho proseguito il raffreddamento, montando un po’ con il mixer.
Ho messo la crema in una ciotola e l’ho fatta raffreddare in frigorifero, prima di riempire il guscio di pasta. Ho decorato in superficie con la buccia del lime grattugiata.
ai fornelli, ricette tradizionali

Trdlo per l’Abbecedario Culinario d’Europa: siamo in Repubblica Ceca

Per l’Abbecedario Culinario d’Europa è giunto finalmente il mio turno: fino al 2 marzo ospiterò la Repubblica Ceca e la sua cucina.
Se volete volare direttamente alla ricetta, scorrete fino in fondo ma, se come me amate approfondire, vi dico che per raccontare la storia della Repubblica Ceca, bisogna per forza dire qualcosa della Cecoslovacchia (dalla quale, nel 1993, dopo la caduta del muro di Berlino e i fatti
conseguenti alla disgregazione dell’impero sovietico, si formarono la
Repubblica Ceca e la Slovacchia in modo pacifico e naturale).
La Repubblica Ceca, situata al centro dell’Europa continentale
La Cecoslovacchia si costituì ufficialmente nel 1918, da quel che restava delle ceneri del cadente impero austroungarico.
Si parla di regioni ma anche di identità culturale; Boemia e Moravia erano le regioni più industrializzate dell’Austria,
mentre la Slovacchia era la regione più industrializzata dell’Ungheria
. Boemi e Slovacchi avevano una lingua ed un’identità nazionale molto vicina che permise la formazione del nuovo stato.
Nel 1918 e negli anni a seguire la Cecoslovacchia si configurò come una delle dieci nazioni più industrializzate ed avanzate al mondo. Per questa ed altre ragioni entrò ben presto nel mirino di Hitler e venne smembrata dal 1938 fino al 1944, quando le toccò entrare sotto la sfera di influenza sovietica. Il predominio comunista si compì nel 1948.
Per circa 20 anni non si mosse foglia…almeno non ufficialmente, fino alla leggendaria Primavera di Praga, dal 5 gennaio 1968 quando ci fu un tentativo di instaurare un “socialismo dal volto umano, rapidamente stroncato il 20 agosto dello stesso anno dai sovietici, con migliaia di soldati e carri armati che invasero tutto il paese. Numerose furono le forme di protesta non violente, e soprattutto fortissima l’ondata di emigrazione verso l’ovest europeo, mentre coloro che si erano compromessi con il “socialismo dal volto umano” furono allontanati da qualsiasi carica pubblica.
Passarono altri lunghi venti anni; nel 1988 a Bratislava, oggi capitale della Slovacchia, ci fu una delle prime manifestazioni anticomuniste, seguita da altre a Praga e in altre città ceche. Nel 1989 cominciò la vera e propria rivoluzione, sempre a Bratislava, con manifestazioni di studenti, culminando tra il 17 novembre e il 29 dicembre con la Rivoluzione di Velluto che portò al rovesciamento del regime comunista.
Da allora, con un processo pacifico, si arrivò alla definizione dei due stati nel 1993.
Dal 2004 la Repubblica Ceca fa parte dell’Unione Europea e fa parte dello spazio Schengen dal 2007.
La capitale della Repubblica Ceca è Praga.
Secondo la leggenda la città venne fondata nel 730 d.C. dalla principessa veggente Libuše. Essa vaticinò, sul letto di morte, l’arrivo di un popolo straniero a chiedere asilo ai Boemi sui quali regnava. Si può far risalire a quel tempo la multietnicità di Praga nei secoli. La città fu un importantissimo snodo mercantile ed attirò moltissimi mercanti ebrei che qui costituirono un’enorme comunità.
In realtà il luogo dove la città venne fondata era sede di accampamenti fin dal Paleolitico, vantando quindi millenni di storia.
Dal 1085 Vyšehrad, il castello alto, divenne residenza ufficiale dei re di Boemia; in seguito venne costruito un altro castello sulla riva opposta del fiume: Pražský Hrad, il castello di Praga.
Vyšehrad
Pražský Hrad
Dal 1526 al 1918 Praga fu sotto il dominio dell’Impero Asburgico. Da questo momento storico, non ci sono molti fatti significativi che emergono dalle cronache. I governatori Asburgici trattavano le zone di Boemia, Moravia e Slovacchia come province dell’impero, senza mai applicare il principio del cuius regio eius religio: non venne mai imposta una religione di stato, e questo garantì la libera circolazione di idee sul territorio e probabilmente l’apertura laica odierna fa capo a queste antiche radici.
C’è da dire che quando qualche emissario dell’imperatore contrariava i praghesi, essi adottavano un metodo molto semplice per disfarsi dell’indesiderato: lo lanciavano dalla finestra. Nel vero senso della parola. Una prima defenestrazione avvenne nel 1419, quando Praga si ribellò al comando del prete Želivský e i tre consiglieri vennero scaraventati dalla finestra del Consiglio della Città Nuova. Una seconda si verificò nel 1483. La terza, e più conosciuta, Defenestrazione di Praga diede inizio alla Guerra dei Trent’anni che dilaniò tutta l’Europa dal 1618 al 1648.
Dopo il 1918, con la fine del governo asburgico, la storia di Praga si fonde con quella della Cecoslovacchia ed oggi con la storia della Repubblica Ceca.
A Praga, altre attrazioni da vedere, oltre ai due già citati castelli sono:
-l’antichissimo Ponte Carlo, fondato da Carlo IV nel 1357, e più antico ponte in pietra di Praga.
-la torre Petřín, costruita nel 1891 a somiglianza della Torre Eiffel, dopo che il suo progettista l’aveva vista all’Esposizione Universale di Parigi del 1889, ma alta “solo” 60 m.
-lo Staroměstská radnice, ovvero il Municipio della città vecchia, con il famoso Orloj, l’orologio astronomico, forse una delle attrazioni più fotografate di Praga.
Josefov, ossia il quartiere ebraico di Praga che deve il proprio nome all’imperatore Giuseppe II che abolì il ghetto nel 1781, rendendo la circolazione libera. Bellissime le sinagoghe e suggestivo il cimitero ebraico.
Prašná brána, la Torre delle Polveri, un’antica torre medievale, per un periodo destinata a deposito per la polvere da sparo, poi restaurata nel XIX secolo.
La porta nel 1865 e dopo il restauro del XIX secolo
-la cattedrale gotica di Týn.

