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Il colore viola e “Tutti i colori del cibo”

Per la sfida tra blogger “Tutti i colori del cibo” ideata da Paola mi è capitato il colore viola.
Nel mondo occidentale il viola è sempre stato, dall’avvento del cristianesimo, il colore legato alla Quaresima, periodo durante il quale venivano vietati tutti gli spettacoli, che all’epoca si svolgevano nelle piazze su palchi improvvisati all’aperto. Ciò significava per gli attori un periodo di ristrettezze economiche e di digiuno obbligato, non per fervore religioso, ma perché la saccoccia restava vuota… Da ciò deriva la credenza che il viola porti sfortuna in teatro e nel mondo dello spettacolo e perciò nessuno attore si sognerebbe di indossarlo durante una rappresentazione. 
Detto ciò sembrerebbe che questo colore fosse ormai destinato ad assumere solo connotazini negative, invece a seconda del momento storico e del quadro culturale assunse sempre diversi significati.
In epoca precristiana il viola rappresentava la carestia, ma anche il rinnovo e il cambiamento e in seguito questo colore si legò spesso allo sfoggio di prestigio e di potere. Il viola è il colore dei vescovi e dei principi e una stoffa viola foderava in passato le corone d’oro dei regnanti. Per gli orientali è il colore del settimo chakra, la realizzazione della completa beatitudine, e chi lo porta è un maestro illuminato.
Per molte culture il viola è il colore del lutto e nella cultura romantica, a partire da Goethe, evoca scenari apocalittici, sentimenti cupi, terrore… eppure tutt’altro che terrificante è il fiore che dà il nome a questo colore; per Leonardo Da Vinci viola era il colore che aumentava di dieci volte l’espressione della fantasia e stimolava la saggezza e per la Psicologia dei Colori esso rappresenta la temperanza, poiché unisce lo slancio drammatico del rosso e la tranquillità serena del blu.
Va detto che, a vantaggio della sfida, il viola è un colore davvero ricco di sfumature che vanno dai colori più vicini al blu fino alle sfumature più vicine al fucsia e al porpora.

Visto che qui badiamo alla sostanza mi sembra giusto aggiungere che i cibi viola e blu-viola sono nemici dei tumori e delle patologie cardio vascolari perché contengono antocianine. I frutti di bosco sono ottimi per me, che soffro di fragilità capillare, ma sono utili anche a prevenire le infezioni urinarie e ad aiutare l’intestino pigro. I carotenoidi contenuti in molti cibi blu-viola contrastano l’insorgere di ictus, l’aterosclerosi e l’accumulo di colesterolo cattivo, ma anche l’invecchiamento cellulare e la cataratta.
Largo quindi ai cibi che virano verso il viola, prugne, more, mirtilli e lamponi, radicchio, melanzane, ma anche i fichi. E poi ce n’è uno che è tra i miei ingredienti favoriti: la Cipolla Rossa di Tropea, che rossa non è, ma è viola!!!
Ho scelto una palette che va dal violetto melanzana all’orchidea profondo:
E poi ho cercato di unire l’Italia, dalla Calabria all’Alto Adige con due sapori, il dolce e l’affumicato, che si sposano benissimo!!!

La ricetta: Gnocchi di patate alla rucola con Cipolla Rossa di Tropea D.O.P. caramellata e Speck Alto Adige I.G.P.

ingredienti (per 2-4 porzioni a seconda che li mangiate come piattounico o come primo piatto):
per gli gnocchi:
350 g di patate a pasta gialla
4 cucchiai colmi di farina 00
1/2 uovo sbattuto
una ventina di foglie di rucola (+ qualcuna per decorare)
sale

Ho lessato le patate in acqua bollente; le ho fatte intiepidire, le ho sbucciate e poi passate ancora tiepide con lo schiacciapatate. Ho aggiustato di sale, poi ho aggiunto le foglie di rucola, ben lavate e tritate finemente. Ho aggiunto il 1/2 uovo sbattuto, facendo attenzione a non inumidire troppo l’impasto. Poi la farina, che a seconda dell’asciuttezza delle patate sarà di più o di meno. Con patate umide, aggiungere meno uovo, giusto quel che basta per far rapprendere l’impasto. Dalla palla che si è formato ho preso porzioni di impasto ed ho formato dei serpentelli e poi gli gnocchi. Se volete potete renderli più belli e cavi passandoli velocemente su un cesto ben infarinato e cavandoli con il pollice. Oppure potete lasciarli a tocchetti come ho fatto io. 
 

per il condimento:
4 cipolle di Tropea di grandezza media
vino bianco (o un rosso leggero per un colore più vivace)
1 cucchiaino di aceto balsamico
4 cucchiai di zucchero
sale
4 fette di speck (+ un paio per decorare) 

Ho sbucciato le cipolle, e le ho messe a bagno per pochi minuti in acqua fredda. Le ho tagliate a mano a striscioline sottili.
In una padella larga ho messo un filo d’olio e poi subito le cipolle finchè non hanno iniziato a rosolare. Ho aggiunto il cucchiaino di aceto balsamico e un dito di vino e ho lasciato sfumare. Poi ho versato lo zucchero e rigirato bene. Dopo aver prodotto un po’ di liquido iniziale, lo zucchero asciugherà le cipolle e quindi per proseguire la cottura finchè non sono morbide bisognerà aggiungere un poco d’acqua, facendo sempre attenzione a non annacquarle. Dopo 15 minuti saranno morbide ma ancora sode; a questo punto ho regolato di sale e fatto asciugare le cipolle senza aaggiungere più acqua: diventeranno belle lucide.

Cottura degli gnocchi:
Ho versato gli gnocchi in acqua bollente (con un cucchiaio d’olio per non farli attaccare) ed ho atteso che venissero a galla, ci vogliono 5 minuti. 
Ho riacceso il fuoco sotto le cipolle e ho versato in padella le fettine di speck tagliato a striscioline, che con il calore diventerà un po’ più chiaro delle cipolle. Ho aggiunto anche una mezza tazzina d’acqua in padella e poi fatto colare questo liquido insaporito di cipolla e speck in una zuppiera, dove poi ho fatto girare gli gnocchi scolati, man mano che venivano a galla. Gli gnocchi assorbiranno il liquido.
Infine ho deposto gli gnocchi nei piatti e ricoperti con il condimento di cipolla caramellata e speck e decorato il piatto con una rosellina di speck e due foglie di rucola.

