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ai fornelli

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Biscotti con le impronte digitali di Pasticci & Pastrocchi

Come ogni domenica mi è venuta voglia di preparare un dolcino. La scelta è caduta sui dei deliziosi biscottini che sembrano pasticcini. Li ho trovati sul blog di Claudia, Pasticci & Pastrocchi e li ho copiati facendo solo delle piccole modifiche.
Sono velocissimi da preparare, perfetti per un improvviso attacco di golosità. E con il cioccolato al caffè sono una pausa merenda perfetta!!!
Ora li metto sottochiave e domattina li riproviamo a colazione!!!

La ricetta: Thumbprints cookies
Per 36 biscotti:
100 g di farina bianca + 60 g di farina integrale (originale: 160 g di farina bianca)
100 g di burro a temperatura ambiente;
100 g di zucchero di canna;
2 cucchiai di latte;
100 g di cioccolato ripieno al caffè Ritter (originale: 100 g di cioccolato al latte Venchi)
In una ciotola ho mescolato burro e zucchero fino ad ottenere un composto cremoso.
Ho aggiunto il latte e continuato a mescolare.
Ho ho incorporato la farina con una forchetta e successivamente ho impastato con le mani.
Seguendo la ricetta originale ho diviso l’impasto in tre parti e fatto 3 rotolini di impasto. Poi ho diviso ciascun rotolo in dodici pezzetti e formato con ognuno di essi una pallina.
Ho posizionato le palline su una placca da forno rivestita di carta da forno e formato una piccola cavità in ognuna di esse infilandoci il pollice.
Infine si inforna a 180° per circa 10/15 minuti, a seconda del forno.
Li ho tolti dal forno e li ho fatti raffeddare.
Poi ho fatto sciogliere a bagnomaria il cioccolato fino a farlo diventare una crema fluida e l’ho fatto colare nei biscotti con un cucchiaino e lasciato asciugare un po’.
Le indicazioni di Pasticci&Pastrocchi sono perfette, vengono esattamente 36 biscotti/pasticcini.
Io ne ho farcito 35, uno era già finito in pancia!!!

ai fornelli, ricette originali, storia & cultura

Spaghetti alla chitarra con peperoni, pinoli e cipolle rosse (anzi viola!) caramellate

«Sembrerebbe un cibo, se non fosse per il suo sapore strano e intenso.» Questa la frase pronunciata da Cristoforo Colombo per presentare all’Europa il peperone, e qui si capisce che Colombo faceva il navigatore e non il pubblicitario. Non credo che in molti potessero essere attratti da una presentazione del genere, ma bisogna capire che il gusto dell’epoca si era formato su ortaggi non troppo saporiti, le rape, ad esempio, o le fave e in pochi potevano essere preparati all’esplosione di sapore del peperone.

Inizialmente fu chiamato pepe d’India, per la sensazione che provocava sulla lingua simile a quella provocata dal pepe, ben conosciuto in Europa e simbolo delle tavole più altolocate.

Gli spagnoli pensarono che anche il peperone potesse servire per ricavarne una spezia e tentarono di farlo conoscere in Europa, cercando di far partire un bel business. I loro sogni di gloria naufragarono però (si può dire, parlando di navigatori???) perché il peperone, sia dolce che piccante, si adattò bene a tutti i climi e in pochi decenni riempì i giardini e gli orti d’Europa e Africa.

Da quel momento anche il più povero contadino poté facilmente fabbricare la sua dose di pepe d’India e parallelamente il gusto sulle tavole nobili, ancora condizionato da zafferano, chiodi di garofano e cannella, cominciò a virare verso l’apprezzamento delle erbette e delle verdurine, cominciando a lasciar un po’ da parte le spezie.

Il peperone intanto si diffuse in Italia da nord a sud, trovando terreno fertile, sia fisicamente, che metaforicamente nelle menti ingegnose dei cuochi improvvisati delle mense povere. Non c’è regione in Italia che non vanti qualche tipica qualità di peperone, da quelli dolci e tondi di Carmagnola in Piemonte, alle varietà più piccanti calabresi. E non c’è regione che non esalti il gusto del peperone con ricette di ogni tipo, dai peperoni con le acciughe piemontesi, alle peperonate venete, al peperone cucinato con il baccalà lungo il Tirreno ai friggitelli pugliesi e ancora alla caponata siciliana. La Calabria ha coltivato il culto di quelli più piccanti, facendone ingrediente irrinunciabile per i prodigiosi salumi e le varie miscele di verdure piccanti sott’olio. Un simbolo dell’Italia nel sud nel mondo? Basti dire che la pizza con il salamino piccante a Los Angeles, Pechino, Sidney e Nairobi si chiama semplicemente “peperoni”. E basta.
[fonti:
http://it.wikipedia.org/
M. Niola, Si fa presto a dire cotto, Il Mulino 2009.]
La ricetta: Spaghetti alla chitarra con peperoni, pinoli e cipolle rosse caramellate.

