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Biscotti con farina di grano saraceno, arachidi e noci

La disputa su cantucci e biscotti di Prato è centenaria.
I primi, i cantucci, deriverebbero da un pane dolce all’anice, poi tagliato a fette e fatto tostare, per farlo conservare più a lungo. Nella forma e nell’aroma ricordano i genovesi biscotti del Lagaccio.
Quelli conosciuti come biscotti di Prato, invece, nella ricetta originale sono fatti con farina, zucchero, uova, mandorle e, talvolta, pinoli, senza alcun tipo di grassi né di lievito. Quindi sono ben croccanti e si prestano ad essere inzuppati nel vin santo, proprio perchè così asciutti ed essenziali.
La confusione legata al loro nome è però bilanciata da una storia antica e documentatissima. 
I biscotti di Prato non sono nati a Prato, è la dura verità, derivano dai bischotelli fiorentini descritti da Francesco Redi, lo scienziato che ebbe il merito di inventare una deliziosa cioccolata al gelsomino per Cosimo de’ Medici nel XVII secolo. 
Nel 1691 arriva la definizione dall’Accademia della Crusca: “biscotto a fette, di fior di farina, con zucchero e chiara d’uovo”, mentre la prima ricetta è effettivamnete custodita nell’archivio storico della città di Prato, risale al XVIII secolo e definisce questi biscotti come “fatti alla genovese”.
Un’altra disputa è legata all’abitudine consolidata di consumare questi biscotti in abbinamento con il vinsanto. I gourmet sostengono invece che in questo modo si danneggiano due prodotti, in primis il vinsanto che viene sporcato dalle briciole; in secondo luogo il biscotto che sembra necessitare dell’aroma del vino per poter essere gustato appieno. 
Il dessert da fine pasto composto da vinsanto e cantucci è però innegabilmente ottimo, e rappresenta una gestualità lenta e antica, che mi ricorda le lunghe permanenze attorno alla tavola, una volta finito il pasto, nei giorni di festa. 
Questi biscotti furono apprezzati da Herman Hesse, che li descrisse come gli unici tanto buoni da fargli tornare il buonumore, mentre Pellegrino Artusi racconta, ne “La Scienza in Cucina e l’Arte di Mangiare Bene”, del suo incontro con lo squisito e gentilissimo pasticcere Antonio Mattei, papà dei biscotti di Prato dal 1858.
La storia di questi biscotti, l’avrete capito, è talmente estesa, documentata, controversa e ricca di colpi di scena da aver ispirato un libro, quello di Marco Ferri, “La vera storia dei cantucci e dei biscotti di Prato” dell’editrice Le Lettere. 
La curiosità più simpatica sul nome di questi biscotti l’ho trovata su coquinaria.it, dove vien detto che il nome “cantuccini” deriva dal fatto che i meno abbienti, pur di gustare questa delizia, si accontentavano delle parti terminali del filone, i cantucci appunto, considerati meno pregiati delle fette centrali. In realtà i linguisti forniscono una spiegazione meno romantica: pare derivare da cantellus che in latino significa pezzo o fetta di pane. 
 
Il punto è che quella dei cantucci-biscotti di Prato è anche una tecnica, tanto geniale, quanto estendibile anche ad impasti leggermente diversi, più ricchi, e si rivela una vera alleata per preparare degli ottimi biscotti senza dedicare molto tempo al taglio della forma.
In più le possibilità di variazione nel gusto sono infinite: canditi, cioccolato a pezzettini, altra frutta secca…
Io li ho preparati con la farina di grano saraceno, ultimamente mia grande alleata in cucina, e con l’aggiunta di noci ed arachidi all’impasto. 

La ricetta: Biscotti con farina di grano saraceno, arachidi e noci
120 g di farina di grano saraceno
80 g di farina bianca tipo 0
120 g di zucchero
80 g di burro
1 uovo
1 pizzico di sale
60 g di gherigli di noci
100 g di arachidi sbucciate
la punta di un cucchiaino di lievito in polvere per dolci 
Ho lavorato il burro con lo zucchero, ho aggiunto l’uovo sbattuto con un pizzico di sale ed ho mescolato bene il tutto.
Ho aggiunto gradualmente le farine e successivamente il lievito in polvere.
Per ultime ho inserito nell’impasto la frutta secca sbriciolata grossolanamente.
Ho lasciato riposare questo impasto per circa mezz’ora al fresco.
Ho composto sulla carta da forno dei filoncini, spessi circa 5 cm, ed ho infornato a 170° per circa 15/20 minuti.
Quando i filoncini erano tiepidi li ho tagliati a fette, leggermente in diagonale, dello spessore dei 1,5 cm.
Ho nuovamente infornato le fette di biscotto finchè non erano leggermente dorate.