Con questa ricetta viola partecipo alla sfida tra blogger “Tutti i colori del cibo
Potete vedere a questo link la ricetta viola della mia avversaria e poi votarmi, se la mia ricetta vi piace, non qui, ma sul blog di Paola—–>qui, a partire da domani 10 agosto, fino a giovedì 16 agosto, così che possa accedere alla fase successiva!!
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La Pagnotta di Doris Grant

Per la mia rubrica sulla panificazione e per presentare ancora una ricetta inglese per il mercoledì social di Micol e Cecilia questa settimana ho preparato il mitico pane di Grant, in inglese Grant Loaf

Se vi state chiedendo perché “mitico”, è perché questo pagnottone squadrato ha una lunga storia, anche se non antichissima, legata all’inventiva di una donna ingegnosa, Doris Grant; perché è velocissimo da fare, avendo tempi di lievitazione ridotti; perché si fa con il lievito liofilizzato, che potete tenere sempre in casa senza paura che vada a male, e, infine, perché si mantiene per 3/4 giorni come se fosse fatto poche ore prima, e risulta perciò comodissimo da tenere in dispensa per fare dei tramezzini da portarsi a spasso – o in spiaggia, per chi ci va – o da tenere come pane da emergenza, quando finisce il pane in casa.

La ricetta, anche questa volta presa dal libro Il Pane Fatto in Casa di Christine Ingram e Jennie Shapter, è stata sperimentata da me molte volte, allungando anche leggermente i tempi di lievitazione.
Il segreto, scoperto per caso da Doris Grant e poi da lei perfezionato, sta nel “non impasto” del pane, che può sembrare un controsenso, in quanto una delle regole per ottenere un pane che ben si sviluppi in lievitazione è quello di impastarlo a lungo. A venire in soccorso è una grande idratazione e l’utilizzo dello zucchero integrale di canna che contribuisce alla lievitazione e a tenerlo particolarmente umido all’interno e quindi a far sì che non si secchi dopo poche ore.
Doris Grant e il Dr. William Howard Hay
Doris Cruikshank, nata nel 1905 e diplomata alla Glasgow School of Art, divenne la Signora Grant nel 1925, sposando Gordon Grant. 
Scoprì il segreto di questo pane in tempo di guerra, nel 1940. Pare che, sovrapensiero, mise il pane in teglia senza lavorarlo; convinta di aver fatto uno sbaglio pensò di dover gettar via il tutto, ma si decise ugualmente a cuocere la pagnotta, perché evidentemente non era tempo di fare grandi sprechi e, a fine cottura, si accorse di quanto il gusto del pane fosse più soddisfacente rispetto a quello di un pane lavorato a lungo. Da qui partì con ulteriori affinamenti fino a giungere alla ricetta che venne pubblicata nel suo ricettario e che oggi viene divulgata.
Doris Grant si era già avvicinata alle teorie del Dottor William Howard Hay, riguardo alla combinazione dei cibi, teorie comunemente conosciute come “Dr. Hay Diet”; in particolare Hay costruì una teoria alimentare sulla non-mescolanza di alimenti acidi e alcalini nello stesso pasto, che possono, secondo le sue ricerche, portare più facilmente all’obesità.
Partendo da queste teorie la signora Grant, proseguendo i suoi studi arrivò ad affermare con certezza che l’osservanza di una dieta ricca di alimenti integrali aiutava la salute e la naturale reazione del corpo alle malattie. Doris Grant diceva: «If you love your husbands, keep them away from white bread . . . If you don’t love them, cyanide is quicker but bleached bread is just as certain, and no questions asked.»
«Se amate i vostri mariti, teneteli alla larga dal pane bianco… Se non li amate, il cianuro è il metodo più veloce, ma il pane sbiancato è altrettanto infallibile, e senza suscitare domande.»
Quindi era ben al corrente già negli anni ’40, dei danni portati al nostro organismo dagli alimenti troppo raffinati, in particolare cibi confezionati con farine bianche o zucchero raffinato. Qui trovate il suo libro.
Doris Grant venne a mancare nel 2003, ma in questi lunghi anni molte delle cose che lei aveva intuito sono state dimostrate scientificamente. Che l’attenzione su di lei non sia mai calata è dimostrato dal fatto che la sua pagnotta è stata recentemente riproposta da Lorraine Pascale nella propria trasmissione televisiva sulla BBC, dopo centinaia di imitazioni e rielaborazioni fatte nel corso degli ultimi 70 anni.
Inutile ripetere che la Grant Loaf va confezionata con una farina integrale, io uso una farina mista integrale e di segale, ma a seconda dei vostri gusti potete usare quella che preferite. Lo zucchero deve essere di canna integrale, non quello a granelli, ma quello che si presenta in polvere, molto scuro, il Muscovado è perfetto.