Avevo trovato questa ricetta sul sito della pasta Garofalo. Senza troppi ingredienti, l’incontro tra i sapori semplici è esaltante, anche con il peperone più insipido, figuriamoci ora che i peperoni sono belli succosi e dolci.
Per due persone, vanno bene:
spaghetti alla chitarra (quanti ne volete)
1 peperone rosso maturo (se vi capita con una nota piccantina, ancora meglio)
1 cipolla rossa di Tropea
1 manciata di pinoli
2 cucchiai di zucchero
1 spicchio d’aglio
1 filetto d’acciuga
olio, sale
Ho pulito il peperone e l’ho tagliato a pezzettini piccoli, tipo dadini.
Ho fatto soffriggere l’aglio in tre cucchiai d’olio, aggiungendo un’acciughina per dare sapore.
Ho versato i peperoni in padella e li ho fatti rosolare un po’, sempre mescolando, e poi ho fatto cuocere aggiungendo un filo d’acqua ogni tanto.
Intanto si può mettere l’acqua per la pasta a bollire.
In un padellino far tostare leggermente i pinoli e metterli da parte.
Ho poi affettato la cipolla finemente e l’ho fatta ammorbidire sul fuoco con un filo d’olio.
Poi ho versato i cucchiai di zucchero. Mentre lo zucchero si scioglie, la cipolla si ammorbidisce, quando è pronta spegnere e tenere al caldo.
Una volta che la pasta era cotta, l’ho scolata e passata in padella con i peperoni.
Poi ho impiattato, mettendo la cipolla sopra la montagnola di spaghetti, in modo che il sughino dolce colasse anche nel centro. Sopra la cipolla e i peperoni ho completato con i pinoli.
L’incontro tra il dolce acidulo e piccantino del peperone e il dolce pieno e rotondo della cipolla è squisito.

ai fornelli, buffet salato, insalate e piatti freddi, storia & cultura

Prosciutto e melone nel cestino di sfoglia

In Italia si usa servire il prosciutto crudo con il melone, come antipasto estivo o come piatto leggero.
Questo accostamento è in realtà frutto di un tramandare secolare di abitudini che affondano le radici in una cultura antica.
Già dal medico e filosofo greco Ippocrate nasce la visione del mondo basata su coppie di contrari: caldo-freddo, secco-umido… così come accade con le filosofie orientali, ad esempio con lo yin e yang taoista, su cui si fonda l’armonia universale.
Dall’antica Grecia quindi deriva anche l’uso di associare ogni cibo con il suo contrario, anche il melone, cibo freddo, con il prosciutto, cibo caldo, ma si veda anche in Vietnam l’abitudine di accostare frutti come meloni o cocomeri, ad un misto di sale e peperoncino. Più vicino a noi, in Francia, il melone viene servito con il sale o a volte, per lo stesso principio, con un vino dolce e forte. Il viaggio nell’antichità trova quindi riscontro anche in un viaggio spaziale, dall’estremo Oriente ai nostri vicini di casa.
 