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Cubetti di polenta farciti con Cögnà all’albese

In estremo ritardo (scade tra 27 ore!!) partecipo anch’io alla seconda raccolta di Valentina di Cucina & Cantina con i prodotti di Mariangela Prunotto.
Questa volta la raccolta era incentrata sulle ricette del Natale, con la libertà di scegliere un qualsiasi prodotto Prunotto e una qualsiasi categoria di ricetta. 
Io ho scelto la cögnà all’albese e, con la scusa, ne parlo a chi non la conosce. 
Si tratta di una salsa, a volte viene definita mostarda, ma non è del tutto esatto; io, da profana, la definirei più simile ad una marmellata.
Comunque la si voglia catalogare è una specialità unica che, manco a dirlo, ha una lunghissima storia. Ho letto che un paio di generazioni fa gli albesi non sapevano neppure cosa fosse la cögnà dei loro antenati…la ricetta si era quasi perduta. Poi qualcuno l’ha riportata in auge ed ora viene sempre proposta tra le salse per i bolliti di carne e tra le confetture d’accompagnamento ai formaggi.
La ricetta non è unica, anzi varia da cascina a cascina, ma il componente principale è sempre il mosto d’uva, di solito uve raccolte tardivamente. 
Al mosto, passato al setaccio per togliere i vinaccioli, venivano aggiunti quei frutti che facilmente si trovavano nelle cascine nel periodo di preparazione della cögnà: mele, mele cotogne e pere; qualche ricetta prevede l’aggiunta di fichi. Il tutto viene fatto cuocere per 14/16 ore a fuoco lento. L’aggiunta di zucchero non è necessaria, perchè il mosto fa da conservante naturale per la frutta. A fine cottura vengono aggiunte anche le noci e le nocciole, che rendono questa conserva ancora più golosa. 
Tradizionalmemte veniva conservata nelle tupine, dei grandi vasi di coccio, tenuti al fresco nelle cantine e coperti semplicemente da un piatto.
La cögnà, come potete immaginare non è molto dolce, ma è una vera sorpresa dal punto di vista dei tanti sapori diversi che ne emergono.
Se oggi è servita coi formaggi e le carni, un tempo rappresentava un insaporitore per la polenta.
Io ho voluto seguire la tradizione e farne un simpatico finger food. I cubetti di polenta sono di per sè già saporiti, ma il contrasto con il dolce delicato della cögnà è sorprendente.
Questa storia di abbinamenti è perfetta per introdurre i pranzi dei giorni di festa.
La ricetta: Cubetti di polenta farciti con Cögnà all’albese di Mariangela Prunotto.
(per 6 cuboni)
75 g di farina di mais precotta per polenta
250 ml d’acqua
1/2 cucchiaino di sale
parmigiano grattugiato 
50 g di gorgonzola
1 cucchiaino di burro
In un pentolino ho portato ad ebollizione l’acqua. L’ho salata e vi ho versato a pioggia la farina di mais, sempre mescolando. Ho continuato a mescolare finchè tutta l’acqua era assorbita, poi ho versato il gorgonzola tagliato a cubetti e il parmigiano grattugiato. Ho inumidito un recipiente quadrato con acqua fredda e vi ho versato la polenta, livellandola con il dorso di un cucchiaio bagnato.
Ho lasciato raffreddare per almeno un’ora, meglio di più.
Ho sformato il parallelepipedo di polenta su una teglia da forno, foderata di carta forno e l’ho tagliato in 6 cubi. Con uno scavino da melone ho scavato i cubi, tenendo da parte la prima semisfera e poi rendendo il buco più profondo, fin quasi in fondo al cubetto. Poi ho riscaldato tutto in forno per qualche minuto.
In ogni cubo ho deposto 2 cucchiaini di cögna Mariangela Prunotto. Ho completato con la calottina tenuta da parte ed ho servito su cavolo rosso affettato finissimamente.
 Come detto sopra con questa ricetta partecipo alla raccolta di Valentina del blog Cucina e Cantina, in collaborazione con Mariangela Prunotto “Raccolta di Natale”.

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News da Pepino

Forse qualcuno che mi legge abitualmente si ricorda della mia partecipazione alla festa per il Pinguino Pepino. Nel mio post vi raccontavo la storia di questo mitico gelato torinese, un vero e proprio simbolo per la mia città, e vi anticipavo la ricetta che avrei presentato alla festa: il Pinguino, rivisitato come dessert da fine pasto, nella mia rielaborazione si tuffava in una golosa crema al gianduia, meringa e nocciolini di Chivasso.
Assieme a me, in questa divertente avventura, anche le foodblogger Sandra Salerno di Un Tocco di Zenzero, Anna Bugané di Cucina Precaria e Valentina Barone di Cucina e Cantina.
Qui sotto trovate un riassunto per immagini della mia partecipazione all’evento:

Per le altre foto della giornata andate a curiosare qua!