La ricetta: Pagnotta di Grant
ingredienti per uno stampo rettangolare:
460 g di farina per pane (io cambio le proporzioni, mettendoci sempre un 30% di farina integrale, o per pane nero o di farro)
1 cucchiaino e 1/2 di sale 
1 cucchiaino di lievito di birra liofilizzato
400 ml di acqua tiepida (37°)
1 cucchiaino colmo di zucchero Muscovado
Ho preparato 50 ml abbondanti di acqua tiepida e ho cosparso in superficie il lievito liofilizzato. Dopo un paio di minuti ho mescolato e aggiunto lo zucchero Muscovado e fatto fermentare al coperto per circa 10 minuti.
Nel frattempo ho scaldato la ciotola, d’inverno si può tenere un po’ sul termosifone, oppure passare velocemente in forno tiepido, poi vi ho messo la farina e il sale e mescolato.
Con olio d’oliva e un pennello da cucina ho unto accuratamente uno stampo per pane, su tutta la superficie interna e un foglio di pellicola da cucina per ricoprirlo durante la lievitazione.
Passati i dieci minuti ho cominciato ad aggiungere i liquidi alla farina, dentro la ciotola intiepidita, mescolando bene con un cucchiaio di legno; prima si versano i 50 ml di acqua con il lievito, poi i restanti 350 ml, sempre appena tiepidi. Deve formarsi un impasto omogeneo e un po’ grumoso, molto fluido, mescolando sempre con il cucchiaio o se volete con l’impastatrice per 1 o 2 minuti.
A volte, a seconda delle condizioni atmosferiche può essere necessario aggiungere ancora un po’ d’acqua, 20 ml circa. L’impasto deve essere appicciocoso e assolutamente non-lavorabile su una spianatoia. Dalla ciotola si versa direttamente nella teglia, che poi si ricopre con pellicola unta e con un panno pulito. Il tutto si mette a lievitare in forno tiepido e spento per mezz’ora. Può restare anche un po’ di più, ma mezz’ora sarà sufficiente perchè l’impasto raggiunga il bordo superiore della teglia. 
qui si vede la crescita del pane in mezz’ora; mentre il forno scalda, crescerà ancora qualche millimetro.
A questo punto si tiene al caldo fuori dal forno e nel frattempo si scalda il forno a 200°.
Si inforna per 30-40 minuti. A me 30 minuti sono sufficienti. Per verificare la cottura, bisogna estrarre il pane dalla teglia e picchiettarlo sul fondo: se è cotto suona come se fosse cavo. Se è ancora morbido sulla parte inferiore, rimetterlo in forno ancora per un po’.
La pagnotta di Grant va fatta raffreddare su una gratella. Una volta fredda sarà croccante in superficie e molto umida all’interno. Il giorno dopo perderà la croccantezza superficiale e al’interno sarà un po’ più asciutta, ma sempre morbidissima.

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Gazpacho Andaluso

Non potete sbagliare…se fate il gazpacho nessuno potrà dirvi che la ricetta è sbagliata, visto che ne esistono più di sessanta versioni diverse e vi sfido a trovare qualcuno che le abbia assaggiate tutte. 
Il gazpacho ha anche un altro record: quello di essere uno dei piatti spagnoli più conosciuti nel mondo, ad onor del vero credo più nel mondo anglosassone, visto che gli italiani, di ritorno dalla Spagna, normalmente parlano solo di paella e tapas. A New York il gazpacho viene servito dai ristoranti più rinomati sia in versione bevanda sia in versione più densa, con prezzi decisamente astronomici se rapportati al costo di produzione che è veramente basso.
Pluricitato da Almodovar, se ricerchiamo notizie sulla nascita di questo piatto che è a metà strada tra una zuppa e una bevanda, troviamo qualcuno che dice che esso sia un diretto discendente del salmorium degli antichi romani, piatto composto da aglio, olio, sale e pane ammollato, forte del fatto che anche una variante del gazpacho moderno, quella di Cordoba, è detta salmorejo.
A onor del vero però aglio, olio, sale e pane ammollato stanno anche nella pappa con il pomodoro o nella salsa verde, mentre le verdure che compongono il gazpacho sono arrivate quasi tutte dall’America dopo il 1492.
Secondo altre fonti il gazpacho è stato ideato dagli Arabi e da loro diffuso in Spagna.
Di certo si sa che questo piatto “crudista” era preparato dai contadini e da loro veniva gustato nelle pause durante il lavoro nei campi. Si tratta di un concentrato di vitamine e sali minerali, e il primo effetto tangibile è quello rinfrescante e dissetante. In alcuni casi viene servito con del ghiaccio, e in ogni caso va fatto riposare almeno mezz’ora in frigo prima di portare in tavola.
Il classico dei classici è il gazpacho andaluso di Siviglia, ma esistono quello della Mancha, di Alicante, dell’Estremadura e tutte le varianti popolari della ricetta di base. Nota a parte meritano la porra di Antequera, un gazpacho a tutti gli effetti, con pomodori, peperoni e cetrioli, dalla consistenza particolarmente densa, che si accompagna con pezzetti di jamòn serrano, e l’ajo blanco, la versione bianca del gazpacho, preparata con aglio e mandorle e servito con acini d’uva e spicchi di mela.
La ricetta: Gazpacho Andaluso
(per 2 persone)
5-6 pomodori lunghi maturi
1 peperone rosso (è più dolce)
1/2 cetriolo
1/2 cipolla media
1 spicchio d’aglio
2 fettine di pan carrè o pane a fette
aceto
olio evo
sale
peperoncino (non presente in tutte le versioni, ma solo in alcune)
Ho preparato le verdure. Ho sbollentato rapidamente i pomodori, per privarli della buccia. Li ho tagliati a pezzi e privati dei semini.
Ho pulito il peperone e l’ho tagliato a pezzetti.
Ho liberato aglio e cipolla della buccia e li ho tagliati a pezzi.
Ho preparato il mezzo cetriolo, facendolo schiumare e pelandolo con il pelapatate.
Ho bagnato in acqua le fette di pane e poi le ho strizzate e sbriciolate in mezzo alle verdure.
Ho messo il tutto nel bicchiere del frullatore e ho cominciato a frullare, aggiungendo un cucchiaio di aceto, poca acqua e, a filo, l’olio d’oliva extravergine. Assaggiando, ho aggiustato di sale e di aceto e insaporito con il peperoncino.
Poi ho diviso il gazpacho in due barattoli, li ho chiusi e risposti in frigo per circa un’ora.
Prima di portare in tavola, ho preparato dei crostini fritti leggermente in olio evo e dei dadini e striscioline di peperone crudo. 
Il gazpacho si accompagna anche con pezzi di prosciutto e fettine di uova sode.
Come potete vedere il gazpacho con il suo colore così allegro è perfetto da presentare in vasi individuali di vetro, e questa ricetta entra a pieno titolo tra quelle dedicate agli Amici del Vetro!!!

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Scottish Morning Rolls per il #mercoledìsocial e Londra 2012

Continuano anche d’estate gli appassionanti mercoledì social delle ragazze di Muffin e Dintorni che come tematica, dalla scorsa settimana, hanno scelto di proporre ricette inglesi per tutta la durata delle Olimpiadi di Londra 2012.
Ovviamente mi sono lanciata nell’avventura olimpica con loro, proponendo di pubblicare le ricette di alcuni pani tipici del Regno Unito, appoggiandomi alle ricette proposte da Christine Ingram e Jennie Shapter nel loro libro Il Pane Fatto in Casa.
Fino a 20 anni fa il pane inglese poteva dirsi insignificante, quasi industriale. In questi anni il cammino che è stato fatto ha portato ad un notevolissimo salto di qualità: sono state recuperate le ricette antiche dei pani di una volta e con la diffusione di più forni artigianali, aperti anche all’interno dei supermercati, il pane fresco e differenziato ha man mano sostituito quello industriale affettato e in busta.
Con i pani del Regno Unito inizio anche una mia nuova rubrica, Il Panificio, dove cercherò di raccontare qualche curiosità e di darvi delle ricette collaudate per provare a riempire la casa di profumo di pane.