Dal Medioevo in avanti, per molti secoli, la frigidità del melone, che lo porta oggi ad essere un cibo estremamente desiderabile per trovare ristoro dalla calura, era considerata non solo negativa ma addirittura pericolosa. Teniamo conto che i frutti dell’epoca erano molto vicini allo stato selvatico e quindi maturavano più difficilmente ed erano di sicuro più indigesti. Fatto sta che mangiare un frutto freddo come il melone senza stemperarlo con un cibo caldo, poteva essere la causa di spiacevoli indigestioni.
In particolare è famosa la triste sorte toccata al Papa Paolo II, morto all’improvviso nella notte del 26 luglio 1471. Il colpo apoplettico che lo colpì fu subito attribuito, dai medici che lo avevano in cura, ad una sorprendente scorpacciata di meloni che il Papa si era fatto subito prima di andare a dormire. La testimonianza  di Nicodemo da Pontremoli, parla di «tre poponi non molto grandi» ed «altre cose di triste substantia» verso le dieci di sera; ne parla anche Platina, che scrisse la biografia del Papa, dicendo che «si dilettava moltissimo a mangiare meloni, e da ciò si crede che sia stata provocata l’apoplessia da cui fu strappato alla vita. Infatti la sera prima di morire aveva mangiato due meloni, per giunta assai grandi». Che i meloni fossero tre piccoli o due grandi ha poca importanza, di certo ne mangiò abbastanza perché gli restassero sullo stomaco…anche se a guardare il suo ritratto viene il dubbio che non mangiasse soltanto meloni!!! 🙂
[fonti: 
http://it.wikipedia.org/
M. Montanari, Il riposo della polpetta, Laterza 2011.]
 
Con qualche fetta di melone al pasto non si rischia come con tre meloni interi, però l’abbinamento con il “caldo” prosciutto crudo rimane uno dei migliori, soprattutto per il contrasto di dolce e sapido che personalmente adoro.
 
La ricetta-non ricetta: Insalata nel cestino con prosciutto e melone.
 
Di fatto è una ricetta molto semplice, ma con una presentazione speciale che ho spesso preparato per una cena tra amici.
Ho creato un cestino di pastasfoglia, aiutandomi con degli stampini di alluminio, formato-muffin. Basta ritagliare la pastasfoglia pronta a forma di quadrati e adagiarla sugli stampini, infornando per un quarto d’ora a 170°.
All’interno del cestino, una volta raffreddato, ho messo della valeriana condita con qualche goccia di crema di aceto balsamico, delle roselline di prosciutto crudo (per 4 cestini vanno bene circa 2 etti) e delle palline di melone, ricavate con l’apposito scavino e rotolate nei semini di papavero. Ho completato con la croccantezza di una manciata di anacardi salati.
 
Unica accortezza, riempire i cestini subito prima di portare in tavola per far restare croccante la pasta sfoglia.
 
Con questa insalata nel cestino partecipo alla raccolta di Burro e Miele “Chi mi aiuta a raccogliere l’insalata?”.
 
ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

Le galettes di mare con chips di melanzane

Le galettes altro non sono che delle crêpes in versione salata, tipiche della zona della Bretagna.

Conosciute come specialità della tradizione culinaria francese, in realtà la storia le vuole come originarie dell’Italia.

La leggenda narra che nel V secolo alcuni pellegrini francesi giunsero a Roma stanchi e affamati, per la festa della Candelora,  e che il Papa Gelasio, per rifocillarli, ordinò di preparare un cibo a base di farina e uova. 

I pellegrini, una volta tornati in Francia diffusero queste frittatine increspate con il nome di crêpes, dal latino crispus.
Per tutto il Medioevo furono sempre preparate con farina di vari cereali o di grano saraceno (e non farina bianca di frumento) e con acqua o vino al posto del latte, che venne introdotto solo successivamente.

Secondo la tradizione i mezzadri le preparavano e le portavano in dono ai loro padroni come simbolo di alleanza e amicizia.
Le crêpes dolci (o le galettes salate) in Francia sono rimaste il piatto tipico della Candelora, ma di fatto si preparano in tutte le stagioni, per la loro caratteristica di cibo prêt à porter, preparate non in padella ma sulla tradizionale piastra.
Val la pena di prepararle anche alla Candelora, che si sia superstizioni o no. Infatti si narra che il giorno della festa le crêpes debbano essere girate tenendo una moneta in mano; se le crêpes girano bene allora fortuna e ricchezza vi accompagneranno durante tutto l’anno. 
[fonti:
http://www.taccuinistorici.it
http://it.wikipedia.org
http://www.pilloleculinarie.it
http://buoneforchette.canalblog.com]
Per preparare queste galettes ho messo insieme alcune suggestioni: il fatto che venissero preparate originariamente con grano saraceno e che in Bretagna vengano spesso farcite con crostacei.
Io ho usato della farina di 5 cereali, un ripieno di gamberi e vongole con una leggera besciamella senza burro e ho aggiunto delle sottilissime melanzane fritte ben asciugate dall’olio; il tutto viene velocemente passato in forno.
Sebbene il tempo di preparazione sia un po’ lungo, il piatto è delizioso e può essere preparato in anticipo, lasciando alla fine solo un veloce passaggio in forno.