E qui sotto trovate lo stralcio in cui la mia ricetta è stata pubblicata sulla rivista Il Gelatiere nel numero di gennaio/febbraio 2013, all’interno di un lungo articolo dedicato all’ambizioso rinnovamento della Gelati Pepino, un locale torinese tra i più famosi e un marchio storico che oggi si tinge di novità: le fasi della rinascita sono appena cominciate ed anticipano soltanto le celebrazioni importanti del 2014, i 130 anni dalla fondazione di Gelati Pepino e i 75 anni del Pinguino, il primo gelato da passeggio.
Con immenso piacere vi rivelo di essere coinvolta, assieme alle altre foodblogger già citate e a Laura di Io Porto il Dolce, in un grande progetto, nato apposta per puntare anche i riflettori del web sulle novità che nasceranno in Pepino nei prossimi  mesi.
Io ho seguito anche la conferenza stampa poco prima di Natale, forse qualcuno ricorderà le foto che ho pubblicato su Facebook. 
In quell’occasione Edoardo Cavagnino ha parlato della sua azienda con grande passione e propositività, e sono stati presentati i dolci di Natale: un grande ritorno della pasticceria fredda Pepino, con i Panettoni ripieni di semifreddo e la novità del Pangelato.
Tra qualche giorno arriverà una mia ricetta… e nell’attesa vi invito a gustare ancora questi dolci natalizi approfittando del freddo perché, con l’arrivo della primavera, le novità non mancheranno!!
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Nonnevotten, le frittelle dei Paesi Bassi

Dopo la Rijstevlaai, ancora una ricetta della Limburg per la raccolta Abbecedario Culinario dell’Unione Europea, che questo mese si svolge sul blog di Mony, Gata da Plar, dedicato ai Paesi Bassi, e ancora una ricetta dolce.
Archiviate le feste natalizie già si pensa al Carnevale ed arriva il tempo delle frittelle. I dolci fritti sono simili in ogni parte del mondo e queste frittelle olandesi non sono molto diverse dalle zeppole.
Una simpatica curiosità questa volta riguarda il loro nome: letteralmente nonnevot significa “sedere di monaca”; pare che le monache francescane nel tardo ‘800 avessero in effetti un nodo simile sul di dietro del loro saio e questi dolci sono stati chiamati così per questa ragione.
Ho cercato su
google delle immagini per capire come vengono servite: alcune sono
spolverate di zucchero e altre servite al naturale. Secondo me si
possono anche farcire di crema, come i classici krapfen…l’importante è
farle e gustarle quasi subito, quando sono ancora calde.

La ricetta: Nonnevotten

(per 12 pezzi)
275 g farina manitoba
125 g di latte
10 g di lievito di birra
30 g di burro
1 cucchiaio di zucchero
1 pizzico di sale

olio per friggere

Ho sciolto il lievito di birra nel latte tiepido con mezzo cucchiaino di zucchero.
Ho mescolato 200 g di farina con il sale e lo zucchero.
Ho fatto sciogliere il burro.
Ho cominciato ad impastare versando il latte nella farina, fino a formare una pastella densa. Poi ho aggiunto il burro sciolto, ormai tiepido.
Gradualmente ho aggiunto i restanti 75 g di farina, fino ad ottenere un impasto lavorabile,  morbido ma non appiccicoso.
Ho messo a lievitare in un recipiente coperto da pellicola fino al raddoppio.
Ho diviso l’impasto in 12 porzioni ed ho lavorato ciascuna nel seguente modo: l’ho impastata dolcemente per qualche istante, ne ho ricavato un serpentello cicciotto e da questo ho ricavato un nodo.
Ho messo i nodi a lievitare per circa mezz’ora in un luogo caldo, ben distanziati e coperti da pellicola.
Ho fatto scaldare l’olio di semi e vi ho fritto ogni nodo finché non era dorato e poi l’ho fatto asciugare sulla carta assorbente.
Ho rotolato le frittelle nello zucchero semolato e subito servito.

 E anche questa ricetta finisce nell’Abbecedario Culinario dell’Unione Europea!!

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Fratelli Carli Day – una visita in azienda

Mi ritrovo finalmente a parlare della mia gita ad Imperia del 22 novembre presso l’azienda dei Fratelli Carli.
C’è stato di mezzo dicembre e il Natale, ma nonostante sia passato del tempo, ci tengo molto a mettere nero su bianco i ricordi di questa esperienza, che consiglio a tutti quanti ne abbiano la possibilità.
Fratelli Carli significa da più di cent’anni olio extravergine d’oliva e, prima dell’avvento dei negozi Carli, a Torino ne abbiamo uno, questo olio arrivava direttamente a casa tramite spedizione. 