Il primo pane che vi propongo è originario della Scozia; si tratta degli Scottish Morning Rolls. Come dice il nome stesso, sono scozzesi, rotolano e si mangiano al mattino. Si tratta di panini schiacciati e tondeggianti, di forma più ovale che tonda, fatti di farina bianca e particolarmente soffici.

In alcune zone della Scozia vengono anche chiamati baps, in altre zone semplicemente rolls. Non bisogna confonderli con i soft rolls che al contrario di quel che indica il nome sono croccanti. Viene spesso usata farina bianca 00 al posto di quella forte, e talvolta vengono impastati con lardo, anche se il tipo più comune contiene soltanto latte che li rende sofficissimi. 
Sono i panini tipici per la colazione, da gustare ancora caldi, accompagnati da uova al tegamino e bacon, ma sono ottimi anche durante gli altri pasti.

La ricetta: Scottish Morning Rolls – da Il Pane Fatto in Casa
(per 10 panini)
250 g di farina bianca 0
200 g di farina bianca 00 (ricetta originale tutta 00)
2 cucchiaini scarsi di sale
20 g di lievito di birra fresco
150 ml di latte intero
150 ml di acqua
latte per spennellare
farina per rifinire
Ho setacciato la farina insieme al sale. Ho leggermente intiepidito il latte, vi ho sciolto il lievito e aggiunto l’acqua tiepida. Ho cominciato a versare i liquidi nella farina, mescolando e poi cominciando a impastare. Bisogna impastare per circa10 minuti.
Ho coperto l’impasto in un aciotola capiente con pellicola leggermente unta e messo a lievitare in luogo tiepido e riparato per un’ora.
Ho ripreso l’impasto, l’ho diviso in 10 panetti che ho delicatamente lavorato per pochi istanti e poi assottigliato con il mattarello, fino a formare delle focaccine ovali schiacciate di circa 7,5cm per 10cm.
Le ho deposte ben distanziate su teglie coperte da carta forno e le ho lasciate lievitare per una mezz’ora al caldo.
Ho acceso il forno a 200°, e poco prima di infornare ho schiacciato ogni panino, con le dita infarinate, per togliere eventuali bolle d’aria. Ho spennellato con il latte e spolverato di farina e poi infornato per 15 minuti, senza farli scurire troppo.
Tolti dal forno, si possono spolverare leggeremente con altra farina, e poi assaggiare tiepidi.
Noi li abbiamo mangiati con uova al tegamino e bacon, come fanno gli inglesi a colazione, accompagnandoli però con pomodori dolcissimi e fagioli bianchi di Spagna in insalata.
Ecco la scheda riassuntiva con cui troverete gli Scottish Morning Rolls nella nuova scheda Il Panificio:
SCOTTISH MORNING ROLLS
PROVENIENZA: Scozia
RICORRENZA-STAGIONE: Tutto l’anno – Colazione
TIPO DI FARINA: Farina bianca
TIPO DI LIEVITO: Lievito di birra fresco
TEMPO DI LIEVITAZIONE: 1 ora e 30 minuti
La settimana prossima sarà la volta di  un pane scuro, che si prepara in pochissimo tempo e che si mantiene fresco davvero a lungo!! Ci vediamo mercoledì!!

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Rigatoni melone e gorgonzola, con il colore dell’estate

Questa non è un’insalata di pasta!! 
E’ una storia incentrata sull’eterno abbinamento tra frutta e formaggi, che in questo caso si sposano davvero bene. E’ una pasta a tutti gli effetti, servita calda, magari in una giornata un poco più ventilata del solito in questa torrida estate… La nota fresca la dà il melone che, attenzione, deve essere dolcissimo, per contrastare al meglio con il piccantino del gorgonzola.
Anche se la presentazione con le palline è davvero scenografica, vi consiglio di tagliare il melone a dadini minuti, lasciando solo alcune palline per la decorazione, così i sapori si combineranno al meglio.
La ricetta: Rigatoni al gorgonzola e melone
(ingredienti per 2 persone)
160g di rigatoni
120 g di gorgonzola non troppo asciutto
2 cucchiai di parmigiano grattugiato
1/2 bicchiere di latte (più o meno, a seconda della stagionatura del gorgonzola)
1/2 melone maturo e succoso
sale
pepe
Mentre l’acqua per la cottura dei rigatoni raggiungeva il bollore, ho tagliato a metà il melone, liberandolo dai semini e dai filamenti. Ne ho ricavato tutta la polpa con l’apposito scavino ma vi consiglio di tenere solo qualche pallina per la decorazione finale, tagliando il resto a dadini di un cm di lato.
Ho salato l’acqua e buttato i rigatoni. Mentre cuocevano, ho messo in una padella un filo d’olio e il gongonzola spezzettato. Ho lasciato sciogliere a fuoco bassissimo, aggiungendo gradualmente un po’ di latte, fino a formare una crema liscia. Ho spento il fuoco ed ho aggiunto il parmigiano, mescolando bene per far amalgamare il tutto, e ho tenuto in caldo.
Quando la pasta era cotta l’ho scolata e l’ho fatta insaporire in padella con la crema di gorgonzola. Poi ho rigirato il tutto con le palline di melone (o palline e dadini, se volete).
Con una spolverata di pepe il piatto è pronto!!
Il melone, se è maturo e dolce, si sposa bene con i formaggi stagionati; si può reinterpretare questa pasta, facendo sciogliere dello stracchino con poco latte e insaporendolo con scaglie di pecorino di fossa. Poi si condisce allo stesso modo.