La ricetta: Galettes ai gamberi e vongole con chips di melanzane

Per prima cosa ho messo le fette di una mezza melanzana a scolare; le fette già salate, vanno messe sotto un peso, poi strizzate e asciugate, prima di essere fritte in olio di arachidi.

Per le galettes, (con il mio padellone da crêpes da 28 cm di diametro, ne vengono 4; se si servono come antipasto, è meglio prepararle con un padellino piccolo, ottenendone il doppio):

100g farina (50g bianca e 50 g ai 5 cereali)
15g olio d’oliva
250 ml di liquido (così suddiviso: 125 ml di latte e 125 ml d’acqua)
1 uovo
1 pizzico di sale
Si mescola la farina con l’uovo sbattuto con un pizzico di sale; ottenuta una pastella densa, ho aggiunto a poco a poco il liquido (latte + acqua) e l’olio.
Ho lasciato riposare per circa 40 minuti l’impasto.
Se dopo il riposo dovesse essere eccessivamente denso, è più difficile ottenere delle galettes sottili, quindi aggiungere ancora un goccino di latte.
Deporre a cucchiaiate l’impasto nel padellino ben oliato e farlo scorrere fino a distribuirlo su tutta la superficie. Quando la sfoglia comincia a staccarsi dai bordi è pronta per essere sollevata con una paletta e rigirata.

Cuocere tutte le galettes prima di farcirle, è più comodo!

Per il ripieno:

una quindicina di gamberetti, sbollentati e sgusciati
40 g di vongole già lessate e sgocciolate

besciamella senza burro (250ml latte, 1 cucchiaio colmo di farina, sale, pepe)

Ho messo in un pentolino il latte; mentre scaldava l’ho aggiunto a cucchiaiate alla farina, fino a formare una pastella. Ho aggiustato di sale e pepe la pastella e l’ho rimessa sul fuoco per addensarsi. Dopo pochi minuti la besciamella è pronta. A piacere si può insaporire ulteriormente con formaggio grattugiato e noce moscata, io l’ho preferita neutra dovendo aggiungerla al pesce.
Intanto ho fatto rosolare uno spicchio d’aglio in padella con due cucchiai di olio, poi ho aggiunto le vongole e i gamberetti, già sbollentati e sgusciati. Ho fatto rosolare per pochi minuti, aggiungendo anche un goccino di vino bianco.
Infine ho aggiustato di sale e poi aggiunto alla besciamella già preparata.

Ho usato questo ripieno per farcire le galettes, completandole con fettine di melanzana fritte ben scolate.
Ho arrotolato e messo in forno a 170° per 10 minuti, basta solo che si riscadino uniformemente.
Le ho poi disposte nel piatto, tagliate a metà, e completate con alcune fettine di melanzana che erano avanzate dal ripieno.

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Cheesecake alle pesche profumate al timo

