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Pesche grigliate e Asiago: l’accoppiata frutta e formaggio colpisce ancora

La pesca è stata considerata nei secoli un frutto da nobili. Come la pera, facilmente deperibile, quando non c’era la tecnologia del freddo, andava colta e consumata, ovviamente sulle tavole più raffinate, e non poteva entrare a far parte della dispensa se non in rari casi, sciroppata. Non che i ceti bassi non conoscessero la bontà di questo frutto.
Esiste infatti una novella dell’umanista quattrocentesco Sabadino degli Arienti che narra di un nobile e di un popolano contrapposti nella conquista delle pesche migliori. 
Il nobile, Messer Lippo Ghisilieri, aveva un giardino splendido e famoso, come allora si usava, ricco di ogni specie di erbe pregiate e frutti deliziosi. Fra questi c’erano anche alcuni alberi di pesco, carichi di frutti.
Quasi ogni notte il contadino Zuco Padella si creava un varco nella siepe che proteggeva tutto l’orto d’intorno e, raggiunti gli alberi di pesco, si portava via un bel po’ di frutti.
Il furto ripetuto e sfacciato mise in allarme Messer Lippo. Non si trattava di un furto occasionale, dettato dalla fame, ma di una vera sfida all’equilibrio di classe.
Messer Lippo per smascherare il ladro fa disseminare il terreno tutt’intorno agli alberi di trappole con chiodi rivolti all’insù.
La notte seguente Zuco Padella torna nel giardino e si punge l’alluce con uno di quei chiodi. Per nulla scoraggiato architetta una sorta di trampoli, con al fondo dei ferri da cavallo, in modo da lasciare sul terreno impronte d’asino e nel contempo non ferirsi e la notte seguente ritorna a rubare le pesche di Lippo.
Messer Lippo a questo punto pensa che sia davvero un asino a rubare i suoi frutti. Li fa cogliere tutti tranne quelli di un albero e intorno a questo fa scavare un fossato profondo, come una trappola per lupi, e si mette personalmente di guardia.
Zuco Padella si fa aspettare per tre notti ma, alla fine torna nel giardino sui suoi trampoli. Raggiunge l’unico albero carico di frutta e… cade nel fossato.

Messer Lippo, che non era un nobiluomo nel senso più profondo del termine, fa gettare nel fosso dell’acqua bollente e, mentre Zuco Padella chiede pietà, lo fa tirare su e lo rimprovera per essersi avvicinato a un frutto da nobili: «Bene, bene! È stata una caccia fruttuosa: volevo prendere un lupo e invece ho preso l’asino che mi mangiava le pesche.
Villano e ladrone che non sei altro! Credevi di gabbare Lippo e invece lui ti ha fottuto, che ti vengano mille cacasangui!  
Un’altra volta lascia stare la mia frutta e mangiati la tua, cioè rape, agli, porri, cipolle e scalogni con pan di sorgo!»
Proprio questa frase ci fa capire che la gelosia di Messer Lippo nei confronti delle proprie pesche sia di ragione morale: nessun villano si deve avvicinare ad un frutto da nobili!!!
Con le ultime pesche della stagione ho preparato un antipasto leggerissimo dal gusto delicato e dolce. 

La ricetta: Pesche grigliate con Asiago, miele e aceto balsamico.
ingredienti per 2/3 persone.
2 pesche mature ma sode, (sono ideali le percoche che non tirano fuori troppa acqua)
alcune fette di Asiago pressato dop, a stagionatura media, spesse 0,5 cm
tre cucchiai di miele
1 cucchiaino di aceto balsamico
semini di sesamo
sale rosa dell’himalaya (ma va bene anche qualche granello di sale grosso marino)
Ho preparato una salsina per far da base al piatto, mescolando il miele con l’aceto balsamico e mescolandolo con qualche goccino di acqua calda. Deve divenire molto fluida, quasi liquida.
Ho tagliato a fette le pesche, già lavate e sbucciate, e le ho disposte su una bistecchiera ricoperta di carta da forno.
Mentre le pesche grigliavano le ho man mano girate per farle dorare dall’altro lato.
Sui piatti ho messo la salsa preparata in precedenza. Poi vi ho disposto ordinatamente le fettine di Asiago.
Sul formaggio ho distributo le pesche ben calde, in modo che lo ammorbidissero e ho completato il tutto con qualche mini pezzettino di asiago, un altro filo di miele, dei semini di sesamo e qualche granello di sale rosa che si scioglierà quasi all’istante.
Sono perfette accompagnate da pane tostato di segale o ai cereali.

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Torta al cacao farcita di crema al lampone, dedicata a te!