Chrám sv. Mikuláše e Kostel Panny Marie Vítězn, le barocche chiese di S. Nicola e della Vergine Maria della Vittoria.
Per gli appassionati di architettura contemporanea, l’incantevole Casa Danzante di Vlado Milunić e Frank Gehry, che si dice essere ispirata a Fred Astaire e Ginger Rogers.
Fuori dalla capitale, da non perdere un giro nel Parco Nazionale della Selva Boema, per trovarsi per un giorno in un paesaggio da fiaba dei fratelli Grimm.
Le personalità artistiche legate a Praga e alla Repubblica Ceca sono molte. Tra i tanti vi ricordo il pittore Alfons Mucha, esponente dell’Art Nouveau, il poeta Rainer Maria Rilke, lo scrittore Franz Kafka, i compositori Bedřich Smetana e Antonín Dvorak, lo scrittore Milan Kundera, il regista Miloš Forman.
Anche Mozart vi soggiornò in uno dei periodi in cui Praga era una vera e propria culla della cultura europea, e qui, nel 1787 compose una delle sue opere più celebri, il Don Giovanni. E ancora il pittore milanese Giuseppe Arcimboldo, al servizio di Rodolfo II, dal 1576 al 1587.
Veniamo alla cucina. Considerata la storia della Repubblica Ceca, la sua cucina non può che essere contaminata da quelle dei paesi limitrofi. Per questa ragione non ci sono piatti tipici, ma piuttosto alcuni modi di cucinare “tipicamente” ricette diffuse anche in Germania, Austria, Slovacchia, Polonia ed Ungheria.
Fra questi il Trdlo o meglio Trdelník, (tecnicamente il trdlo è il rullo su cui viene cotto, ma indica anche il dolce in sé) che scende in campo alla lettera T dell’Abbecedario Culinario.
La leggenda narra che sia stato inventato da un cuoco del conte Jozsef Gvada’nyi, a Stalika, in Slovacchia tra il 1783 e il 1801.
La prima menzione scritta si ha in un’opera del poeta e scrittore ungherese Gyula
Juha’sz (1883-1937), che per un tempo era stato professore presso il liceo di Stalika. Che ne abbia scritto un poeta ungherese non significa che il dolce sia ungherese come alcuni sostengono.
Effettivamente il dolce nasce in Slovacchia, abbiamo già visto come le due nazioni erano unite, e in un periodo relativamente recente, ma negli ultimi anni ha preso piede e, complici la semplicità delle materie prime e il modo pittoresco con cui vien cotto, è diventato impossibile visitare Praga senza incappare nei venditori di strada muniti di fornelletto a gas che avvolgono il soffice e croccante Trdelník sui loro rulli.
L’impasto lievitato viene lavorato a mano e poi avvolto sui rulli e passato nello zucchero o nella frutta secca tritata. Viene cotto sulle braci, mentre il rullo non smette di girare, fino a che il trdlo non diventa dorato e croccante in superficie. A quel punto viene sfilato dai rulli e venduto a pezzi, per essere mangiato caldo, al naturale o spalmato all’interno di cioccolata.
Per riprodurre la ricetta a casa mi sono dovuta ingegnare. Sul web sono molti quelli che hanno preparato dei cilindri di stagnola su un mattarello ed hanno poi fatto cuocere i pezzi di Trdelnik, sfilandoli assieme all’anima di stagnola e posizionandoli in piedi. Io ho preferito rivestire il mattarello con la stagnola e metterlo poi in equilibrio su una placca da forno in modo che il dolce non risultasse appoggiato da nessuna parte. In questo modo è dorato uniformemente!
La ricetta: Trdlo o Trdelnik
(per circa 8 pezzi)

260 g di farina
110 ml di latte
1 uovo intero
30 g di burro
1 cucchiaio di zucchero
10 g di lievito di birra
la buccia di un limone

per guarnire:
albume
zucchero di canna
cannella 

Ho sciolto il lievito in un poco di latte. 
Ho versato in una ciotola la farina e lo zucchero ed ho iniziato ad impastare con il latte. Ho unito poi l’uovo, leggermente sbattuto , la scorza di limone grattugiata ed infine, quando si era già formato un bell’impatsoliscio, il burro a pezzetti, facendo assorbire ogni pezzetto di burro prima di aggiungere il successivo. Ho lavorato l’impasto così per dieci minuti. Poi l’ho messo in una ciotola unta, coperto con pellicola e messo a lievitare nel forno spento.
Mentre l’impasto lievitava ho rivestito un mattarello di stagnola ed ho mescolato in un piatto qualche cucchiaio di zucchero di canna con un po’ di cannella in polvere.
Al raddoppio dell’impasto, dopo circa 1 ora e mezza, l’ho ripreso e sgonfiato leggermente, poi steso in una sfoglia spessa mezzo centimetro, ricavando poi delle lunghe strisce larghe 2-3 cm.
Ho iniziato ad avvolgere le strisce sul mattarello coperto di stagnola, e quando una si esauriva ne attaccavo un’altra sovrapponendo leggermente le estremità. Ho così formato due trdelnik sul mattarello.
Ho spennellato ognuno con l’albume e l’ho delicatamente rotolato sullo zucchero e cannella.
Ho infornato per circa 12-15 minuti in forno già caldo a 180°C, deponendo il mattarello su una teglia da forno in modo che solo le estremità poggiassero sul bordo della teglia stessa.
Dopo qualche minuto fuori dal forno, ho sfilato i due trdlo e ho proseguito con la cottura dei successivi. A questo proposito può essere comodo avere due diversi mattarelli in modo da preparare il secondo, mentre il primo è in cottura.


E adesso tocca a voi sbizzarrirvi nella česká kuchyně, la cucina ceca. Fa ancora freddino quindi non troveranno difficoltà a comparire sulle vostre tavole ricchi piatti di maiale e di agnello con gli gnocchi di pane e i puré di patate. Anche il “contorno” di pasta non manca: ci sono i fleky. Le insalate sono spesso di patate, a volte rinforzate con maionese. Tra i dolci ci si rifà a tutta la tradizione centro europea, con l’utilizzo dei semini di papavero e la confettura di prugne… Aspetto le vostre ricette!