Ieri mi è venuta voglia di cheesecake e volevo prepararlo con la cottura in forno.
Stando alle mie documentazioni, il cheesecake newyorchese tradizionale prevede proprio il passaggio in forno, ma molte delle ricette che si trovano in rete hanno molte uova, addirittura sei per uno stampo di 26 cm.
Tra quelle archiviate tra i miei appunti ho trovato una ricettina della quale sinceramente non so identificare la fonte. Sicuramente mi era piaciuta perchè non aveva un’eccessiva quantità di burro nella base e soltanto due uova nella crema. Tutto sommato sembrava un po’ più leggero di altri cheesecake.
La ricetta originale era aromatizzata al limone, io ho cambiato completamente e ci ho messo delle pesche all’interno e servito così, al naturale, ma credo che con una copertura di gelatina alla pesche avrebbe avuto un giusto completamento!!!
Le dosi vanno bene per uno stampo rotondo da 26 cm.
La preparazione è abbastanza rapida, sebbene “a fasi”; alla fine si mette il dolce in forno a temperatura moderata e si lascia lì per un bel po’…il mio è rimasto un’ora e mezza. 
L’accorgimento da tenere presente è che, per essere gustato al meglio, il dolce deve essere servito freddo di frigo, quindi è opportuno preparalo al mattino o il giorno prima.
La ricetta: Cheesecake alle pesche profumate di timo
Fase 1, la base:
40 g burro
115 g farina
1 tuorlo
2 cucchiai di zucchero
1 cucchiaio di acqua fredda
Ho messo nel mixer burro, farina e zucchero e mescolato.
Ho aggiunto il tuorlo con l’acqua fredda e ho dato un’altra mescolata.
Ho disposto il composto in una teglia foderata da un foglio di carta da forno bagnata e poi strizzata.
Ho pareggiato la superficie con un cucchiaio.
Ho messo in frigo per 10 minuti e poi, dopo aver bucherellato la superficie messo  in forno a 180° per 12 minuti.
Fase 2, le pesche:
4 pesche piccole
3 cucchiai di zucchero
1 dito di vino bianco secco
1 cucchiaino di timo essiccato
Ho sbucciato le pesche e le ho tagliate a pezzettini minuscoli.
Le ho messe sul fuoco in una casseruola con lo zucchero.
Dopo un po’ ho aggiunto il vino e il timo e lasciato cuocere per almeno 10 minuti.
Le mie pesche erano piuttosto dure, ma in cottura non si devono disfare.
Fase 3, la crema:
400 g di formaggio cremoso (tipo philadelphia)
100 g di zucchero
2 uova 
180 ml di panna da montare + 1 cucchiaio di zucchero
le pesche preparate in precedenza
Ho lavorato il formaggio con lo zucchero fino a farlo diventare una crema.
Ho aggiunto le uova, uno per volta, mescolando bene.
Ho aggiunto al composto anche le pesche, dopo averle lasciate un po’ intiepidire.
Ho montato la panna con il cucchiaio di zucchero e l’ho aggiunta al composto senza farla smontare.
Assemblaggio:
Ho riempito con questa crema lo stampo dove nel frattempo la base si era raffreddata.
Ho messo in forno caldo a 160° e lasciato rassodare. Dopo circa un’ora ho abbassato la temperatura a 150°, e coperto la teglia con un foglio di alluminio bucherellato, perchè il dolce non era cotto ma si stava scurendo in superficie.
La torta, una volta intiepidita, va messa in frigo e servita fredda.
Alla fine ho semplicemente spolverato di zucchero a velo ed era buona anche così.
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Focaccia integrale per San Giovanni

La ricetta è quella del pane, con l’aggiunta dell’olio.
Non mi dilungo troppo sulla ricetta, che trovate qui, aggiungo solo che per due focacce 20×30 ho utilizzato le solite dosi, (250 g di farina così composta: 180 g di farina bianca e 70 g di farina ai 5 cereali) con l’aggiunta di due cucchiai d’olio d’oliva, e lasciato lievitare due ore abbondanti nel recipiente.
Successivamente ho diviso in due l’impasto, l’ho disteso sulla carta da forno aiutandomi con le dita unte d’olio e lasciato lievitare per un’altra mezz’ora.
Io le ho condite, una con pomodori a fette, l’altra con cipolle fatte rosolare velocemente in padella con un filo d’olio.
Tenerle d’occhio in forno perchè, essendo sottili, cuociono più in fretta del pane.
L’impasto era buono, areato e ben cotto. La prossima volta ci voglio mettere stracchino e rucola!!! 
Poi di corsa a vedere i fuochi che quest’anno mi sono piaciuti particolarmente, anche se le foto non rendono, per la cornice con cui sono stati presentati, musiche e racconti dall’Unità d’Italia ad oggi.
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Il Clafoutis di Ciliegie del Limousin e la mietitura nella Crau

Si avvicina il 24 giugno, San Giovanni, normalmente considerato il limite massimo per gustare le ciliegie senza il rischio di incorrere nel giuanin, il vermicello, che proprio dal Santo prende il nome. In realtà quest’anno, visto l’anticipo di stagione per le ciliegie, era previsto l’arrivo del vermetto un po’ prima del solito…ma, confidando nelle medicazioni che oggigiorno vengono fatte, direi che si possa rischiare un po’ meno di incapparvi.