Come molti di coloro che mi leggono sanno, domenica scorsa è stato il compleanno di una persona per me molto speciale…
Ci tenevo proprio a fargli una Supertorta e perciò quando il frutto del mio lavoro è rimasto appiccicato, come cemento a presa rapida, al fondo della tortiera che avevo imburrato per benino (non così benino, a quanto pare…) sono rimasta proprio male!!!
Tant’è!!!
Dopo una breve crisi isterica di circa 3 minuti e conseguente fase depressiva, sono andata a ricomprare gli ingredienti che mi servivano, accompagnata dalla SPS (suddetta persona speciale), perchè mi trovavo in luogo a me semi-ignoto…
Insomma, dopo essermi di nuovo rimboccata le maniche – e nel mezzo della preparazione di un pasto decente, caldo e tradizionale a 5 stanchi figuri che rientravano dalle vacanze, ho tirato fuori questa tortina qui:
Avevo pensato a lungo ai sapori che mi sembrano più adatti ad esprimere il mio sentimento… passione del caldo cacao e tenerezza del fresco lampone!
Inutile dire che l’abbinamento è stato uno spettacolo!!!
Ancora Auguri, Amore Mio!!!
La ricetta: Torta al cacao farcita di crema al lampone
Per la base da farcire:
25 g maizena
25 g farina
60 g zucchero
2 uova
1 cucchiaino di lievito per dolci
3 cucchiai colmi di cacao in polvere zuccherato
Ho ben montato i tuorli con lo zucchero finchè non sono diventati chiari.
Ho setacciato insieme farina, maizena, lievito e cacao e li ho aggiunti gradualmente ai tuorli amalgamando bene.
Il composto che si ottiene è molto denso.
Ho montato gli albumi a neve e li ho uniti all’impasto rendendolo di nuovo larabile, ma senza smontarli.
Infine ho trasferito il composto in una teglia di 24 cm di diametro (carta da forno, non rischiate con l’imburratura se non siete fiduciosi nella vostra teglia) e ho infornato a 170° per circa 35 minuti. La torta non deve sgonfiare al centro dopo la cottura, quindi regolatevi con il vostro forno; meglio tenere la temperatura leggermente più bassa e lasciare che la cottura duri un po’ di più!!!
Una volta che la torta era perfettamente fredda l’ho divisa a metà trasversalmente per farcirla.
Per la farcitura e la decorazione:
250 g di lamponi
125 g di mascarpone
100 ml di panna da montare
zucchero (mi sono regolata assaggiando e ho perso il conto dei cucchiai… :-/) 
due cucchiaini di zucchero a velo
Ho messo da parte metà dei lamponi per la decorazione finale. 
Ho scaldato in pentolino i restanti lamponi con un cucchiaio di zucchero e un cucchiaio di acqua. Si disfano subito, senza farli cuocere, schiacciarli con una forchetta e lasciar raffreddare.
Ho lavorato il mascarpone con qualche cucchiaio di zucchero, regolandomi man mano per la dolcezza.
Poi ho montato la panna e l’ho mischiata al mascarpone; infine ho aggiunto la poltiglia di lamponi. Non l’ho passata al setaccio, perchè i semini non risultavano fastidiosi.
Ho messo la crema così preparata in frigo perchè si amalgamassero tutti i gusti e diventasse ben soda.
Sulla metà della torta ho messo circa metà della crema, spalmando bene. Ho messo l’altro disco di torta e ho schiacciato leggermente perchè aderisse.
Sulla cima ho versato l’altra metà della crema , più abbondante verso il bordoo esterno e più bassa al centro, riempendo poi il centro con i lamponi che avevo messo da parte.
Infine ho spolverato i lamponi con lo zucchero a velo.
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Rotolo di sponge-cake al lemon curd