***tutte le foto di Praga sono tratte da Wikipedia e Wikimedia Commons

Le mie ricette:
Trdlo o Trdelnik, rotolo dolce di Praga 
Svíčková na smetaně s Knedlìky, controfiletto in salsa di panna acida con gnocco di pane



Le vostre ricette in ordine d’arrivo: 
Bramboráky, frittelle di patate con aglio e cumino, dal blog Cindystar
Kulajda, zuppa di patate e funghi, dal blog Un’Arbanella di Basilico
Česnečka, zuppa ceca all’aglio, dal blog Briggishome  
Španělský ptáček, “uccello spagnolo”, dal blog Trattoria MuVarA 
Staročeské Kuře na Kysaném Zelí, pollo vecchia Boemia con crauti, dal blog Armonia Paleo
Stinco di maiale alla birra, dal blog Zibaldone Culinario
Bramborovápolévka o Bramboračka, zuppa di patate, dal blog Sciroppo di mirtilli e piccoli equilibri
Lomnické suchary, gallette di Lomnice, dal blog Cindystar 
Bramborový salát, insalata di patate, dal blog Mangiare è un po’ come viaggiare
Canederli di patate farciti, dal blog Un’Arbanella di Basilico
Bramborová-polévka, zuppa di patate, dal blog Torta di Rose
Zuppa di trippa, dal blog Un’Arbanella di Basilico 
Medovník, torta al caramello, dal blog Le Tenere Dolcezze di Resy
Punč, punch all’arancia, dal blog Cindystar
Fagottini di sfoglia al cioccolato, dal blog A Tutta Cucina  
Bàbovka, torta con uvetta sultanina, dal blog Zibaldone Culinario 
Koblihy do trouby, bomboloni al forno, dal blog Crumpets and co. 
Šlejšky, gnocchetti cechi, dal blog Torte e dintorni 
Štramberské uši, cialde di Štramberk, dal blog Le Tenere Dolcezze di Resy
Bramborovà polévka, zuppa boema di patate, dal blog Un pezzo della mia Maremma
Vánočka, treccia natalizia, dal blog Cindystar
Rohlìki, panini cechi arrotolati, dal blog Briciole 
Vanilkové rohlíčky, biscotti natalizi, dal blog La cucina di Anisja 
Bramborák, frittelle di patate, dal blog Pinkopanino 
Jidáše, panini dolci pasquali, dal blog Un Uomo dal Bagno alla Cucina

rohlíky

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ai fornelli, ricette tradizionali

Brasato di maiale della Stiria

Questo mese, per l’Abbecedario Culinario dell’Unione Europea, ospitato da Torte e Dintorni, abbiamo fatto un viaggio in Austria
Ne approfitto per ricordarvi che da lunedì 10 tocca a me ospitare l’Abbecedario Culinario, con un dolce che non è stato semplicissimo riprodurre in casa…quindi fate un salto da queste parti!
 
Per l’Austria mi sono ingegnata a cercare una ricetta che non fosse il solito strudel (che peraltro adoro!), sono incappata in dolci deliziosi, come la Linzer Torte o quel pasticcio di bontà che deve essere la Kaiserschmarren…ma di non soli dolci vive l’uomo (e la donna), e visto che per S.Valentino e poi Carnevale ho in programma di pubblicare sul blog diversi dolcini deliziosi, ho pensato di optare per un piatto salato. Ho scovato questa ricetta proprio sul sito turistico dell’Austria
La ricetta proviena dalla regione della Stiria, il cuore verde della nazione, una regione montuosa e ricca di boschi situata nella parte sud orientale del paese, al confine con la Slovenia ed un tempo unita ad essa. Il suo capoluogo, Graz, è la seconda città più popolata dell’Austria, con una storia antichissima che risale al Medioevo, ma con una fondazione addirittura romana. Spesso bersaglio di invasioni per la sua posizione strategica nelle rotte commerciali, ha una collina sopraelevata dove si situa il suo castello, lo Schlossber, con la torre dell’orologio e una visuale privilegiata su tutta la città. Graz è dal 1999 Patrimonio dell’Umanità dell’ Unesco e dopo Vienna, sicuramente un luogo da visitare.
La ricetta che ho scelto è tradotta in inglese e francese, rispettivamente, Styrian Pot Roast o Porc Braisé; esaminando però il procedimento la carne sembra più bollita che brasata.
Ho quindi apportato delle modifiche al procedimento rispettando tutti gli ingredienti. Ultima curiosità: vedete le mele nella ricetta? La Stiria è la regione che produce più mele in tutta l’Austria, esistono addirittura una “Strada delle Mele” che si snoda tra coltivatori e produttori di eccellenza e molti Apfelmänner, ossia esperti di mele che, in abito tradizionale e seguendo un rituale rigorosissimo, producono l’Abacus, famoso distillato stiriano a base di mela.

La ricetta: Brasato della Stiria (ricetta tradotta e modificata a partire da Johann Lafer – Meine Leibspeisen aus Österreich)

ingredienti per 4 persone:
500 g di carne magra di maiale (filetto o schiena)
3 carote
2 coste di sedano
100 g di sedano rapa
1 porro
3-4 bacche di ginepro 
1 peperoncino essiccato
3 spicchi grossi d’aglio
3 rametti di timo
1 rametto di prezzemolo
500 g di patate
sale pepe zucchero
25 g di rafano
1 mela
il succo di 1/2 limone
olio extravergine di oliva
1 cucchiaino di burro
cumino q.b.
1 cucchiaio di farina
Preparare un brodo con 1,5 l di acqua, 2 carote, le coste di sedano e un pezzo di porro, un cucchiaio d’olio e 1 cucchiaino di sale.
Da parte tagliare a pezzettini il restante porro, il sedano rapa, la carota; sciacquare la carne.
In una casseruola dal fondo spesso mettere un giro d’olio e far rosolare per quache istante  l’aglio, il porro con il peperoncino e lebacche di ginepro schiacciate. Aggiungere la carne a pezzo intero o in due pezzi e far sigillare da tutti i lati. Coprire con il brodo e lasciar cuocere a seconda della dimensione della carne (a me è bastata un’ora). A dieci minuti dalla fine della cottura aggiungere alla carne il sedano rapa e la carota, prelevando anche quella bollita. Tenere la carne e le verdure sempre coperte di brodo.
Mentre la carne cuoce preparare le patate: pelarle, tagliarle in quarti e deporle nel brodo che sobbolle per 20 minuti, poi scolarle e tenerle da parte.
Preparare la mela con il rafano, tagliando entrambi a striscioline minute e condendoli con succo di limone, sale, pepe e un cucchiaino di zucchero di canna.
Quando la carne è pronta, prelevarla dal brodo di cottura e tagliarla a fette sottili. Filtrare il brodo rimasto e farlo raddensare con poca farina o maizena.
Ultimare la preparazione delle patate, passandole in padella con il burro e i semi di cumino e facendole rosolare qualche minuto.
Impiattare la carne con le verdure, aggiungendo le patate al cumino e nappando con il fondo di cottura raddensato e bollente. In cima aggiungere le striscioline di mela e rafano condite.