La regione del Limousin
La stagione delle ciliegie più belle e succose coincide con quella della mietitura del grano e nella regione del Limousin, in Francia, un caratteristico dolce di ciliegie veniva in origine preparato proprio per essere portato nei campi e gustato durante una pausa dal duro lavoro.
Così è passato alla storia, come il dolce tipico dei contadini, poco dolce e poco elaborato da preparare, ma con una caratteristica unica: infatti le ciliegie vengono disposte nella teglia con il nocciolo e il picciolo, perché pare che proprio queste componenti trasmettano un gusto più persistente e particolare all’impasto.
Il nome clafoutis ha un’etimologia controversa; secondo alcuni la parola deriva dal dialettale clafir, che significa guarnire, riempire; per altri l’origine del nome si fa risalire al latino clavum figere, ovvero conficcare un chiodo, con riferimento alle ciliegie che vengono “piantate” nell’impasto.
Arles sulla mappa della Francia
Trovo molto poetica l’immagine dei contadini che a metà giornata, stremati, potessero contare su questa succulenta e dolce pietanza per rinfrancarsi all’ombra di un albero.
Sarebbe andata bene a Vincent van Gogh se per immortalare le fasi della mietitura fosse andato nel Limousin, dove certamente avrebbe rimediato una fetta di clafoutis.
Invece caso volle che il pittore olandese si recasse nei dintorni di Arles, in Provenza, precisamente nella piana della Crau, proprio per riuscire a dipingere dal vero i colori indescrivibili dei campi di grano. Questa pianura era una sconfinata distesa pianeggiante, che Van Gogh stesso descrisse all’amico Émile Bernard come una «piatta campagna dove non c’era niente se non… immensità… eternità».
Van Gogh era profondamente interessato a riprodurre nel modo più verosimile possibile l’atmosfera quasi estiva di giugno inoltrato, il «contrasto del blu contro l’elemento arancione del bronzo dorato del grano», impresa che gli riuscì magistralmente in questo piccolo dipinto, considerato un capolavoro del maestro e da lui stesso considerato il più riuscito, «fa passare tutto il resto in secondo piano».
Per dipingere la serie dei campi di grano l’artista lavorò nella Crau dal 12 al 20 giugno del 1888, en plein air, sotto il sole cocente, finché un’inaspettata tempesta distrusse il raccolto.
Sbocconcellando una fetta del mio clafoutis, mi godo questa incantevole opera.
Vincent Van Gogh – Paysage de Moisson – Arles 1888
La ricetta: il mio Clafoutis alle Ciliegie
per uno stampo piccolo da 20 cm di diametro ho utilizzato:
2 uova
90 g di zucchero (la ricetta originale ne prevede la metà)
70 g di farina
una manciatona di ciliegie (da riempire quasi completamente il fondo della teglia, io ne avevo un po’ meno)
Ho sbattuto le uova con lo zucchero, facendole montare un po’.
Ho aggiunto la farina setacciata, mescolando bene.
Ho disposto sulla teglia ben imburrata le ciliegie lavate accuratamente, senza togliere nocciolo e picciolo.
Ho versato sulle ciliegie, delicatamente, l’impasto di uova e farina.
Ho infornato a 170° per 30 minuti o poco più.
Quando la torta era fredda l’ho cosparsa con abbondante zucchero a velo.

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Un ricco tagliere…con le patate duchessa

Voglio proporre la foto appetitosa di un tagliere che ci siamo pappati a pranzo qualche giorno fa. 

A pranzo si è sempre di corsa, raramente accendiamo i fornelli…in più si cerca qualcosa di veramente sfizioso che riempia ma non sia troppo pesante.

Largo quindi alle insalatone e ai taglieri misti, che impazzano anche nei bar e ristoranti aperti a pranzo.
Da noi, in casa, ogni volta ci si dice: cosa mangiamo oggi? come se non ci fosse nulla in frigo… Poi pian piano il piattino si riempie e ci facciamo una bella abbuffata!!!
Qui abbiamo messo:  una grossa fetta di prosciutto crudo, degli assaggi di formaggio a fettine sottili, un pezzo di stracchino, qualche foglia di insalata, tre fettine di soppressata calabra piccante, qualche fettina di pane al papavero. Al centro ci sono le patate duchessa, avanzate dalla sera prima e riscaldate qualche minuto in forno, e ad accompagnare ancora un po’ d’insalata condita con olio e aceto balsamico.
Per il pane ai semini la ricetta è questa qui, con qualche cucchiaiata di semini aggiunta direttamente all’impasto prima della lievitazione. Ne ho fatto dei panini mignon, che cuociono perfettamente e sono anche belli da vedere.
Per quanto riguarda le patate duchessa, la ricetta è molto semplice, ma di grande effetto.
Ho lessato tre grosse patate e le ho sbucciate e schiacciate.
Ho regolato di sale e aggiunto un uovo sbattuto e un goccino di latte per amalgamare e dell’erba cipollina.
Ho messo qualche cucchiaiata del composto nella siringa da pasticciere e ho cominciato a disegnare delle nuvolette su una teglia coperta da carta forno.
Si è spezzata la bacchetta della siringa… O__O’
Ho messo qualche cucchiaiata di composto nella tasca da pasticciere e ho continuato a disegnare delle nuvolette sulla teglia coperta da carta forno.
Infine ho infornato a 180° per 15 minuti.
Potete farle più grandi o piccine…come contorno o come finger food…il successo è assicurato!!!