Per il mio compleanno, un paio di giorni fa, ho studiato una torta che potesse accogliere il prodigioso lemon curd, preparato la sera prima.
Ho trovato una torta soffice in rete, una versione della sponge-cake, che subito mi è sembrata adatta a quel tipo di farcitura. All’interno ne è bastato uno strato abbastanza sottile, perchè molto aromatico.
La resa anche visiva è ottima! E la torta è talmente soffice e leggera che non se ne possono prendere meno di due fette!!!
La ricetta originale la trovate qui, sul blog The Gingerbread Road
Io ho dimezzato le dosi, modificando leggermente le proporzioni, ed ho usato una teglia rettangolare lunga 30 cm, ne vengono circa 12 fette.
La ricetta: Torta-sponge da arrotolare al lemon curd
2 uova grandi + 1 tuorlo
20 g di farina setacciata
15 g di maizena
50 g + 10 g di zucchero semolato
qualche goccia di succo di limone 
lemon curd, preparato come indicato qui
Ho messo in una ciotola 1 uovo intero e due tuorli e li ho portati a temperatura ambiente, mentre l’albume restava in frigo.
Ho riscaldato il forno a 220° C.
Ho preparato la teglia con la carta forno leggermente inumidita in modo che aderisse bene.
Ho lavorato l’uovo intero e i tuorli con 50g di zucchero e poi ho aggiunto farina e maizena setacciate.
Una volta che il composto era ben amalgamato ho montato a neve l’albume con qualche goccia di limone. Poi ho aggiunto i 10 g di zucchero semolato e montato ancora per qualche istante.
Ho amalgamato l’albume ai tuorli senza smontare il composto ed ho trasferito il tutto nella teglia preparata in precedenza.
Ho infornato per 7 minuti, ad altezza centrale nel forno.
Una volta sfornato si cosparge subito di zucchero semolato, si rovescia sulla stagnola e si cosparge di zucchero anche l’altro lato.
Una volta che la torta era intiepidita, l’ho splamata con il lemon curd e l’ho avvolta a rotolo e fermata con la stagnola.
La torta si conserva in frigo fino al momento di servire, quando si cosparge di zucchero a velo, si taglia a fette e svela il suo ripieno!!!

Con questa ricetta, partecipo al contest “Cucinando… dolcemente” del blog “Io… così come sono” di Pippi.

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Il mio primo lemon curd

Questo è il Graal…il calice cercato per secoli, quello che dovrebbe dare la vita eterna…o la felicità almeno…
Come si dice che il Graal sia nascosto da qualche parte in Inghilterra, (e in molti altri luoghi, a onor del vero) così questa cremina goduriosa e saporita ha origini anglosassoni, dove viene usata per farcire torte o splamata su fette di pane tostato all’ora del thé.
Ecco Parsifal che si accinge a gustare il lemon curd
Questa era in effetti la prima volta che facevo il famoso lemon curd, senza neppure sapere come sarebbe dovuto essere il risultato finale, ed ho scelto una ricettina per andare a colpo sicuro, quella di Sigrid del Cavoletto di Bruxelles.
Non poteva non riuscire all’ennesima potenza e in effetti è una di quelle cose da provare almeno una volta nella vita, soprattutto se si ama il gusto del limone!
La consistenza con le dosi di questa ricetta è perfetta per essere spalmata in mezzo ad una torta… in effetti è buono anche da gustare con il cucchiaino, dimenticando la scarica di calorie, sopraffatti dalla scarica di gusto!!!
Gli antichi ci insegnano: perfetto anche come dessert!
La ricetta è versatile e solo cambiando il frutto si possono ottenere ottimi red curd di frutti rossi o curd di albicocche o di pesche, ma il prossimo che proverò sarà, credo, il kiwi curd!!!
Riscrivo la ricetta per comodità, ma l’ho presa pari pari da qui, solo dimezzando le dosi.
La quantità ricavata era perfetta per farcire una torta arrotolata che posterò a breve.
La ricetta: Lemon Curd di Sigrid
1/2 dl di succo di limone
buccia di 1 limone non trattato
75 g di zucchero
2 uova
50 g di burro
1/2 cucchiaio di maizena
Ho diluito la maizena nel succo di limone, poi l’ho messo in un pentolino con la buccia grattugiata, aggiungendo anche zucchero, uova intere e burro tagliato a pezzetti. 
Dopo aver mescolato con un cucchiaio ho messo il pentolino in uno più grande, con acqua bollente, su fuoco abbastanza basso, perchè il bollire non sia troppo violento e ho fatto cuocere a bagnomaria, sempre mescolando.
Ho mescolato finchè la crema non si è inspessita, ci vorranno dieci minuti o forse meno; l’importante è mescolare sempre per non far formare grumi sul fondo.
Versando il lemon curd in barattolo ancora caldo, si può conservare, una volta raffreddato, fino a un paio di settimane in frigo.

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La viticoltura eroica e l’Expovins 2011 di Aosta

Eroica. Questo aggettivo assegnato alla viticoltura rende perfettamente l’idea delle peripezie affrontate per produrre un ottimo bicchiere di vino.
La viticoltura è definita eroica se effettuata in condizioni proibitive; si fa riferimento a difficoltà strutturali oggettive, quali:
– altitudini superiori a 500 m sul livello del mare, escluse le coltivazioni effettuate in altopiano;
– pendenza del terreno superiore al 30%;
– coltivazione a terrazze o gradoni;
– viticoltura delle piccole isole;

Normalmente i vini prodotti in queste condizioni hanno anche un’altra importante caratteristica, ovvero sfruttano uve di vitigni autoctoni, poco diffusi al di fuori delle zone di origine, quindi hanno in più una tipicità che li rende unici!