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Una Gubana…Tropicale

Avevo già proposto la gubana nella sua versione più o meno tradizionale. Questa volta, in particolare per presentare una ricetta originale per il bellissimo contest di La Cucina di Barbara ho pensato di riutilizzare l’impasto della gubana, con tutti i suoi passaggi ed il pochissimo lievito, per un dolce da colazione soffice e profumato ispirato ai colori e ai profumi dell’estate.
Ho sostituito il classico Picolit con del Rhum e la frutta secca e candita del ripieno tradizionale con  frutta disidratata tropicale: papaya, mango, ananas e cocco, con l’aggiunta di buccia di limone, mandorle tritate grossolanamente e amaretti sbriciolati. Rispetto al procedimento originale, grazie alle alte temperature di questi giorni, sono riuscita ad accorciare i tempi, ottenendo ugualmente un impasto sofficissimo e che resta morbido, avvolto in un panno, per 4 giorni.
Vedrete che la seconda giornata è la più impegnativa, richiedendo ben 3 momenti.
Potete gustare questa Gubana Tropicale accompagnandola con una spremuta d’arancia o un frullato di pesca e albicocca o con del succo A.C.E. senza zucchero. Buona colazione!! 😀

La ricetta: Gubana Tropicale
(dosi per ottenere un dolce del diametro di 17-18 cm, del peso di circa 900g)
per l’impasto:
300 g di farina Manitoba
100 g di latte intero
55 g d’acqua
90 g di zucchero
80 g di burro
½ uovo + 1 tuorlo
7,5 g di lievito di birra fresco
1 pizzico di sale
½  cucchiaino di miele
buccia grattugiata di ½  limone
½  baccello di vaniglia.

per il ripieno:
150 g di frutta disidratata mista (papaya, mango, ananas, cocco)
45 g di Rhum
100 g di mandorle spellate e tostate
buccia grattugiata di ½ limone
½  uovo
20 g di burro
½ cucchiaio di miele
50 g amaretti secchi tritati

per la glassatura:
1 albume
zucchero di canna

Giovedì: ho messo la frutta disidrata a bagno nel rhum, dopo averla tagliata a dadini. Ho coperto e tenuto in frigo per tutta la notte.

Venerdì mattina: Ho preparato una biga con 75g di farina, 35g d’acqua e 1g (un pizzichino) di lievito. Dopo un’impastatura veloce ho coperto con pellicola e messo a lievitare a temperatura ambiente (25°) per 12 ore.

Ho poi finito di preparare il ripieno mescolando alla frutta disidratata ammollata nel rhum, anche le mandorle tritate grossolanamente , la buccia di limone e gli amaretti sbriciolati, poi il burro fuso e il miele. Ho coperto e riposto in frigo.

Venerdì pomeriggio:
Ho preparato un poolish con 100g di latte tiepido, 50g di farina, zeste grattugiate di ½ limone, 3g lievito. Ho coperto e lasciato a temperatura ambiente per 4 ore, in un luogo riparato e lontano da fonti di calore.

Venerdì sera:
Ho preso il poolish ormai gonfio e l’ho mescolato. Ho preparato una pastella con gli ultimi 3,5 g di lievito, il miele, 20gr di acqua  e 20g di farina e lasciato gonfiare. Poi ho unito a questa pastella il poolish.
Ho pesato 105 g di farina, e l’ho aggiunta quasi tutta ai preimpasti, cominciando a mescolare per farla assorbire. Si forma quasi subito un impasto consistente. Ho aggiunto la biga a pezzi e poi successivamente, sempre mescolando energicamente, ½  tuorlo, 40g di zucchero, la farina rimanente ed incordato. Ho poi inserito 30g di burro morbido, lasciato a temperatura ambiente per un’ora, con i semini della bacca di vaniglia. Con l’inserimento del burro l’impasto diventa lucido ed elastico e la consistenza migliora. Ho cominciato ad impastare all’interno della ciotola con una mano, sollevando l’impasto e tirando verso l’alto. Ho lavorato per un po’ in questo modo, fino ad ottenere un impasto elastico e ben legato. Poi ho coperto con pellicola e lasciato riposare per un’ora a circa 28°, in forno spento.
Ho ripreso l’impasto, l’ho impastato per qualche istante e poi, mescolando nuovamente con il cucchiaio, ho aggiunto gradualmente ½ albume seguito da circa metà della farina rimanente; ad assorbimento ho unito ½  tuorlo con metà dello zucchero; poi ancora farina, l’altro ½ tuorlo, con zucchero e sale. Ho impastato con cura, poi aggiunto il burro morbido con la buccia di limone grattata, come fatto prima, impastando con la mano verso l’alto, ribaltando diverse volte l’impasto. Ho coperto e trasferito di nuovo in forno tiepido per circa mezz’ora.

Passato questo tempo ho rovesciato l’impasto sulla spianatoia – sarà ancora molto morbido – ed ho fatto un giro di pieghe del tipo 2, ovvero portando porzioni di impasto verso il centro, per tutta la circonferenza della palla di impasto. A questo punto ho rimesso la palla di impasto in una ciotola infarinata, coperto con pellicola unta e posto in frigo fino al mattino.

Sabato:
Ho tirato fuori dal frigo l’impasto e lasciato riscaldare per un’oretta.
Ho preparato uno stampo di carta forno per la gubana, del diametro di 17-18 cm, pinzandolo molte volte con i punti metallici dal lato esterno.
Poi ho steso con il mattarello un ovale di pasta spesso circa 1/2 cm.
Ho aggiunto l’uovo al ripieno, mescolando bene e poi l’ho steso sull’ovale di pasta lasciando due cm di bordo esterno, spennellato con albume. Ho arrotolato in diagonale, stringendo e allungando l’impasto simultaneamente. Poi ho attorcigliato il tutto come fosse una chiocciola, mettendo il capo terminale sotto al tutto e depositando la gubana nello stampo di carta forno.
Ho fatto lievitare in forno spento fino al raddoppio (circa 1 ora- 1 ora e mezza). Poi ho riscaldato il forno a 180° e intanto spennellato la gubana con l’ultimo albume restante e poi cospargendo di zucchero di canna.
Ho infornato per 45 minuti, facendo attenzione che la superficie non si scurisse troppo.

Una volta sfornata si lascia raffreddare la gubana avvolta da un panno di cotone, su una gratella che la faccia raffreddare anche sulla superficie inferiore.

Con questo dolce partecipo al contest Get an AID in the kitchen – second edition, del blog La Cucina di Barbara.