E’ giusto fare subito una precisazione: Carli produce una tipologia di olio di sole olive taggiasche, e diverse tipologie di olio che sono blend di oli di qualità superlativa, accuratamente selezionati. 
Vista la mole di vendita non sarebbe possibile produrre solo da olive liguri, poichè esse rappresentano soltanto l’1,7% della produzione italiana; per questa ragione Carli ha cominciato a guardare non tanto alla provenienza degli oli, ma alla loro qualità. Un olio buono e senza difetti, deriva per forza da olive coltivate con tutti i più sani criteri. 
La fase della selezione degli oli, che avviene direttamente in azienda, è importantissima, perchè soltanto oli senza alcun tipo di difetto e che rispondano a determinate caratteristiche possono entrare a far parte del blend Carli.

La visita all’azienda si è articolata durante tutta una giornata su diverse fasi ben coordinate:
– visita ad un uliveto 
– degustazione guidata
– lezione di cucina con pausa pranzo
– visita al museo dell’olivo
– visita all’azienda/comparto produttivo
Le informazioni immagazzinate sono state tante ma interessantissime ed hanno contribuito a darci un quadro molto esauriente di tutto il lavoro utile per produrre un olio di ottima qualità.
Siamo partiti dalla visita ad uno degli uliveti di taggiasche, piantumato nel 2004 con circa 2000 alberi in produzione. Il periodo era perfetto per vedere le olive ancora sugli alberi e pronte per essere raccolte e per capire con quale cura vengono neutralizzate o quantomeno combattute le mosche dell’olivo e come viene effettuata la raccolta. 

Il diserbante utilizzato è idrosolubile e quindi con il lavaggio delle olive viene poi eliminato competamente. Anche lo strumento per scuotere le fronde è stato studiato per non apportare alcun danno alla pianta.

L’oliva è pronta per essere raccolta quando è ancora per metà verde, e deve essere lavorata entro 24-48 ore, pena l’ossidazione del frutto. 

Da ciò si comprende come la raccolta e la lavorazione debba seguire determinati ritmi, che sono poi quelli seguiti da migliaia di anni, anche se le tecniche di lavorazione si affinano e diventano più efficienti. Da 12 kg di olive vengono prodotti circa 2 kg di olio, quindi lo scarto di foglie e noccioli è preponderante.

Dall’uliveto siamo passati alla fase di degustazione: un’esperienza davvero curiosa per un neofita!!
Ci guida Gino De Andreis, uno dei degustatori dell’Azienda Carli, spiegandoci prima i passaggi della lavorazione del frutto, i fattori di influenza sul gusto di un buon olio extravergine di oliva e i sensi coinvolti nella degustazione.
L’oliva e quindi l’olio con essa prodotto è influenzato dal clima, dalla composizione del terreno, dalla gestione dell’uliveto, dallo stoccaggio e dalla lavorazione in frantoio e naturalmente, prima di tutto, dalla varietà di oliva.
Noi assaggiamo diversi tipi di olio evo, alla cieca, cercando di determinarne il grado di fruttato, di amaro e di piccante. Queste note variano a seconda della provenienza dell’olio e sono determinanti per classificare la bontà di un olio. A questa fase arrivano soltanto oli già classificati senza difetti dal punto di vista chimico-analitico. 

Ci districhiamo con eleganza tra olio di sole taggiasche ed eccellente olio del Peloponneso, tra olio siciliano e olio pugliese che sono quelli che nel tempo mantengono di più le caratteristiche organolettiche e scivoliamo verso l’ora di pranzo.
Durante la lezione di cucina sotto la guida dello chef Enrico Calvi del ristorante Salvo Cacciatori di Imperia, cerchiamo di imparare a fare un ottimo pesto ligure: la regola è prima l’aglio con il sale, poi gli altri ingredienti ed infine l’olio che si aggiunge quando il pesto è già stato travasato dal mortaio per non ungerlo e rendere difficoltose le future pestature!!

A pancia piena arriva il momento della visita al Museo dell’Olivo.

Il patriarca della famiglia Carli raccoglie reperti sull’olio e sulla sua storia con grandissima passione da moltissimi anni. La visita, come potete immaginare, mi ha affascinato: l’olio d’oliva può raccontare una storia lunga 7000 anni. Appartiene al passato delle civiltà mediterranee e si fonde alle loro vicende storiche, alla loro arte e al loro vissuto quotidiano, restando attuale fino ad oggi.

La visita all’Azienda è molto meno poetica, ma decisamente interessante: 
dalla separazione delle foglie al passaggio delle olive sotto  le enormi molazze di granito, seguiamo tutti i passaggi attraverso la superficie vetrata che circonda il frantoio a ciclo continuo. Tutte le lavorazioni sono sotto i nostri occhi, non si può dire che la Fratelli Carli non lavori alla luce del sole.