La manifestazione del 19-20-21 agosto ad Aosta era proprio dedicata alla viticoltura eroica, per il 19° Concorso Internazionale dei Vini di Montagna. Do qualche numero: era possibile scegliere e degustare tra 162 etichette premiate tra i 524 vini presentati in concorso da 225 aziende diverse, da 26 differenti realtà regionali italiane ed estere.

I banchi di degustazione era due, uno dedicato ai bianchi e l’altro dedicato ai rossi, con una possibilità di assaggio potenzialmente totale, ovvero “chiedi e ti sarà dato” grazie alla disponibilità e gentilezza dei sommelliers del Cervim, mentre lungo il padiglione si snodavano due corridoi di piccoli stands dedicati a produttori valdostani di vino e di altri prodotti tipici.

Tra i prodotti valdostani su cui porre l’accento ne cito due in particolare: il lardo di Arnad e la carne di razza valdostana.
Il lardo di Arnad è l’unico lardo europeo  a denominazione di origine protetta. I riferimenti storici lo documentano fin dal XVI secolo, am ha origini più antiche, ed è oggi utilizzato non più solo come condimento ma come antipasto di rilievo da solo o abbinato a varie pietanze, persino sui dessert.
La particolarità del lardo di Arnad si trova non solo nel gusto del prodotto finito, ma va ricercata all’origine, nell’alimentazione dei maiali, nutriti in modo tradizionale a castagne e ortaggi, e sul metodo di stagionatura con l’impiego di aromi del territorio, e in tradizionali recipienti di legno di castagno chiamati doil.
Ad Arnad il 25-26-27 agosto si svolgerà la XLII Fehta dou Lar con degustazioni guidate, ed altri eventi da buongustai.
Il secondo accento va messo sull’allevamento che ancora segue il ritmo delle stagioni. Le aziende sono situate nel fondovalle e ivi stazionano gli animali in inverno, mentre d’estate, grazie alle loro caratteristiche di leggerezza strutturale e di robustezza degli zoccoli, raggiungono alti pascoli, dove lo sbalzo termico tra il giorno e la notte può arrivare a 35°C. La lunga esposizione ai raggi solari durante il giorno aumenta la resistenza degli animali, in gran parte destinati alla produzione di latte per la fontina e in parte alla produzione di carni.

Tornando al vino, abbiamo cercato di concentrarci su quello valdostano.
La viticoltura in Val d’Aosta risale al periodo pre-romano, abbondantemente documentata dai ritrovamenti di anfore che documentano l’attività vitivinicola.
La coltivazione avviene tutt’oggi su terrazzamenti sorretti da muretti a secco. Laddove la fillossera e la peronospora avevano distrutto gran parte delle coltivazioni esse sono state pazientemente ripiantate anche con la riscoperta di antichi vitigni, in altre parti d’Italia ed Europa ormai perduti. Le varietà coltivate sono numerose, i vigneti monoculturali. L’intera filiera vinicola è percorribile attraverso la “Route des Vins”.
Partendo dai bianchi valdostani faccio una breve carrellata su quelli che mi hanno colpito di più:
– il Valle d’Aosta DOC Chambave Muscat 2010 della Cooperativa Agricola La Crotta di Vegneron, medaglia d’argento, al naso risulta particolarmente dolce e con un profumo di albicocca che ricorda un passito; la sorpresa è in bocca, dove invece risulta secco e freschissimo;

– il Vallée d’Aoste DOC Pinot Gris 2010 dell’Azienda Agricola Lo Triolet, medaglia d’oro, particolarmente gradevole al naso, tra il dolce e il pungente, e dal sapore corposo e sapido;

– il Chaudelune, della Cave du Vin Blanc de Morgex et de La Salle, quest’anno non premiato, ma frutto di un procedimento particolarissimo che pone la vendemmia dei grappoli successivamente alla prima gelata. I grappoli si raccolgono di notte intorno ai -8°C. La pigiatura avviene per processo meccanico e la maturazione in sette botti di legni differenti che conferiscono aromi perfettamente equilibrati, nonostante più di 190 anni dalla sua nascita questo continua ad essere un vino sperimentale perchè vigneto più alto d’europa e per il metodo di produzione. Di un bel colore giallo dorato, ha profumo di frutta matura e zuccherina e in bocca è dolce, ma con un retrogusto fresco.

Per quanto riguarda i bianchi esteri:
– lo spendido Eiswein Zeltinger del 2009 del produttore Gessinger, un vino tedesco della zona della Mosella, vino dolce ma che non possiede la stucchevolezza di alcuni passiti; 

 

– il Sauvignon Blanc Alpha Estate del 2010 della Macedonia, sapido e corposo.