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L’Infigghiulata, una ricetta per “Io La Mafia Me La Mangio”

E’ stranissimo accorgersi dopo tanti anni come alcuni ricordi personali che credevo avrei portato dentro per sempre si siano persi nella memoria e siano diventati nebulosi e fragili, come una carta troppo vecchia e consumata; mentre altri, che invece  sembravano riguardarmi molto meno da vicino, restano scolpiti dentro, marchiati a fuoco sulla mia pelle.
Ricordo perfettamente dove mi trovavo il 19 luglio 1992 alle 16:58.
Ero in vacanza, in Sardegna, ed era troppo caldo per stare fuori. Il pomeriggio, fin dopo le sei, si stava in casa ed io ero da mia nonna, nell’unica stanzetta al piano superiore di una casa antica che si snoda tutta al piano terra. Ricordo la luce, vivida, dei paesi mediterranei, probabilmente la stessa luce che c’era a Palermo quel giorno. 
Ricordo il caldo e ricordo che vivevo un periodo solitario, in cui amavo chiudermi in me stessa, scrivevo su un diario e ascoltavo canzoni alla radio che fermavo su musicassette, da riascoltare all’infinito.
Tra due giorni saranno passati 20 anni, ma ricordo il preciso istante in cui le trasmissioni si sono interrotte e la notizia dell’attentato si è diffusa. Che tutto si è fermato, anche io. Sono rimasta ad ascoltare, mi sono detta: un altro…e adesso?

Il 23 maggio il terribile attentato di Capaci, con cinque quintali di tritolo, aveva falciato il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta; a luglio, neanche due mesi dopo, la stessa sorte era toccata a Paolo Borsellino, sotto casa della madre; con lui persero la vita Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Ai suoi funerali Antonino Caponnetto,
il vecchio giudice che diresse l’ufficio di Falcone e Borsellino, disse: «Caro
Paolo, la lotta che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta
di ciascuno di noi
». 
Ad un’intervista rilasciata nel 1994, disse anche: «Un giudice vero fa quello che ha fatto Borsellino, uno che si trova solo
occasionalmente a fare quel mestiere e non ha la vocazione può
scappare, chiedere un trasferimento se ne ha il tempo e se gli viene
concesso. Borsellino, invece, era di un’altra tempra, andò incontro alla
morte con una serenità e una lucidità incredibili
».

I giudici Falcone e Borsellino sono stati la punta dell’iceberg di una marea di vittime di un sistema  tremendo e crudele che voleva/vuole sostituirsi alla legalità dello Stato. Dopo le morti eclatanti dei due giudici, tanti colpi sono stati segnati dallo Stato ai danni della mafia, ma ancora c’è da combattere. Combattere contro una mentalità ancora radicata in molti, anche nelle nuove generazioni, di coloro che erano davvero troppo piccoli per ricordare il 23 maggio o il 19 luglio 1992.

A me, cresciuta in una grande città del Nord, sembra incredibile che ci possano essere giovani siciliani di meno di trent’anni che  sostengono che almeno il “sistema mafia” fa qualcosa per quel popolo che è stato dimenticato dallo Stato. Mi sembra terribile che un ragazzo possa vedere il proprio motorino, rubato un paio di giorni prima, ora guidato da un altro ragazzo poco più grande di lui, ma con conoscenze in ambienti mafiosi,  e possa dire con una certa indifferenza: «E’ andata così, che posso farci? Niente.»  Eppure questa mentalità è ancora radicata in molte coscienze.
Qualcuno sostiene che per essere liberi  bisogna andarsene dalle terre del sud, che solo al Nord si può costruire un futuro.

Per fortuna ci sono altri, i Coraggiosi, che si rimboccano le maniche e si sporcano le mani per ricavare qualcosa di buono dalla loro terra. 

Dal 2001 dalla volontà di alcuni coraggiosi nasce Libera Terra, fondata da Don Luigi Ciotti e Giancarlo Caselli; il marchio che raggruppa diverse cooperative aderenti a un progetto di recupero delle terre confiscate alle organizzazioni mafiose. L’esperimento pilota è stato quello della cooperativa intitolata a Placido Rizzotto, nel comune di S. Giuseppe Jato, ma poi ne sono sorte tante altre, in Sicilia, in Calabria e in Puglia. 
Le cooperative producono e mettono in vendita prodotti della terra, quali legumi, pasta e farine biologiche, conserve, miele e vino, e organizzano interessantissimi campi di cooperazione per far conoscere a chiunque volesse le realtà del luogo. A 11 anni dal primo esperimento, il cammino è appena iniziato ed ancora in salita, ma è importante che queste realtà di conoscano, per far sì che giunga il mesaggio che un’altra strada è percorribile, non senza difficoltà, per far cambiare le cose.
Valeria di Due Cuori e Una Forchetta ha lanciato l’iniziativa “Io La Mafia Me La Mangio!”. Noi foodblogger sappiamo parlare di cibo ed è con il cibo che comunichiamo, rendendolo veicolo anche di messaggi così importanti. Se volete partecipare, acquistate un prodotto Libera Terra, reperibile alla Coop e sul loro sito e cucinate una ricetta; Valeria le raccoglierà tutte, come tante voci fino a formare un coro di “IO LA MAFIA ME LA MANGIO!”.

Io ho scelto di partecipare a questa raccolta con un vino, il Placido Rizzotto Rosso di Sicilia IGT I Cento Passi, ottenuto da vitigni Nero d’Avola, Perricone e Sirah.
A questo vino ho abbinato una ricetta tipica siciliana, l’Infigghiulata, un pane condito che si preparava nelle case contadine con lo stesso impasto del pane settimanale e veniva farcito con acciughe o con salame, provola o ricotta, e poi tagliato a fette. Per alcuni il nome di questo pane deriva dal fatto che veniva preparato per i figlioli di casa, per gratificarli con qualcosa di goloso.
Mi piace pensare di aver fatto questa ricetta, in passato preparata dalle donne  di casa, per le donne che hanno saputo uscire dal cerchio della mafia, con coraggio e forza; tra le tante: Rita Atria, Serafina Battaglia, Carmela Iuculano, Felicia Bartolotta Impastato…