Il reparto imballaggio è impressionante: migliaia di bottiglie marciano inarrestabili verso i loro scatoloni, dove viaggeranno verso i consumatori finali. L’olio è filtrato per allungarne la vita, in questo modo non si ossida e può durare fino a 2 anni.

Concludiamo la visita all’azienda Carli con un salto all’Emporio. Qui scopriamo una vasta gamma di prodotti che si svincola dal solo olio extravergine di oliva, ma che racconta una storia lunga millenni di conservazione e di 1000 altri usi, andando dal tonno in scatola sott’olio ai prodotti per la persona.
Visto che si avvicinava il Natale non ho potuto fare a meno di acquistare un panettone all’olio di oliva che, adesso posso dirvelo, era assolutamente delizioso e di una sofficità incredibile!!

Concludo ringraziando l’Azienda della bella opportunità offerta ed augurandomi che altre visite ad altre aziende siano possibili per noi appassionate di cibo, perchè credo che un vero appassionato possa fare la differenza raccontando il “dietro le quinte” dei marchi storici.
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Rijstevlaai, il dolce di riso dei Paesi Bassi per l’Abbecedario Culinario

Il primo paese europeo a diventare protagonista dell’Abbecedario Culinario è, sul blog Gata da Plar, l’Olanda o più precisamente i Paesi Bassi, dalla cucina a me completamente sconosciuta… 
Mi sono documentata un poco ed ho scoperto che i Paesi Bassi sono costituiti da 12 distinte province, con piatti tipici diversi o versioni diverse dello stesso piatto, e che l’aggettivo “olandese” si può attribuire solo a 2 delle province costituenti la Federazione.
L’origine del nome dei Paesi Bassi l’abbiamo imparata a scuola, quando ci han detto che buona parte del suo territorio si trova al di sotto del livello del mare (precisamente il 20%). Il 50% invece giace ad un’altezza inferiore al metro sul livello del mare…ed io mi immaginavo una cucina composta quasi esclusivamente di aringhe e molluschi… Invece devo dire che i piatti sono piuttosto vari e che alcuni dolci sono davvero invitanti!!
Ho scelto proprio un dolce per aprire la mia partecipazione alla raccolta. 
Si tratta della Rijstevlaai, dalla regione della Limburg, una delle più meridionali dei Paesi Bassi. Le vlaaien  sono una sorta di crostata, con la differenza della più importante presenza di lievito nell’impasto rispetto a una normale pastafrolla. A volte viene usato il lievito di birra, altre volte un semplice lievito istantaneo; il ripieno è costituito da una crema di riso cotto nel latte e aromatizzato alla vaniglia.
In rete ho trovato solo ricette in inglese e quindi ho dovuto tradurre tre o quattro ricette prima di decidere quale mi fosse più congeniale ed inevitabilmente ne è venuta fuori una versione personale, correggendo le dosi a seconda del mio gusto.
Rispetto a molte ricette ho aumentato leggermente la quantità di zucchero nella crema di riso; poi ho aggiunto un poco di farina di avena nell’impasto che ha dato una consistenza più rustica alla base; tradizionalmente la Rijstevlaai è piuttosto bassa, io, sulla suggestione  di alcune foto trovate in rete, l’ho fatta un po’ più alta e l’ho spolverata leggermente di zucchero a velo.

Eccola a voi, compagni di viaggio!!

La ricetta: Rijstevlaai

Per la crema:
70 g di riso
420 ml di latte intero
i semini di una bacca di vaniglia
1 uovo
1 pizzico di sale
50 g di zucchero
Per la pasta:
90 g di farina bianca 00
35 g di farina di avena
1 cucchiaino di lievito in polvere per dolci
30 g di burro morbido
30 g di zucchero
qualche cucchiaino di latte
1 uovo 
Ho sciacquato il riso sotto l’acqua corrente.
Ho messo a scaldare il latte in un pentolino capiente  con i semini della bacca di vaniglia e quando stava per bollire vi ho gettato il riso. L’ho fatto cuocere finchè non era morbido, poi ho spento e messo a intiepidire: il riso assorbirà tutto il latte, mentre raffredda.
Ho preparato la pasta, mischiando alla farina lo zucchero e il lievito in polvere. Ho aggiunto il burro morbido a cubetti, impastando e poi l’uovo, fino a formare un impasto soffice, un po’ più morbido di una normale pasta frolla: se occorre si aggiunge qualche cucchiaino di latte. Ho fatto riposare l’impasto per una ventina di minuti.
Ho ripreso la crema: diviso il tuorlo dall’albume ed ho lavorato il tuorlo con metà dello zucchero fino a farlo diventare chiaro; ho aggiunto lo zucchero restante alla crema di riso e latte mescolando bene ed ho montato a neve l’albume.
Ho steso la pasta in una sfoglia sottile ed ho foderato con essa uno stampo imburrato del diametro di 21 cm.