Tra i rossi valdostani:

– il Valle d’Aosta DOC Fumin del 2008 del produttore Les Granges, medaglia d’oro, al naso prorompente, dal caratteristico profumo speziato- affumicato, dal gusto caldo e vellutato;

– il Valle d’Aosta DOC Torrette Superieur del 2007, della Società Agricola La Source, medaglia d’argento, molto buono al naso, dalla forte connotazione tannica;

– l’Enfer DOC della Cooperative de l’Enfer di Arvier, ricavato all’85% da Petit Rouge; i vigneti disposti ad anfiteatro hanno una totale esposizione verso sud che creano un microclima caldissimo che ha valso al vino la enominazione di Enfer. Il profumo ricorda note di cioccolato fondente, in bocca prevale il gusto di vaniglia e mirtillo.

tra i non-valdostani:
– lo Sforzato di Valtellina DOCG del 2005, della Casa Vinicola La Torre, medaglia d’argento, dal profumo molto aromatico e in bocca molto corposo e strutturato con un deciso gusto di legno;

– il Banyuls Grand Cru Cuvée President Henry Vidal, medaglia d’argento, un vino liquoroso della tipologia del Porto o del Marsala, con un profumo particolarmente invitante.

La prossima edizione dell’Expovins si svolgerà nel 2013, la speranza è che resti ad Aosta perchè la manifestazione era ben organizzata e perfettamente vivibile, non caotica e stancante come altre del settore. 

[Le immagini delle etichette sono scadenti ma sono tutte, tranne il Chaudelune, fotografate dalla guida dell’Expovins.]

 

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Il Cappon Magro dell’estate

Il Cappon Magro è un piatto di origine antica. 
Le leggende sulla sua nascita sono tante ed ognuna sembra raccontare una parte di verità.
Alcuni dicono che una preparazione simile veniva portata dai marinai sulle navi, l’aceto infatti permette la conservazione dei cibi deperibili.
Altri fanno risalire l’origine del nome alla contrapposizione tra il pesce cappone e il cappone da cortile. Per rispettare le regole alimentari del periodo quaresimale e delle altre vigilie, il cappon magro appagava l’occhio e il gusto, senza essere carne.
Altri ancora parlano della composizione scenografica a strati come di un’invenzione rinascimentale o barocca, quando le tavole imbandite davano lustro ad una casata anche con bizzarre sculture di cibo.
Altri ancora dicono che il cappon magro in origine era un cibo tutt’altro che nobile e che si facesse con gli avanzi dei banchetti recuperati dalla servitù.
Tante diverse spiegazioni per un piatto che affascina, innanzitutto per i suoi colori, per la sua struttura che sfida la gravità e infine per la freschezza datagli dall’aceto. 
Cibo tradizionale della vigilia di Natale, ma anche per il periodo quaresimale, recentemente è riproposto in ristoranti raffinati, con bellissime monoporzioni.
La sua preparazione, un po’ lunga, è facilissima e può essere preparato in casa, in anticipo e sfoderato in un battibaleno.
Io ho fatto una versione con verdure estive, quindi non ci sono broccoletti, cavolfiori e rape rosse, ma altre verdure colorate che si trovano in questo periodo.
La decorazione superficiale può essere fatta con qualsiasi frutto di mare voi abbiate a disposizione. Nelle mie monoporzioni c’era una semplice seppiolina infilzata.

La ricetta: Cappon Magro estivo
ingredienti (per 4 monoporzioni – le coppette erano di 10 cm di diametro)
4 rapanelli (più qualcuno per decorare)
una manciata di fagiolini
2 carote
2 patate medie
1 peperone
3 nasellini (piccoli, va bene qualsiasi pesce a carne bianca, quello che trovate o che vi fa più comodo utilizzare; anche avanzato, purchè sia sufficiente per fare un bello strato)
gallette del marinaio (io non sapevo dove andare a pescarle e ho usato delle gallette integrali, vanno bene anche sottili fette di pane raffermo a mollica fitta) 

per intervallare ogni strato: salsa verde alla ligure preparata almeno 24 ore prima
Ho fatto lessare in acqua salata le verdure separatamente, in modo che fossero al dente, le ho affettate e condite in tanti piattini separati con olio e qualche goccia di aceto. Man mano che si raffreddano si possono mettere in frigo, in attesa che tutte le verdure siano pronte.
Ho lessato il pesce e l’ho condito con olio e limone.
Ho rivestito le ciotole con pellicola per alimenti, poi ho cominciato a mettere gli strati di verdurine.
Prima le fettine di ravanello, poi fagiolini, rondelle di carota, fette sottili di patata, listarelle di peperone, uno strato spesso di pesce a filetti. Ogni strato deve essere intervallato dalla salsa verde alla ligure.
Sopra il pesce ho messo la galletta, pressando bene e poi spruzzandola di aceto.
Ho ripiegato i lembi di pellicola sulla galletta, richiudendo il tutto e mettendo le ciotole in frigo.
Io ho lasciato in frigo una notte intera, tutti gli ingredienti si compattano ben bene e si insaporiscono di salsa.
Al momento di servire, ho capovolto le ciotole nel piatto e decorato con una seppiolina sbollentata e portato in tavola con focaccia genovese ancora tiepida fatta con questa ricetta di Vittorio Viarengo.