Con questo brasato partecipo alla puntata di Abbecedario Culinario dedicato all’Austria.

http://abcincucina.blogspot.com.es/2012/12/benvenuti-in-europa.html

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Potage de Morteau, la zuppa più famosa della Franca-Contea

Questo mese, per il calendario La France à table, ci troviamo nella regione della Franche Comtée.

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È una delle poche regioni attuali che corrispondono in parte con un’antica provincia del Regno di Francia, e ciò spiega la forte identità regionale dei suoi abitanti. Prima del 1478 si parlava di una grande Contea di Borgogna, tale da rivaleggiare con il regno di Francia; successivamente ad una divisione interna, si cominciò a parlare di ducato di Borgogna e di Franca Contea.
Terra di confine fin dai tempi più antichi (e tutt’ora confina per ben 230 km con la Svizzera) si trovò spesso in situazioni di guerra e contesa fra popoli ed appartenne di volta in volta al Sacro Romano Impero, al regno di Francia e al ducato di Borgogna, fino al 1678, quando divenne definitivamente francese, dopo un trattato e dopo le perdite della sanguinosa “Guerra dei 10 Anni”.
In Franca Contea troviamo anche alcune attrazioni turistiche che da sole giustificherebbero il viaggio. 
il semicerchio realizzato
La prima è un’opera architettonica di Ledoux, uno dei padri e dei teorizzatori del neoclassicismo assieme a Boullée.
A lui viene commissionato il progetto per le Saline Reali di Arc-et-Senans, all’epoca di basilare importanza, in quanto il sal gemma era fondamentale per la conservazione dei cibi, ma anche per la produzione del vetro, e la gabella sul sale era una delle tasse più impopolari in Francia e probabilmente una di quelle che più scatenò il malcontento dei cittadini alla vigilia della Rivoluzione Francese (…assieme alle storia delle brioches, ovviamente! 😉 )
il secondo progetto
La parte di progetto realizzata, oggi Patrimonio Mondiale dell’Unesco, costituiva solo il nucleo centrale della città che si sarebbe andata a formare. Ledoux, al di là della scenografica impostazione con i colonnati classici, davanti agli edifici, e la forma a circolare del complesso principale, che richiamava le forme greche, aveva previsto una vera e propria città attorno alle Saline, con le abitazioni per gli operai e tutti i servizi, il primo tra tutti, seguito a ruota dai teorizzatori ottocenteschi di villaggi operai accanto alle fabbriche.
Forse il progetto di Ledoux era animato più dall’estremo bisogno di controllo per il prodotto finale, il sale, monopolio di stato e preziosissimo, che da veri propositi filantropici, ma resta un esempio mirabile e perfettamente recuperato, dopo il degrado visto dal 1895 al 1920.
Notre Dame du Haut à Ronchamp
La seconda attrazione è per gli appassionati di architettura contemporanea un vero caposaldo; parlo dell’opera di Le Corbusier, la Cappella di Notre Dame du Haut, costruita a Ronchamp, sul sito dove già in passato si trovava una cappella dedicata alla Vergine. Lo stile non proprio è fra i miei preferiti: essa, progettata e costruita tra il 1950 e il ’55 fa parte della corrente del bèton brut, il calcestruzzo grezzo, poi anche denominata brutalismo. Pochi fronzoli e tutta sostanza, insomma e l’utilizzo di materiali moderni e scarnamente essenziali.
Dal punto di vista della gastronomia, i prodotti tipici della Franche-Comtée sono famosi in tutto il Paese. 
Una breve parentesi la meritano i vini; siamo al confine con la Borgogna e il paragone sembrerebbe scontato, ma in realtà è la Franche Contée a fare la parte del leone, la sola regione al mondo che produca eccellenze in tutte le diverse tipologie di vino: i rossi, i bianchi, i rosé, i gialli e i vini passiti.
Ci sono poi i prodotti tipici. Moltissimi formaggi poichè ci troviamo in una regione a forte vocazione casearia. La Montbéliarde è la razza bovina a prevalenza lattiera più diffusa in Francia, e con il suo latte si producono i principali AOC francesi, tra cui il Comté.
La Belle de Morteau altro non è che una salsiccia di montagna, prodotta sopra i 600 metri ed affumicata e fa concorrenza alla sua corregionale Salsiccia di Montbéliard, che è un po’ più magra e sottile e un po’ meno affumicata.
Per tradizione, la Belle de Morteau viene esposta al fumo di trucioli di legno di ginepro e di altre piante resinose, per almeno 48 ore in tuyé, il nome caratteristico ed intraducibile dei focolari di montagna attorno ai quali si svolgeva la vita quotidiana e dove si affumicava la carne per la conservazione: un processo che durava da qualche settimana ai tre mesi durante l’anno.
Dal 2010 la Belle è diventata IGP e si riconosce per il tassellino di legno che ne chiude un’estremità e per la medaglietta che fa riferimento al produttore. I maiali, tutti nati ed allevati in zona, vengono alimentati in modo tradizionale, senza mangimi.

La ricetta, presa a grandi linee da epicurien.fr e poi modificata nelle dosi, presenta verdure diverse a seconda della stagione, ad esempio ci sono i fagiolini e gli spinaci che io non ho usato. In Francia utilizzano anche la creme fraiche che io ho omesso e una maggior quantità di latte e burro, che io ho ridotto. Ma ricordiamo sempre che si tratta di una zuppa di montagna, energetica e corroborante, sebbene la base sia di verdure povere.
Per quanto riguarda la salsiccia ho cercato una salsiccia affumicata di diametro grossino, circa 3 cm e l’ho lessata in acqua bollente, poi l’ho tagliata a fette e servita di completamento alla zuppa.
La ricetta: Zuppa al formaggio e Salsiccia di Morteau

(per 4 persone):

1 salsiccia di Morteau (o una salsiccia di maiale affumicata)
400 g di patate sbucciate e tagliate a dadi
400 g di cubetti di carote, porri, e cipolla
1 scalogno
100 g di cavolo cappuccio tagliato a striscioline
200 g di latte intero (in origine 500g)
30 g di burro (in origine 40 g di burro e 100 ml di creme fraîche)
1 cucchiaio d’olio 
100 g di Comté grattugiato (si può sostituire con un formaggio di montagna, come la fontina o la toma)
erba cipollina
sale
pepe
noce moscata
In una casseruola ho messo l’olio e il burro, li ho fatti scaldare e vi ho versato tutte le verdure, facendole insaporire per dieci minuti.
Ho ricoperto il tutto d’acqua ed ho aggiunto il latte.
Lasciar cuocere, rimestando di tanto in tanto per circa 40 minuti, senza far bollire, facendo appena fremere il brodo e il latte.
Nel frattempo bollire la salsiccia e tagliarla a fette spesse 2 cm e grattugiare grossolanamente il formaggio.
Passati i 40 minuti, aggiustare di sale, pepe e noce moscata, aggiungere il formaggio grattugiato e rimestare per farlo sciogliere, poi distribuire nelle fondine, completando con l’erba cipollina e le rondelle di salsiccia.