Ho aggiunto il tuorlo con lo zucchero al riso e latte e, a completo assorbimento, ho amalgamato anche l’albume a neve.
Ho versato questa crema all’interno della teglia ed ho infornato il tutto a 170° per 35 minuti.
Prima di togliere dal forno ho fatto la prova stecchino e poi ho spolverato con zucchero a velo.

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Polpettine di tacchino in zuppetta di verdure e mela al curry

Questa ricetta merita davvero di essere divulgata perchè è uno dei curry migliori che io abbia mai mangiato!
La ricetta originale l’ho trovata su La Cucina Italiana di questo mese ed io ho apportato alcune leggere variazioni, ma solo marginali, mantenendo la sostanza: avevo del tacchino, al posto del pollo, ed ho usato il mio solito procedimento per le polpettine, abbondando con il pangrattato e usando il latte normale al posto di quello di cocco; ho usato il radicchio, con cui ho sostituito la verza, ottenendo anche un buon contrasto tra l’amaro dell’indivia e il dolce della mela. In ultimo il tipo di spezia indicato nella ricetta originale era garam masala in pasta, io ho usato una miscela in polvere.
Perfetto per questa stagione è un piatto pieno di calore e sostanza, pur essendo piuttosto povero di grassi, cosa che ci piace molto!!
La ricetta:  Polpettine di tacchino in zuppetta di verdure e mela al curry.
400 ml di brodo vegetale (cipola, carota, sedano e foglia di alloro)
1/2 cespo di radicchio lungo trevisano
250 g di petto di tacchino
1/2 bicchiere di latte
pangrattato
1/2 uovo sbattuto
1 cipolla
1 carota
1 gambo di sedano
1 mela (la mia era una rossa Gala)
olio evo
mild curry in polvere
Ho preparato il brodo vegetale. Nel frattempo ho tritato al coltello la carne di tacchino e l’ho mescolata in una terrina con il latte, un pizzico di sale, l’uovo e tanto pangrattato da formare un composto lavorabile.
Ho tagliato mezza cipolla a julienne e l’ho messa ad appassire in un paio di cucchiai d’olio, aggiungendo poi il radicchio tagliato a striscioline e facendolo poi stufare con un poco d’acqua.
Ho tagliato a dadini la mezza cipolla restante, la carota e il sedano e ho rosolato il tutto in una casseruola, con un giro di olio evo. Ho poi aggiunto anche la mela tagliata a dadi. Dopo qualche minuto ho aggiunto 1 cucchiaino di curry in polvere e il brodo vegetale. Ho lasciato cuocere per 10 minuti finchè non era tutto ammorbidito e il liquido si era ristretto, poi ho passato al frullatore.
Nel radicchio appassito ho aggiunto le polpettine di tacchino. Le ho formate del diametro di circa 2 cm e le ho direttamente buttate in padella.
Dopo un paio di minuti le ho immerse nella zuppetta di curry ed ho lasciato completare lì la cottura per circa 5 minuti.
Ho versato in ciotole dai bordi alti, completando con il radicchio stufato a cui avevo aggiunto una spolverata di sale.
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Cicatielli Irpini con broccoli e pancetta

Eccoci al primo post del 2013 con i buoni propositi per il nuovo anno.
Mi sono chiesta cosa vorrei continuare a scrivere in questo mio spazio e mi sono ritrovata a sfogliare le pagine che più amo con le ricette più riuscite.
Voglio continuare a sperimentare ricette che hanno una storia, cibi che parlano e che raccontano le loro origini; voglio dare nuovamente spazio alla rubrica Tea Time, con nuove idee, e a quella del Panificiocon nuovi esperimenti lievitati; voglio conoscere e condividere le ricette di altri paesi e lo farò grazie alla mia partecipazione all’Abbecedario Culinario; e vorrei imparare ancora molto da tutti voi che passate da queste parti.