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Salsa Verde alla Ligure e il contest della Cuochina

L’ispirazione è ligure e si tratta di una ricetta antica che si perde nella notte dei tempi. Pellegrino Artusi la cita nel suo La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, tralasciando però di citare il famoso Cappon Magro, che la salsa andava a farcire, e la definisce semplicemente “Salsa per il pesce lesso”.
La ricetta originale della salsa verde ligure non mi sembra che preveda il basilico, ma io lo metto perché dà un tono decisamente più estivo alla salsa. Tutti gli altri sapori sono perfettamente equilibrati dopo il riposo in frigo!!
Io ho sostituito l’aceto di vino bianco con l’aceto di mele, che è più delicato.
Bisogna dosarlo man mano, essendo parsimoniosi all’inizio perché il gusto si svilupperà poi, pena il rischio che la salsa diventi troppo “acetosa”…
 
Il bello di questa salsa è che è molto versatile; viene usata per il cappon magro, tra uno strato e l’altro di verdure e pesce, o per il pesce bollito nudo e crudo o alla griglia oppure ancora per la cima genovese. Secondo me è perfetta anche per accompagnare elegantemente delle semplici verdure bollite o meglio ancora delle frittelle di cavolfiore o con l’acciughina.
Dopo il riposo “rituale” di 24 ore, si conserva, grazie all’aceto, per diversi giorni.

La ricetta: Salsa verde alla Ligure

1 mazzetto prezzemolo
1 manciata basilico
1 o 2 fette di pan carré bagnate nell’aceto di mele
1 grosso spicchio d’aglio
2 cucchiai pinoli
2 cucchiai capperi
4/5 acciughe
1 tuorlo d’uovo sodo sbriciolato
una decina di olive verdi
aceto di mele q.b.
olio extravergine d’oliva q.b.

Il procedimento è semplicissimo, ovviamente è la qualità degli ingredienti a fare la differenza.

Ho ammollato il pane in aceto di mele.
Ho lavato e asciugato le erbette e le ho tagliate grossolanamente, così come l’aglio.
Ho messo tutti gli ingredienti in un frullatore, e l’ho azionato ad intermittenza, aggiungendo l’olio a filo.
Deve uscire un composto omogeneo, ma denso.
Infine ho travasato il tutto in un barattolino e l’ho messo in frigo per 24 ore.
Il giorno seguente bisogna assaggiare la salsa e se il gusto acetoso non è predominante, magari aggiungerne qualche cucchiaino.

Questa volta l’ho preparata per il Cappon Magro, ma prima l’abbiamo assaggiata su crostini di pane…per vedere se era venuta bene!!! 🙂

Con questa ricetta partecipo al contest Aceto Sopraffino di Veru, La Cuochina Sopraffina, in collaborazione con R2M.

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Cioccolato + Albicocca = Torta AlbiCioccola

Per i romani era la mela armena, perchè in Armenia venne scoperta da Alessandro Magno. Ma le origini dell’albicocca sono geograficamente più lontane, nella Cina Settentrionale, al confine con la Russia e risalenti a 2000 anni prima di Cristo.
Nel suo nome è nascosto il significato di primizia: praecocum la chiamavano i latini, letteralmente “precoce”. Ed è come primizia che va consumata quando è matura e succosa ma non molliccia, perchè l’albicocca troppo matura diventa pastosa. 
Sulla bocca degli arabi diventa al-berquq e di qua alla nostrana albicocca il passo è breve.
Il periodo più adatto per consumare le albicocche è giugno-luglio ma io, ancora al 12 agosto avevo delle albicocche da salvare prima che facessero fagotto e migrassero sconsolate dal frigo, però non volevo farne marmellata e quindi ho pensato al modo più veloce per utilizzarle a pezzetti. Ne è uscita una ricetta-lampo, una specie di clafoutis, ma al cacao, quindi con una nota golosa in più.
Devo dire che è venuto benissimo, bello soffice, e che il sapore del cacao si sposa benissimo con l’asprigno dell’albicocca.
La ricetta: Torta AlbiCioccola 
Ingredienti:
6-7 albicocche grandi
3 uova
140 g di zucchero
100 g di farina
4 cucchiai di cacao zuccherato in polvere
Ho lavato le albicocche e le ho tagliate a spicchi sottili, spruzzandole di qualche goccia di limone, giusto per non farle annerire.
Ho montato le uova con lo zucchero e ho aggiunto poi la farina, mescolando bene, ed infine il cacao setacciato.
In una teglia rettangolare coperta da carta forno, ho disposto gli spicchi di albicocca, fitti-fitti, fino a riempire tutta la superficie. Poi sopra ho versato  il composto al cacao in uno strato uniforme.
Poi ho messo subito in forno già caldo a 175° per circa 25 minuti.
Quando la torta era fredda l’ho capovolta e ho staccato la carta forno in modo da scoprire le albicocche che si erano saldate nell’impasto.
Questa torta è in superficie quasi cremosa, per l’umidità rilasciata dai frutti; il giorno dopo è rimasta sofficissima e la nota acidulina è proprio piacevole!!! Al terzo giorno non arriverà!!! 😀
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Il calamaro che scoppia di sapore!!!