P { margin-bottom: 0È tutto! E se volete provarla, aspetto la vostra versione!
 

ai fornelli, ricette tradizionali

Mescciüa ligure dal …porto di La Spezia

Amici liguri, perdonatemi a priori per questa ossessione che mi è venuta per la vostra cucina…sarà che ferma e chiusa da confini non riesco a stare e devo fare continue incursioni nelle altre regioni d’Italia. E la Liguria è così vicina! Ed è vicina ai miei gusti in fatto di ingredienti, soprattutto per ciò che riguarda gli ingredienti di terra, ancor più degli ingredienti di mare.
Parliamo ancora una volta di legumi con la mesciua, anzi con la mescciüa, che wikipedia indica anche con mesc-ciüa, come si legge, con la s e la c disgiunte e la ü accentata. Tralasciando le difficoltà di pronuncia (e cercherò di avere ripetizioni in questo campo), la parola significa mescolanza, nello specifico mescolanza di legumi.
Pare che la mesciua sia nata sulle banchine dei porti commerciali di La Spezia, quando gli scaricatori si issavano sulle spalle grossi sacchi di ogni merce alimentare, per portarli a bordo e talvolta qualche sacco si rompeva, lasciando andare a terra parte del contenuto. Altre volte i legumi più piccoli, cadevano dai buchi dei sacchi e rotolavano a terra.
La sera, quando il traffico si era calmato, le donne tornavano alle banchine e raccoglievano pazientemente i chicchi fuggitivi. In gran parte si trattava di fagioli e ceci, poi c’erano il grano e il farro, dal chicco ancora più minuto.
Non so a voi, ma a me questa immagine fa venire in mente questo quadro di Millet:

Qui si raccoglievano le spighe scampate ai rastrelli, lì i chicchi sfuggiti dai sacchi, in entrambi i casi doveva essere un lavoro scomodo e di pazienza. Ma riuscivano a portare in casa questa meraviglia di zuppa.

Altre voci più prosaiche raccontano semplicemente che gli scaricatori venivano pagati in natura con l’aggiunta di tutto ciò che si recuperava dai sacchi andati rotti durante le operazioni di imbarco.
Qualunque sia stata l’origine, questo piatto è davvero un toccasana nelle fredde giornate invernali ed ha il pregio di essere preparato in modo molto essenziale e leggero.

Per i legumi secchi bisogna tener conto dell’ammollo:
per i fagioli è sufficiente una notte, per i ceci anche di più. Se non
volete che i fagioli si rompano in cottura, evitate l’aggiunta di
bicarbonato. Il grano o il farro perlato che di solito compro al
supermercato non ha bisogno d’ammollo. Questa volta io ho usato
dell’orzo per sostituirlo, ma il risultato è lo stesso.

La ricetta: Mescciüa ligure


100 g di ceci
100 g di fagioli cannellini
40 g di farro (o grano, o orzo come nel mio caso)

1/2 cipolla
olio evo
sale
pepe

Cuocere separatamente i legumi: per i ceci ci vogliono 2 ore, per i cannellini 1 ora e mezza, per l’orzo circa 1 ora.
Una volta cotti e scolati ho fatto scaldare 2 cucchiai d’olio in una pentola con la cipolla tagliata finemente; ho poi aggiunto i legumi con una parte dell’acqua di cottura ed ho lasciato insaporire per un quarto d’ora, regolando di sale ed aggiungendo verso la fine l’orzo.
Servire la zuppa in fondine, ben calda, con olio crudo e pepe da macinare direttamente nel piatto.

ai fornelli, dolci, lievitati, lievitati-dolci, storia & cultura

È l’ora della brioche… quasi francese

Oggi voglio parlare di un personaggio che tutti conoscono: Maria Antonietta, l’ultima regina di Francia che perse la testa durante la rivoluzione del 1789; l’avete sicuramente incontrata sui libri di scuola o, alla peggio, in qualche puntata di Lady Oscar.
Passò un’infanzia felice e relativamente svogliata in Austria, viziata e vezzeggiata anche dalla sua istitutrice, tanto che a 12 anni non sapeva ancora scrivere e non parlava correttamente né il francese, né il tedesco. Conversava però amabilmente in italiano, grazie alla grande ammirazione che aveva per Pietro Metastasio, l’inventore del melodramma, prestigioso ospite alla corte asburgica. La piccola Antoine eccelleva anche in altre arti, come la musica e soprattutto la danza. A due anni aveva contratto il vaiolo, ma ne era guarita e perciò in seguito immune, così ne non ne fu colpita durante la terribile epidemia che colpì anche la famiglia reale nel 1767.
Maria Teresa
Come molte giovani principesse, aveva però una madre ingombrante, che da semplice consorte dell’imperatore Francesco I, era di fatto divenuta la vera e propria imperatrice del gigante asburgico, riconosciuta tra i primi sovrani illuminati ed artefice di una politica articolatissima e moderna. Maria Teresa si era messa in testa, con 16 figli, dei quali ben 10 che arrivarono all’età adulta, di imparentarsi attraverso i matrimoni con i sovrani di tutta Europa. Purtroppo l’epidemia di vaiolo di cui scrivevo sopra ridimensionò i suoi piani. Riuscì a far sposare, prima di Maria Antonietta, Maria Carolina con il re Ferdinando IV di Borbone, detto il Re Lazzarone, che nonostante il soprannome fu un ottimo sovrano per il Regno di Napoli, e Maria Amalia con Ferdinando I di Parma, che non ebbe nomignoli ma fu un pessimo sovrano, complessato e bigotto e si presume pure cornuto.

Ma veniamo alla nostra Maria Antonietta. A 15 anni, molto graziosa, sempre capricciosa e svogliata, ma più educata, partì per la Francia, dopo il matrimonio

Marie Antoinette a 14 anni

avvenuto per procura con il delfino di Francia Luigi, futuro Luigi XVI, goffo, sgraziato e cicciottello. 