Comincio l’anno con una pasta fresca speciale che di storia ne ha tanta.
E’ una pasta del sud, precisamente dell’Irpinia, che è diventata il simbolo di Montecalvo Irpino e che è tradizionalmente preparata con la farina di grano duro di quella zona.
La leggenda narra che sia stata inventata da una moglie che aveva appena scoperto il tradimento del marito. Nel formare questa pasta i pezzetti vengono fatti rotolare sulla spianatoia, comprimendoli con due o tre dita della mano, “ciecandoli” insomma con rabbia e forza. Chi ha già lavorato la pasta di grano duro sa quanta energia ci voglia!!
Pare che la moglie tradita grazie a questo piatto di pasta riuscì a riconquistare il marito infedele… Io, dopo averla assaggiata, vi dico che ne vale la pena anche senza dover sanare incomprensioni domestiche.
Anche il condimento tradizionale si rifà ad una simbologia: c’è il ragù con la braciola, detta braciola della moglie, c’è il sugo di pomodoro insaporito con la ricotta salata, e c’è la variante più adatta a questa stagione: i cicatielli co’ ruoccoli e scardella. I broccoletti, i ruoccoli, sono della varietà napoletana; la scardella è un particolare tipo di pancetta dell’Irpinia.
E se volete sapere cosa significa il detto “chi si magna lu ruoccolo s’adda
sta fermo cu lu paruoccolo
“,
andate a leggere qui.

La ricetta tradizionale prevede tutta farina di grano duro, nella variante campana saraolla, e prodotti del territorio per il condimento. Io ho rivisitato la ricetta con quello che sono riuscita a trovare qua, ottenendo ugualmente un ottimo piatto. Naturalmente, se vi trovaste in quei luoghi sarebbe un sacrilegio non provarli con i prodotti originali, tanto più che l’Irpinia è una terra di ottimi vini!!
La ricetta originale prevede che i cicatielli vengano lessati assieme ai broccoletti e poi saltati insieme in padella con la pancetta, mentre io ho fatto sbollentare i broccoli in precedenza.

La ricetta: Cicatielli con broccoletti e pancetta.
per la pasta: 
150 g di farina di semola di grano duro 
50 g di farina 00
acqua calda
sale

250 g di broccolo fresco
70 g di pancetta a dadini
1 spicchio d’aglio

Ho impastato i due tipi di farina con il sale e l’acqua calda, fino a formare un impasto sodo.
L’ho lasciato riposare per 20 minuti.
Ho preso una porzione di pasta e vi ho ricavato un serpentello lungo del diametro di 1 cm. Ho tagliato il serpentello in pezzetti di 3 cm e poi con tre dita ho schiacciato ogni pezzetto di pasta, facendolo rotolare sulla spianatoia infarinata.
Ho ripetuto fino ad esaurire la pasta.

Ho preparato il condimento, lavando e lessando i broccoli e schiacciandoli leggermente con la forchetta.
In un’ampia padella ho messo lo spicchio d’aglio in due cucchiai di olio evo. L’ho fatto leggermente rosolare ed ho aggiunto la pancetta a dadini, lasciando che si dorasse per bene. Poi ho aggiunto i broccoli e ho fatto proseguire la cottura, aggiungendo all’occorrenza un goccino d’acqua calda. 

Ho lessato i cicatielli in abbondante acqua salata e li ho fatti saltare in padella con il condimento finché erano ben insaporiti.

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# 20 – Calendario dell’Avvento – Stanchezza di fine Avvento

Posso ufficialmente dire di essere stanca.
Non sono stanca di cucinare, di fotografare e di condividere, no, quello no!!
Non sono stanca di raccontare le storie del cibo!
Sono stanca di tossire e starnutire, di questa febbre che va e viene, di avere male ad ogni muscolo, anche a quelli che non credevo esistessero; di avere freddo in un angolo della casa e troppo caldo in un altro angolo. 
Stanca di non riuscire a mettere a posto tutto quello che avrei voluto mettere a posto prima di Natale.
Stanca che se sto al computer mi fanno male gli occhi e se non ci sto mi vengono in mente 10.000 cose che potrei fare.
Stanca perché ero partita tanto bene, e mi ritrovo con l’acqua alla gola per colpa dei rallentamenti degli ultimi tre giorni.
Stanca di rovinarmi lo stomaco con le medicine, proprio prima delle mangiate colossali delle feste (in cui, di questo passo, non potrò mangiare proprio nulla!!)
Ok, sono solo al 3° giorno di influenza… e sono sull’orlo di una crisi di nervi!
Tornerò domani, forse indenne dalla fine del mondo e con una nuova ricetta…forse…
ai fornelli

# 19 – Calendario dell’Avvento – MercoledìSocial – Speciale Natale

Oggi il mio calendario dell’Avvento si unisce ad un’altra iniziativa: il Mercoledì Social di Muffin e Dintorni.
Con le due Muffin, Cecilia e Micol, e Anna di Cucina Precaria stiamo preparando una bellissimo menù di Natale!! Chissà che non vi ispiri e decidiate di riproporlo anche a casa vostra!!
Io vi presenterò un secondo di pesce con il suo contorno e quindi… Stay Tuned!!
ai fornelli