Ahimé, oltre a scoppiare di sapore, grazie al gusto avvolgente della mozzarella di bufala, i miei calamaretti sono proprio esplosi durante la cottura!!!
Forse li ho riempiti troppo… Così, però hanno dato un ottimo sapore anche al sughino sottostante. 
Avrei potuto scegliere dei calamari più grandi, anche più facili da farcire… però questi cuociono veramente in pochissimo tempo, restando teneri, e per il tipo di ripieno erano i più adatti. 
La ricetta: Calamari ripieni di mozzarella di bufala su una stuoia di fagiolini
ingredienti (per 2 persone)
500 g circa di calamaretti
100 g circa di mozzarella di bufala
200 g di fagiolini
2 grossi spicchio d’aglio
1 cucchiaino di capperi
prezzemolo e basilico
1 fetta di pane (la mollica)
vino bianco
Per prima cosa ho lessato al dente i fagiolini. Li ho divisi in due parti, una per il ripieno, l’altra per decorare il piatto.
Nel frattempo ho pulito i calamari, mettendo da parte le sacche.
Ho messo la fetta di pane ad ammollare in un dito di vino, e poi l’ho strizzata e sbriciolata.
Ho tritato i tentacolini e li ho messi a rosolare in due cucchiai d’olio con un grosso spicchio d’aglio.
Dopo qualche minuto ho aggiunto una parte dei fagiolini lessati, tagliati a pezzettini lunghi un cm. Ho rigirato per qualche minuto. Ho sfumato con il vino bianco e poi ho aggiunto prezzemolo e basilico tritati e i capperi, sciacquati ben bene. Infine ho aggiunto la fetta di pane sbriciolata.
Prima di spegnere, eliminare l’aglio, assaggiare ed eventualmente regolare di sale.
Ed ora, Calamaro, a me! 
Armata di santa pazienza, perchè erano piccolini, ho riempito le sacche dei calamari con il ripieno, aggiungendo in ciascuno qualche pezzettino di mozzarella di bufala, lasciata a scolare dal latte per una decina di minuti.
Fatto ciò occorre chiudere i calamari con uno stecchino.
Io li avevo dimenticati e quindi ne ho fatto a meno, anche perchè in cottura il calamaro si restringe e quindi il ripieno esce difficilmente con una cottura così breve.
I miei, purtroppo, hanno avuto un altro genere di incidente e si sono aperti in lunghezza. Dalla foto sembrano quasi più belli così!!!
Li ho fatti rosolare velocemente in olio e aglio, aggiustando di sale e di pepe.
Una volta cotti ho messo in fila una manciata di fagiolini sul piatto e sopra ho fatto sdraiare i miei calamaretti, che sono velocemente finiti in pancia!!
E sopra ci abbiamo bevuto un Gavi del 2009, dell’azienda agricola di Cinzia Bergaglio, acquistato personalmente in cantina!
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Si scrive Buchteln ma si legge Danubio