Avete presente quei ragazzetti che tutte abbiamo incontrato alle medie, o il primo anno delle superiori? Ragazzetti ancora né carne né pesce, ma che al momento ci sembrano il fascino personificato? Noi lì a sospirare e questi, ancora adolescenti sgraziati e pure presuntuosi, non ci filano neppure per sbaglio, presi da affari molto importanti (vedi calcio, basket, tiro del giavellotto o, nell’ipotesi più rosea, dallo studio). E quasi sicuramente, a rincontrarli oggi hanno subito un tremendo tracollo, grassi e completamente calvi…
Ecco, il futuro Luigi XVI era così, a dire il vero educato da anni di odio nei confronti dell’Austria e degli Asburgo non aveva nessuna voglia di sposare l’Austriaca, così come il popolo soprannominò Maria Antonietta, anch’esso fiaccato da anni di guerre contro l’Austria. Anzi le cronache di corte narrano di una vera e propria repulsione fisica (o paura) nei confronti della giovane principessa, prologo di un matrimonio che non venne consumato se non sette anni dopo.
Nel frattempo parliamo delle condizioni contingenti: una Francia allo stremo, anni di guerre e soprattutto di tasse ingentissime avevano fiaccato la popolazione che non sapeva più con chi prendersela
Con il giovane Re era ancora presto, anche se sappiamo tutti come è andata a finire nel 1789, e pur sempre di un re si trattava…
Chi poteva incarnare quel lusso decadente meglio della bella e viziata Regina, che dava sfarzose feste a Versailles, per consolarsi della disattenzione dello sposo che in realtà era pure bruttino, ben diverso dai ritratti che le avevano inviato in Austria?
Così Maria Antonietta divenne il capro espiatorio di tutte le maldicenze sulla nobiltà di nascita.
E, secondo le nostre maestre delle elementari, fu lei, durante una rivolta di popolani stremati dalla fame, a pronunciare la famosa frase: «S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche», «Se non hanno più pane, che mangino brioche».
 
E invece anche questa fu una diceria messa in giro per screditare la sfortunata regina. E le maestre elementari ci sono cascate come pere cotte.
Jean Jacques Rousseau racconta nel IV libro delle sue Confessioni che nel 1741 si trovava presso una ricca dama e, parecchio affamato, aveva intenzione di comprarsi del pane. Ora fatemi immaginare questo Rousseau che, ospite da una gran dama, patisce la fame… ma erano tutti spilorci ‘sti nobili?
Ad ogni modo, dice Jean Jacques che essendo vestito di abiti sfarzosi, entrare in una comune panetteria gli sembrava azzardato ed imbarazzante.
Dunque, cito testualmente: «Allora mi ricordai il suggerimento di una grande principessa a
cui avevano detto che i contadini non avevano più pane e che rispose:
che mangino delle brioches. Perciò mi comprai una brioche
Rousseau sorvola sul fatto che comprare brioche presuppone entrare in un altro negozio, ma noi facciamo finta di sapere che una pasticceria dell’epoca era ben più raffinata di una panetteria e proseguiamo oltre.
Maria Antonietta è nata nel 1755, quindi nel 1741 non poteva già aver pronunciato la frase incriminata e dunque Rousseau fa sicuramente riferimento ad un’altra principessa, forse Maria Teresa d’Austria, moglie di Luigi XIV.
 
E quindi, giunti a questo punto, possiamo assolvere Maria Antonietta alla quale forse la sfortunata frase venne appioppata sul groppone da quei francesi intolleranti nei confronti dell’Austriaca.
 
Ma vediamola finalmente questa brioche francese che è una cosa spettacolare ed è pure semplicissima da produrre. Nel formato originale è cotta in un unico stampo, con ingenti quantità di burro e uova, spugnosa e sofficissima, con una morbida crosticina dorata, lontana parente del nostro pandoro.
 
Io ho seguito la ricetta delle brioches intrecciate di Ida, Briciole in cucina, riducendo un pochino la quantità di burro ed usando solo la vaniglia per aromatizzare.
Con queste dosi ho ottenuto 6 brioches grandine, che vi fanno arrivare all’ora di pranzo senza un buco allo stomaco. In realtà credo che se ne possano tranquillamente ricavare 8 un poco più piccole. Ho adottato anche l’espediente della lievitazione in frigo per una notte. Vi consente di utilizzare poco lievito ed avere una massa spugnosa e sofficissima!
Naturalmente se riesco a procurarmi uno stampo, proverò ad utilizzare la stessa ricetta anche per il classico brioche-one francese in un unico pezzo.
 
 
La ricetta: Brioches quasi francesi
 (6-8 pezzi)
200 g di farina manitoba
50 g di zucchero a velo
10 g di lievito di birra fresco 
2 uova medie
80g di burro a temperatura ambiente
i semini di mezza stecca di vaniglia
1 pizzichino di sale
 
Per la rifinitura un pochino di latte e granelli di zucchero di canna
 
Ho sciolto il lievito di birra in un goccino di latte.
Ho messo farina e zucchero a velo nella ciotola dell’impastatrice, aggiungendo prima il lievito sciolto e poi gradualmente le due uova con il pizzichino di sale, fino ad ottenere una bella massa. Ho lasciato andare l’impastatrice per un bel po’, almeno un quarto d’ora. Quando la pasta si staccava bene dai bordi ho aggiunto la vaniglia e gradualmente il burro tagliato a cubettini: è importante aggiungere burro solo quando il precedente è stato ben assorbito dall’impasto. Una volta assorbito tutto continuare ad impastare con il gancio per altri cinque minuti. 
Ho deposto l’impasto in una ciotola per la lievitazione, lasciato lievitare fin quasi al raddoppio, poi sgonfiato e deposto in frigo per tutta la notte.
Al mattino ho tirato fuori dal frigo e  portato a temperatura ambiente; ho sgonfiato, ripiegando l’impasto su se stesso, ma senza impastare violentemente.
Poi l’ho suddiviso in 6 pezzi (ma anche 8 possono andar bene); per ogni pezzo ho ricavato 4 palline e le ho messe vicine-vicine in stampi da muffin (quelli di silicone). Ho lasciato lievitare fino al raddoppio e poi infornato.
Ida consiglia di portare la temperatura del forno ventilato a 200°C, mentre le brioches lievitano ancora per una mezz’ora, poi spennellarle con latte e zucchero e metterle in forno abbassando la temperatura a 180°C per circa quindici minuti.
Il modo migliore è controllare costantemente  il grado di cottura e doratura, a seconda del vostro forno.
Ho farcito con crema inglese alla vaniglia. E congelato. E una volta riportate a temperatura ambiente, restano davvero perfette. Fatele! 🙂
 
 
 
 
 