# 18 – Calendario dell’Avvento – Culurgiones patate e pecorino con sugo di salsiccia

Per il post di oggi ho voluto preparare un piatto adatto al giorno di Natale. Natale noi lo passeremo con i nostri genitori, la vigilia dai suoceri, il giorno di Natale dai miei e poi alla sera ancora dai suoceri ma con tanta altra gioventù e i giochi di società e la tombola. 
Mi sono chiesta cosa avrei cucinato se si fosse fatto da me: un piatto semplice nel gusto, ma molto speciale nella presentazione, un piatto che avesse una storia da raccontare, ma che piacesse proprio a tutti.
Eccolo! Sono dei ravioli tipici sardi, che tradizionalmente vengono farciti di patate e pecorino e aromatizzati con la menta. Sono buonissimi e la loro chiusura a spiga li rende davvero un piatto delle feste. Io li ho conditi con un sugo semplice alla salsiccia, anche questo mette tutti d’accordo.
A qualcuno (a qualcun altro anche no) verrà forse la curiosità di sapere il significato del nome culurgiones, che a seconda dei dialetti della lingua sarda si trasforma anche in culurzones o culingiones. Uno spunto di riflessione molto divertente, ma anche molto interessante, l’ho trovato qui. Io preponderei per l’ultima ipotesi, ovvero che la parola culurgiones derivi da culina, la stessa radice di culinario, e urgèo, che significa premere, spingere, incalzare, chiudere, pressare,  costringere, tutti verbi che ben rendono l’idea del gesto che si fa per chiudere i famigerati ravioli.
Il gesto in questione sembra molto più difficile di quel che è: da un cerchio di pasta, la chiusura viene fatta ripiegando una porzioncina di pasta per volta, da un lato e dall’altro alternativamente, come per formare una spiga. Alcuni video (come questo) mostrano una chiusura che rimane a rilievo, come una cucitura, altri ripiegano la pasta verso l’interno. Io li faccio con le pieghe verso l’interno (ed ho provato a mostrarlo con una serie di foto in sequenza) ma in entrambi i modi vedrete che il ripieno in eccesso sguscia fuori da solo.

La ricetta: Culurgiones al sugo di salsiccia
(con queste dosi ne vengono 28, quindi come primo di una cena con più portate bastano per 4 persone, se li servite come piatto unico, per 2 persone.)
100 g di semola di grano duro rimacinata
50 g di farina 00
acqua calda
sale
2 patate grandi (bollite e schiacciate pesavano circa 360 g)
40 g di pecorino poco stagionato
40 g di pecorino più stagionato
1/2 cipolla
menta fresca tritata sottile (oppure quella secca, ma è meno profumata)
olio
100 g di salsiccia fresca
1/2 bicchiere di vino rosso
400 g di salsa di pomodoro
1 spicchio d’aglio
sale
olio
basilico

Per prima cosa ho fatto cuocere le patate. Le ho sbucciate e passate allo schiacciapatate ancora tiepide.

Ho impastato le due farine con acqua calda salata, fino a formare un impasto morbido ma sodo. L’ho avvolto nella pellicola e lasciato riposare.

Ho tagliato a cubettini minuscoli la cipolla, ne ho tenuto da parte un cucchiaio per il sugo e la restante l’ho fatta imbiondire in un padellino con poco olio e la menta fresca.

In una padella più grande ho messo il cucchiaio di cipolla messo da parte, un grosso spicchio d’aglio e un giro d’olio e ho fatto ammorbidire il tutto, poi ho aggiunto la salsiccia, liberata dalla pelle e a tocchetti. Dopo un minuto ho bagnato il tutto con il mezzo bicchiere di vino rosso, l’ho fatto evaporare ed ho aggiunto la passata di pomodoro. Ho fatto proseguire la cottura, regolando poi di sale.

Ho preparato il ripieno, mescolando la patata passata con la cipolla, la menta e i formaggi grattugiati. Ho mescolato bene con un cucchiaio e con le mani.
Ho steso la sfoglia, ricavando con un coppapasta dei cerchi di 6-7 cm di diametro.
La chiusura del culurgione avviene così: si mette il cerchio di pasta sul palmo della mano, sopra si depone un ovale di ripieno. Si parte da un’estremità, ripiegando il fondo del cerchio verso il ripieno e poi, alternativamente, da una parte e dall’altra si ripiegano piccole porzioni di pasta verso il ripieno, saldandole insieme. E’ più difficile da spiegare che a farsi, per questo metto le foto:

Ed ecco il culurgione bello infarinato di semola e pronto per essere buttato nell’acqua bollente:

Poi ho lessato i culurgiones in acqua salata e li ho conditi con il sugo alla salsiccia, aggiungendo delle foglie di basilico, poco prima di spegnere il fuoco. 

E visto che ci sono e che questa è una vera e propria farcitura partecipo con questa ricetta al contest Cre-azioni in Cucina di Nus de L’Ennesimo Blog di Cucina

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