La ricetta: Infigghiulata
300 g di farina (meglio 100 g di semola di grano duro e 200 di farina 00)
1/3 di cubetto di lievito
½ cucchiaino di miele
1 cucchiaino colmo di sale
Acqua
Per il ripieno:
acciughe sott’olio
pomodori secchi sott’olio
provolone semistagionato dei Nebrodi (si possono usare anche ricotta, lasciata scolare dall’acqua per una notte, oppure salame stagionato, o anche sugo, se si vuole un risultato più umido e “rosso”)

In abbinamento il vino Placido Rizzotto Rosso di Sicilia IGT “I Cento Passi”

Ho preparato l’impasto sciogliendo il lievito in un bicchiere con poca acqua tiepida, il miele e un cucchiaio di farina 00. Ho lasciato riposare per 10 minuti, finchè non era ben gonfio.
Ho mescolato la farina con il sale ed ho aggiunto la miscela di lievito, cominciando ad impastare, aggiungendo man mano l’acqua tiepida fino a formare un impasto morbido e liscio.
Ho messo a lievitare in una grossa ciotola coperta con pellicola unta e ben al riparo dalle correnti, per circa 3 ore.
Ho diviso in due l’impasto e ho ricavato due ovali spessi circa un centimetro, con il mattarello. Su ogni ovale di pasta ho disposto il provolone, i pomodori secchi tagliati a striscioline e le acciughe a pezzetti.
Ho arrotolato ogni ovale, partendo da uno dei due lati lunghi ed ho ricavato due salsicciotti che ho deposto sulla teglia, spennellandoli di olio.
Ho fatto cuocere in forno caldo a 220° per dieci minuti e poi a 200° per altri 10 minuti.
I sapori decisi delle acciughe e dei pomodori secchi si sposano a meraviglia con il vino Placido Rizzotto Rosso.
 

ai fornelli, ricette tradizionali

Scarpazzone Montanaro e gli strascichi dell’Emilia Mon Amour…

Anche se il mercoledì social dedicato all’Emilia si è concluso, anche questo mercoledì pubblico una ricetta emiliana che ho voluto sperimentare e che non sono riuscita a pubblicare prima. Si tratta dello scarpazzone, una versione dell’erbazzone che in dialetto si chiama scarpasòun e che prevede che venga utilizzata tutta la bietola, non solo le foglie ma anche le coste, fino alla scarpa del cespo.
La bietola non ha sempre goduto di grande fortuna; pare che l’aggettivo “bietolone”, nell’accezione di “codardo”, provenga dalla credenza che il mangiare in grande quantità questa verdura succosa facesse perdere il coraggio, e la credenza era tanto radicata da far proibire questa verdura nei menù degli eserciti.
I contadini di un tempo, invece, impiegavano tutto l’ortaggio, come abbiamo detto fino alla scarpa, senza sprechi. E facevano bene, perché questa verdura è ricchissima di sali minerali.
Se lo scarpazzone-erbazzone tradizionale, preparato anche da Laura, prevede bietola e parmigiano – e talvolta l’aggiunta di ricotta – ne esiste poi una versione preparata con l’aggiunta di riso, lo Scarpazzone Montanaro.  Questa versione era quella delle mondine provenienti dalle montagne dell’Appennino che scendevano nella bassa da marzo ad ottobre, per liberare il riso dalle erbacce, e che ricevevano come salario, per ogni giornata di lavoro, un chilo di riso.
Questo tipo di scarpazzone è il piatto tipico del borgo di Castelnovo ne’ Monti Carpineti, dove si svolge ogni anno una sagra dedicata a questa ricetta.
Alcuni dicono che il vero scarpasoun montanaro non sia ricoperto di sfoglia,  bensì da uno strato di zucchero a granelli e spennellato d’uovo. Altri lo ricoprono con la stessa sfoglia della base, la fuiada, e con pezzettini di lardo o pancetta. In qualsiasi modo lo vogliate fare, servitelo intero o tagliato a rombi: è buonissimo!!! 
Spero che anche questa ricetta tradizionale possa andare ad ingrossare le fila delle ricette emiliane che Cecilia e Micol hanno raccolto per formare un e-book, la cui vendita consentirà di raccogliere fondi per far ripartire subito un’azienda della zona.

La ricetta: Scarpasoun Montanaro
(Ingredienti per due teglie piccole da 20cm di diametro)
-per la fuiada:
300 g farina
80 g di burro (tradizionalmente si usa lo strutto)
1 pizzico sale
acqua gassata molto fredda
-per il ripieno:
1 cespo di bietola
40 g di lardo tagliato sottile
120 g riso
400-450 ml di latte
4 cucchiai colmi di parmigiano reggiano grattugiato
sale
pepe
-per la finitura:
1 uovo
30 g di lardo tagliato sottile

Per prima cosa ho pulito la bietola, togliendo le foglie esterne rovinate e l’ho lessata in acqua bollente salata. L’ho scolata e fatta raffreddare e poi tagliata a tocchetti. L’ho fatta saltare in padella per pochi minuti con un trito di cipolla e circa la metà del lardo, poi ho aggiustato di sale e pepe.
Ho preparato la pasta, mescolando farina, sale, burro freddo a tocchetti e tanta acqua, poca per volta, quanta ne serve per creare l’impasto, che deve essere morbido ma non molliccio. Ho impastato per pochissimi minuti e poi ho messo a riposare la palla in pellicola, in un luogo fresco per una mezz’ora.
Ho messo il latte con un grosso pizzico di sale in un pentolino, l’ho riscaldato e poi vi ho versato il riso, lasciandolo cuocere nel latte; dovrebbe assorbirlo tutto, formando una crema. Poi ho spento e lasciato intiepidire leggermente prima di aggiungervi il parmigiano grattugiato e la bietola saltata.
Ho steso poco più di metà della pasta in due sfoglie molto sottili su due fogli di carta da forno; ho foderato così le due teglie da 20 cm e in ognuna ho messo metà del ripieno preparato, in uno strato alto circa 2 cm. Ho ricoperto entrambe con uno strato di sfoglia ricavato dalla pasta restante e ripiegato i bordi esterni verso l’interno.
Ho bucherellato la superficie con un coltello ed ho spennellato il tutto di uovo sbattuto.
Ho fatto cocere a 180° g in forno già caldo per poco più di mezz’ora. Prima di sfornare, cospargere la superficie dello scarpazzone con pezzettini di lardo e poi far sciogliere al caldo del forno per alcuni minuti ancora.

ai fornelli

Vincitori del Contest Ricette a Spasso nel Tempo

Sono finalmente giunta a proclamare i vincitori del mio contest.
Che avrei voluto premiare molti più partecipanti, forse l’ho già detto, ma è veramente così: l’impegno che ci avete messo è stato fonte di grande soddisfazione per me, così oltre ai premi veri e propri ho deciso anche di menzionare alcuni post che a mio parere si sono distinti dagli altri!