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ai fornelli, ricette originali

Crostata con noci, nocciole e mandorle e confettura di frutti rossi, per il contest Dans la Croyance

http://gattoghiotto.blogspot.it/2013/12/4-anni-di-blog-e-super-mega-contest.html
Ambra del blog Il Gattoghiotto compie 4 anni di blog e festeggia con un bellissimo contest incentrato sulle torte che preferisco: Dans la Croyance, celebra le torte da credenza,
le belle torte semplici che non hanno bisogno del frigo e che hanno un
profumo e un sapore di rustico e autentico, e visto che i premi sono bilance Salter, consiglio anche a voi di partecipare!
A me l’ispirazione è venuta dalla spongata, dolce natalizio emiliano, conosciuto anche a Massa Carrara e La Spezia, per poi approdare ad un dolce completamente diverso, con tutti i gusti che amo di più: la consistenza della farina di farro, la frutta secca, la marmellata di fragole e lamponi. Metà crostata e metà torta, la superficie è decorata da dischetti della stessa frolla della base. Per esalatare il gusto delle nocciole ho aggiunto un cucchiaino di cacao, ma non ne va di più, perchè il gusto non diventi predominante. Con la frutta secca ci si può sbizzarrire, anche scegliendone un solo tipo, per avere un gusto predominante: l’importante è non tritarla troppo fine, per non perdersi il piacere di “sgranocchiare”!

La ricetta: Crostata con noci, nocciole e mandorle e confettura di frutti rossi
per la base di frolla alle nocciole:
200 g di farina di farro
40 g di nocciole tritate (non troppo finemente)
80 g di zucchero
1 uovo
120 g di burro 
1 cucchiaino di cacao
1 pizzico di sale
latte
200 g circa di marmellata di fragole e lamponi
per la farcitura di frutta secca:
1/2 uovo (o poco più)
40 g di zucchero
60 g di sablé sbriciolata
40 g di noci
40 g di nocciole
40 g di mandorle
Per prima cosa preparare la base: mescolare la farina e le nocciole con lo zucchero, poi sabbiare con il burro freddo di frigo. Aggiungere poi l’uovo, leggermente sbattuto con un pizzico di sale, e il cacao e lavorare rapidamente per formare un panetto. Confezionarlo in pellicola trasparente e tenere al fresco per mezz’ora.
Stendere l’impasto e ricavare il fondo della crostata da 21 cm di diametro. Stendere in una teglia imburrata o foderata di carta forno e ricoprire con carta forno e fagioli secchi. Cuocere il fondo in bianco, in forno caldo a 180°C per 15 minuti. Dagli avanzi di frolla ricavare tanti cerchietti del diametro di 2-3 cm. 
Tenere da parte i cerchietti necessari a coprire la circonferenza della crostata, ed infornare gli altri che verranno poi sbriciolati nel ripieno.
Passati i 15 minuti, togliere la carta forno e proseguire la cottura fino a leggera doratura del fondo.
Per il ripieno tritare la frutta secca al coltello, spezzettandola grossolanamente. Sbattere l’uovo con lo zucchero e mescolarvi i frollini ridotti in farina.
Distribuire la marmellata di frutti rossi sul fondo di frolla e poi distribuirvi sopra la frutta secca sbriciolata. Coprire il tutto con la miscela di uovo e zucchero e formare il bordo con i dischetti di frolla crudi preparati poco prima. 
Infornare a 180° per circa 25 minuti e controllare il grado di cottura prima di sfornare.
Lasciar raffreddare e cospargere di zucchero a velo e conservare, naturalmente, …nella credenza!
ai fornelli, ricette originali

Polpettine di salsiccia e mela con salsa agrodolce

Questa ricetta è una rivisitazione di una ricetta de La Cucina Italiana di gennaio 2012.
Io ho utilizzato della salsiccia in proporzione minore alla carne tritata che era prevista per la ricetta, ed ho aumentato la quantità di pane ammollato nel latte. Ovviamente trattandosi già di una carne grassa ho omesso mortadella e pancetta previste nella ricetta originale. Per quanto riguarda le mele ho usato delle Golden, che ben si prestano alle preparazioni salate, sia per la loro dolcezza ed assenza di acidità presente ad esempio nelle mele granny, sia per la buona consistenza, al contrario di alcune mele rosse. Ho preferito una cottura in forno infine, invece della frittura.
La salsa, copiata dalla ricetta originale, è davvero da provare: il giusto grado di agro e la giusta dolcezza senza essere stucchevole, secondo me starebbe benissimo anche accanto a della carne grigliata.

La ricetta: Polpettine di salsiccia e mela con salsa agrodolce
250 g di salsiccia
60 g di pane raffermo
1 bicchiere di latte
2 mele Golden
100 g di aceto (bianco o di mele)
50 g di zucchero
alloro
ginepro
peperoncino
1/2 bicchiere di brodo vegetale (o di bucce di mela)
sale
pepe 
per impanare le polpettine farina, uovo, pangrattato
Tagliare una mela a cubetti di un centimentro di lato e saltarla in padella con un filo d’olio per 4 minuti.
Sbriciolare la salsiccia e, in un recipiente capiente, mescolarla con i dadini di mela e con il pane, precedentemente fatto ammollare nel latte. Aggiustare con un spolverata di pepe.
Far riposare e insaporire questo composto dieci minuti, poi formare le polpettine, piccole come grosse noci. Passarle nella farina, poi nell’uovo sbattuto ed infine nel pangrattato. Disporle in una teglia da forno larga su carta da forno precedentemente oliata.
Infornare in forno già caldo a 190°finchè non sono dorate, rigirando da tutti i lati.
Preparare la salsa: in una casseruola mettere 80 g di aceto e 50 g di zucchero; far caramellare, poi aggiungere altri 20 g di aceto, 2 foglie di alloro, 2 bacche di ginepro pestate e peperoncino essiccato.
Aggiungere una mela tagliata a pezzetti e poi bagnare con il brodo vegetale. Quando le mele cominceranno a disfarsi la salsa sarà pronta: togliere le bacche e le foglie di alloro e frullare il tutto.
Ho servito con l’accompagnamento di un’insalata di radicchio.