Il Danubio è una tipica torta rustica partenopea composta da palline di pasta lievitata colme di un ripieno dolce oppure salato. 
La frase che avete appena letto non è del tutto corretta.
La storica pasticceria Scaturchio a Napoli
In effetti questa sorta di torta composta da tante briochine a forma di pallina non nasce a Napoli, ma è entrata in pieno nella tradizione con il nome di Danubio o di Torta Danubiana. La “inventa” Giovanni Scaturchio, d’origine calabrese, che nel 1905 aveva fondato una pasticceria a Napoli in piazza San Domenico Maggiore, pasticceria rinomata ancora oggi.
Negli anni ’20 del ‘900 Scaturchio era tornato a Napoli, dopo la Grande Guerra, portando con sé una moglie salisburghese. Della pasticceria Scaturchio erano già note e rinomate la Pastiera, i Babà, le Sfogliatelle ricce, i Roccocò, gli Struffoli, un paradiso per i golosi insieme al Susammiello calabrese; ma proprio dagli anni ’20 iniziano ad esser prodotti dolci nuovi per i palati napoletani: lo Strudel, la torta Sacher e proprio il Buchteln, che per il nome troppo “esotico” viene presto italianizzato in Briochina dolce del Danubio, ripiena di marmellata.
Per la sua versatilità viene presto creata anche una versione salata che si mimetizza con gli “sfizi”, i fuoripasto della tradizione partenopea, farcita con provola e salame.
Il Buchteln però non scompare e resta nella tradizione dei dolci austriaci e trentini. Oggi è ben conosciuto da queste parti con l’antico ripieno di marmellata di albicocche, un must dei dolci austriaci, ed accompagnata ad una leggera crema alla vaniglia.
Credevo di preparare un Danubio, quindi, ma senza saperlo ho fatto un Buchteln!!!
La ricetta: Buchteln alla marmellata di albicocca con crema alla vaniglia
Per l’impasto:
275 g di farina 00
1/2 bustina di lievito di birra secco
125 g di latte
25 g di olio di semi
75 g di zucchero
un pizzico di sale
1/2 uovo (circa 30 g) (l’altra metà serve per spennellare alla fine)
una manciata di zucchero di canna
Ho fatto rinvenire il lievito nel latte tiepido con la punta di un cucchiaino di zucchero.
Ho messo in una ciotola capiente la farina, ho aggiunto lo zucchero, l’olio, l’uovo sbattuto con un pizzico di sale, il lievito precedentemente sciolto nel latte.
Ho impastato a lungo, aggiustando di farina, in modo da ottenere un impasto morbido e liscio.
Ho messo a lievitare in una ciotola coperta con pellicola in un luogo riparato per almeno 1h e mezza. L’impasto deve raddoppiare di volume.
Poi ho cominciato a formare le palline: si prende un pizzico di pasta grande poco più di una noce, si schiaccia tra le dita come per fare una focaccina, poi si mette nel palmo della mano e si farcisce con la marmellata, richiudendo poi i bordi come un fagottino.
Farcitura:
io ho usato un barattolino di marmellata di albicocche (la mia era fatta in casa con la pectina 2:1, quindi non era troppo dolce e conservava una nota acidula). Bisogna avere l’accortezza che la marmellata sia fuori frigo, in modo che il freddo non danneggi la lievitazione della pasta.
Ho formato quindi 22 palline e le ho messe nella teglia, lasciando un po’ di spazio tra l’una e l’altra. Ho rimesso a lievitare per almeno un’altra mezz’ora. Le palline devono crescere fino ad attaccarsi l’una all’altra.
Ho scaldato il forno a 175° e prima di infornare ho spennellato la superficie del dolce con uovo e latte, spargendo poi sopra una manciata di zucchero di canna. La cottura varia dai 20 ai 30 minuti.
La crema che ho usato per accompagnare il Danubio era una crema al latte senza uova.
250ml latte
70g zucchero
20g farina

una stecca di vaniglia

Ho messo a scaldare il latte in un pentolino con i semini di vaniglia. Non deve bollire, ma ho lasciato in infusione per dieci minuti.
A parte ho miscelato farina e zucchero e ho aggiunto qualche cucchiaio di latte per creare una cremina, poi ho amalgamato al restante latte e ho rimesso sul fuoco, mescolando, finchè non comincia a raddensarsi.
Quando la crema sarà fredda, sarà anche completamente densa.
L’ho deposta sul piatto e sopra vi ho posizionato una pallina di buchteln.
Dopo averne mangiato qualcuna senza crema direttamente con le mani, of course!!! 😀

Questa ricetta partecipa alla raccolta Abbecedario Culinario d’Europa, per l’Austria
 

http://abcincucina.blogspot.com.es/2012/12/benvenuti-in-europa.html

ai fornelli

Il giveaway di La Cuochina Sopraffina

Ieri, dopo infinite peripezie, dovute in parte a Poste Italiane e in parte alla mia postina, mi è arrivato un pacchetto!
E non era un pacco qualsiasi, in primo luogo perchè arrivava da Dublino…e in secondo luogo perchè era un regalo!!!
Infatti era il premio che ho vinto partecipando al giveaway della Cuochina Sopraffina su Facebook!!!
Se ancora non la conoscete cercatela qui: La Cuochina Sopraffina.

Ed eccomi qui, con i miei premi:

Grazie Veru!!! Ti penserò cucinando!!! 😀

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