Bando alle ciance, prima le menzioni:

– al post di Muffin e Dintorni con Walt Disney e i Biscotti al Burro di Arachidi va la menzione di Post dal Carattere più Personale;

– al post di BperBiscotto con Marie Antoine Careme e il Soufflé Rothshild va la menzione di Ricetta più Bella;
e al post di Staffetta in Cucina con Ildegarda von Binden e il Farzotto va a parimerito la menzione di
Personaggio più Affascinante;
e di Un’Italiana Senza Servitù con Luisa Tetrazzini e la Pasta alla Tetrazzini va a parimerito la menzione di Storia Più Divertente.

Ora veniamo ai premi:

Per la perfetta corrispondenza di personaggio e ricetta ho scelto:

Antonella ha preparato una ricetta che proprio il maestro Giuseppe Verdi amava mangiare; Loredana ha studiato una ricetta perfetta per il grande François Vatel e per la storia infelice della sua morte.
Si aggiudicano le due copie del libro “Donne e Cucina nel Risorgimento“.

Per la fantasia e l’estro con cui ha abbinato personaggio e ricetta ho scelto:
Paola di Nastro di Raso con Hans Christian Andersen e le Crèpes di Grano Saraceno

Ho apprezzato che sia andata a cercare un personaggio che avesse un legame con il luogo in cui lei abita. Da lì è partita alla ricerca di una ricetta che potesse interpretare una delle fiabe di Andersen.
Si aggiudica la copia del libro “A Tavola nel Risorgimento“.

Aspetto i recapiti delle tre vincitrici all’indirizzo ricettedicultura@gmail.com per inviare loro i libri.
Mi spiace che l’entità dei premi sia modesta, soprattutto in confronto ad altri contest che vedete in giro, ma non ho avuto alcuno sponsor; considerateli un regalo che ho voluto fare ai miei lettori di mia tasca.

Tutti coloro che non ho nominato qui saranno citati e linkati nel PDF che sto ultimando e che potrete scaricare dalla settimana prossima.

Grazie di cuore a tutti i partecipanti!

ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

Pìcula ad caval per l’Emilia Mon Amour, V parte

Ancora un appuntamento con l’Emilia Mon Amour, lanciato da Cecilia e Micol di Muffin e Dintorni, e ancora una ricetta di cucina emiliana ricca di storia e di tradizione. Per chi non sapesse ancora dell’iniziativa un esercito di foodblogger si è mobilitato nella raccolta di ricette emiliane o con prodotti emiliani, per la creazione di un e-book il cui ricavato sarà devoluto ad un’azienda del territorio emiliano per risollevarsi subito, dopo il terremoto.
Questo piatto, dal nome oscuro per chi non conosce il dialetto emiliano, altro non è che “piccola”, cioè tritata, di cavallo.
E’ una ricetta tipica piacentina e pare che fosse servita come pranzo ai cavallanti, ovvero ai corrieri a cavallo ottocenteschi, come dire “portarsi il lavoro a casa”… 😉
Premetto di non essere un amante della carne di cavallo, per i miei gusti un po’ troppo dolciastra, e invece questo piatto mi ha conquistata! Forse la lunga cottura fa sì che i sapori troppo stridenti vadano via e resti soltanto un piatto perfettamente bilanciato. Il segreto è far sì che la carne non si asciughi in cottura, utilizzando una pentola con il fondo spesso e di dimensioni proporzionate alla quantità di carne. Questo piatto va servito subito, appena è cotto, altrimenti diventa stopposo; non è possibile prepararlo in anticipo e poi riscaldarlo.
La pìcula ad caval si serve tradizionalmente facendo una sorta di buco centrale nella polenta calda appena deposta nel piatto e colmando questo buco con la pìcula stessa.
Visto che io l’ho cucinata in un giorno molto caldo ho rinunciato alla polenta, preparandone pochina solo per la presentazione. Ci siamo mangiati, invece, la pìcula facendo una lunghissima scarpetta con il pane e alla fine ne avremmo voluto ancora.
L’appuntamento del mercoledì con l’Emilia Mon Amour si ferma qui, ma io mi sono riproposta di provare ancora tante altre ricette di questa splendida terra… 
Non spegniamo i riflettori sull’Emilia, anzi li teniamo ben puntati, non solo – come spesso accade – durante l’emergenza, ma finchè la crisi non si sarà risolta!
Teniam bota!!

La ricetta: Pìcula ad caval

600 g circa di carne di cavallo tritata
1 cipolla tritata fine
50 g di lardo a fettine tritato finemente
250 ml di vino bianco secco
4-5 pomodori pelati
1 peperone
sale
pepe
1 rametto di rosmarino
5 foglie di salvia
un ciuffo di prezzemolo
5 foglie grandi di basilico
1 spicchio d’aglio

In un tegame abbastanza piccolo e dal fondo spesso ho messo la cipolla con il lardo tagliuzzato fine e ho fatto appassire per qualche minuto. Poi ho aggiunto la carne e l’ho fatta rosolare mescolandola bene. Dopo averla ben rigirata da ogni parte ho aggiunto tutto insieme il vino a fatto stufare sempre a fuoco bassissimo per circa 50 minuti. E’ importante che la pentola non sia troppo grande, così il vino non evaporerà troppo in fretta. Nel frattempo ho immerso i pomodori in acqua bollente e li ho pelati e poi tagliati a dadini minuti. Ho lavato il peperone, l’ho liberato dai semi e l’ho tagliato a listarelle lunghe e sottili.
Passati i 50 minuti ho aggiunto pomodori e peperone, ho aggiustato di sale e pepe e ho lasciato cuocere ancora per 50 minuti. Verso fine cottura ho preparato il trito con le erbe aromatiche e lo spicchio d’aglio, l’ho versato sulla carne, ho dato una rimescolata e ho spento il fuoco.
La picula va servita subito, con polenta o con il pane.

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