ai fornelli

Soppa tal qara ahmar da Malta per l’Abbecedario Culinario d’Europa

Questo mese per l’Abbecedario Culinario d’Europa tocca a Malta, paese ospitato dal blog Torta di Rose.
Inizio col dire che è un piccolo stato che mi affascina infinitamente, così, circondato dal mare, un arcipelago formato da tre isole. Si trova solo a 80 km dalla Sicilia e vicinissimo (si fa per dire, circa 300 km) dall’Africa. 
Il clima è caldo tutto l’anno, d’inverno la temperatura media è di 12° C e il sole la bacia per 3000 ore annue e deve essere davvero bello abitarci visto che Malta è lo stato più piccolo e densamente popolato di tutta l’Europa.
Le dominazioni si sono succedute nei secoli passati ed hanno fatto di Malta uno stato via via, fenicio, greco, cartaginese, romano, arabo, normanno, aragonese, francese ed inglese, senza scordare la più importante dominazione quella dei famosi Cavalieri di Malta: erano cavalieri monaci benedettini, costituiti come Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, durante la prima Crociata in Terra Santa, vassalli del Regno di Sicilia, stabiliti a Malta dal 1530, dopo la cacciata da Rodi, e fino al 1798, quando Napoleone, che come è risaputo era tutt’altro che religioso, li espulse dall’isola.
Dall’isola, i Cavalieri di Malta, con poche navi, ma con doti eccezionali di navigatori osteggiavano le razzie dei corsari ottomani attraverso il Mediterraneo. Attirarono le loro ire e furono cinti d’assedio nel 1565. Dopo 4 mesi i difensori di Malta erano ridotti da 9000 a 600. I turchi vennero finalmente messi in fuga dai rinforzi provenienti dalla Spagna, ma solo dopo aver perso 30000 uomini.
A quel punto, poichè era in rovina la vecchia capitale Mdina, fu necessario costruire una nuova capitale, e per farlo venne chiamato un ingegnere italiano, Francesco Laparelli, che per la vita interessante meriterebbe da solo un post tutto per sé, e che aveva già lavorato al Vaticano e Castel Sant’Angelo ed era validissimo ma anche “raccomandato” dal Papa. 
Jean Parisot de la Valette
La Valletta, che prese il nome dal Gran Maestro dell’Ordine, Jean de La Valette, nell’immagine qui accanto con un sobrio abito, fondata quindi nel 1566, venne edificata negli edifici di base nel giro di un paio d’anni, ed era completamente fortificata nel 1571, alla vigilia della famosa Battaglia di Lepanto, con attenzione estrema al progetto, con strade perpendicolari e tutte le caratteristiche di una città all’avanguardia per l’epoca. Nel giro di 15 anni, anche la cattedrale e le altre fortificazioni, furono ultimate, fatto straordinario se pensiamo alle fabbriche del Duomo di Milano o di Notre Dame. Oggi è Patrimonio Mondiale dell’Unesco, ma all’epoca della sua fondazione il promontorio era completamente deserto, una roccia della penisola del Monte Sceberras, a picco sul mare, con due insenature naturali molto profonde ed adattissime a divenire porti.
Laparelli ebbe la possibilità di progettare la città perfetta e un complesso sistema di infrastrutture: tubazioni per portare l’acqua fresca in tutta la città, il miglioramento delle condizioni igieniche attraverso le fognature ed addirittura una sorta di condizionamento dell’aria attraverso le strade strette per la particolare angolazione, rispetto alle coste, con la quale furono tracciate. La bella città finì per attirare gli abitanti delle isole vicine, non solo per la sicurezza dei suoi bastioni, ma anche per le ottime condizioni abitative.
Veduta di La Valletta del 1680

Intorno al 1630 La Valletta ospitò Caravaggio, che era stato accolto nell’Ordine dei Cavalieri di Malta per le sue doti di artista ed era in fuga da Roma, dove aveva ucciso un uomo nel corso di una rissa; anche a Malta, però, finì per mettersi nei guai e dovette scappare di nuovo!

Dopo Napoleone e la Francia nel 1798, l’arcipelago di Malta venne preso dagli inglesi per la sua posizione strategica lungo le rotte tra Gibilterra e l’istmo di Suez.
A Malta si sviluppò un forte sentimento filoitaliano dagli inizi del ‘900, con un vero e proprio picco nel 1919, quando l’esercitobritannico fece fuoco su un gruppo di manifestanti maltesi, scontenti per alcune tasse troppo alte. L’episodio è commemorato ancora oggi come Sette Giugno (in italiano), ed è festa nazionale. La simpatia maltese per l’Italia venne ancora repressa nel 1934, quando venne eliminato l’italiano dall’elenco delle lingue ufficiali a favore dell’inglese e del maltese. eppure ancora oggi molti lo parlano,
o quanto meno lo comprendono, potere dei canali tv italiani, che dalla Sicilia si prendono fin lì.
Malta ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1964 e dieci anni dopo diventò Repubblica.

Per la ricetta da presentarvi sono andata a cercare qualcosa che avesse un sapore tutto mediterraneo. Mi è balzata agli occhi questa zuppa, che unisce il pomodoro e la zucca al semolino, molto usato nei piatti mediorientali.

 

Non fatevi impressionare dal nome maltese, è semplicissima da preparare e diversa dalle solite creme di zucca, per l’equilibrio che l’acidulo pomodoro conferisce al dolce ortaggio autunnale e per la consistenza che ricorda un po’ una morbida polentina.

Se volete accompagnarla in modo tradizionale, preparate per tempo il tipico pane maltese a lievitazione lunga e a tre tempi.
[le immagini e le informazioni sono estrapolate da wikipedia, visitmalta.com e da ilovefood.com.mt]
La ricetta: Soppa tal qara ahmar (zuppa di zucca e pomodoro con semolino)
(ricetta leggermente modificata da http://www.ilovefood.com.mt)
ingredienti per 3 porzioni:
450 g di zucca, pulita e tagliata a cubi
250 g circa di polpa di pomodoro
35 g di semolino
1  cipolla 
1 cucchiaio di olio
Sale e pepe
Parmigiano grattugiato
3 fette di pane a cubetti e tostate in forno 
Ho sminuzzato finemente la cipolla e l’ho messa a dorare in un cucchaio abbondante d’olio, rigirando continuamente. Ho aggiunto il pomodoro e la zucca a cubetti ed ho lasciato insaporire per 5 minuti, mescolando continuamente. Poi ho aggiunto circa 1/2 litro d’acqua ed ho portato ad ebollizione. Ho regolato di sale e di pepe e lasciato cuocere, scoperto, finchè la zucca non era morbida, finchè quindi non potevo infilzarla facilmente con la forchetta.
Ho frullato il tutto e riportato ad ebollizione. A questo punto ho aggiunto a pioggia il semolino e fatto cuocere, sempre mescolando, per dieci minuti circa, a fuoco lentissimo.
Servire, non troppo bollente, con i cubetti di pane tostato e parmigiano a parte.

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