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Le vongole si sposano con i peperoni…ed è un successo!

Eccole di nuovo, le vongole precotte e conservate nella loro acqua di cottura, che ti risolvono la serata con una sughetto veloce e di sicuro successo! La scorsa volta le avevo abbinate ai ceci.

Questa volta ho provato con i peperoni che iniziano ad essere dolci, senza più l’ombra dell’asprigno.
La preparazione è elementare. 
Olio soffritto con aglio e un peperoncino schiacciato, peperoni tagliati a pezzettini in padella, lasciati cuocere, finchè non si ammorbidiscono, con due dita di vino bianco. Poi ho aggiunto le vongole e ho fatto completare la cottura, con una bella manciata di prezzemolo tritato, finchè cuoceva la pasta.
Una girata e via: gli spaghetti sono già nel piatto, piccanti e profumati! 😀

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L’uovo sospeso di Piero e la torta 4 albumi al limone

Dovendo cercare un’immagine artistica che si potesse facilmente collegare alle uova il primo pensiero è andato alla Pala di Brera di Piero della Francesca, intitolata Sacra conversazione.
Piero della Francesca – Sacra conversazione con Santi e Federico da Montefeltro – 1472 circa.
 Questo dipinto rinascimentale, in origine forse collocato nella chiesa di San Bernardino ad Urbino, mi è rimasto ben impresso nella mente dalla prima volta che l’ho visto per tre motivi principali: Federico da Montefeltro, il bambinello che scivola e l’uovo.
Battista e Federico da Montefeltro ritratti da Piero della Francesca
Il faccione di Federico di Montefeltro a cui si devono tra l’altro i palazzi ducali di Urbino e di Gubbio, visto una volta non lo si scorda più!
A proposito del palazzo ducale di urbino Baldassarre Castiglione scrisse: «Federico] edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il più bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni oportuna cosa sì ben lo fornì, che non un palazzo, ma una città in forma di palazzo esser pareva.»
Federico fu un grandissimo mecenate e amico di Piero della Francesca, ma la storia parla di lui anche come di un signore duro e crudelissimo con i suoi antagonisti.
Pare che ricevette in battaglia una ferita all’occhio destro e che da allora si fece ritrarre sempre volgendo l’altro profilo all’osservatore.
Il bambinello che sta sulle ginocchia della Madonna sembra scivolare giù non trattenuto dalle braccia della madre assorta in preghiera.
Questo bambino potrebbe in realtà rappresentare il piccolo figlio di Federico, Guidobaldo, nato proprio in quegli anni, mentre la Madonna potrebbe essere ragionevolemente la personificazione di Battista Sforza, moglie di Federico, morta poco dopo il parto. Alla luce di queste premesse è facile comprendere come Federico da Montefeltro non fosse esattamente un tipo modesto.
E poi c’è l’uovo!!!
Cosa ci fa quell’uovo sospeso alla volta della chiesa? La funzione dell’uovo all’interno delle chiese viene spiegata egregiamente qui .
In pratica, citando il testo del 1284 di Guillaume Durand de Mende, vescovo del XIII secolo, viene chiamata in causa l’antica simbologia dell’uovo di struzzo: secondo una leggenda lo struzzo, smemorato, abbandona le sue uova sotto la sabbia; poi, illuminato da non si sa quale stella, recupera la memoria, ritorna presso di esse e comincia a covarle.
Assimilando questa leggenda alla simbologia mistica cristiana, anche l’uomo, abbandonato Dio a causa del proprio peccato, illuminato all’improvviso dalla luce divina dello Spirito Santo  può ritornare sui propri passi pentendosi e ritornando alla fede.
Secondo un altro filone i mistici medievali ritenevano le uova di struzzo fecondate dalla luce del sole e quindi «Se il sole può far schiudere le uova di struzzo perché una Vergine non potrebbe generare per opera del vero sole?» aveva detto Alberto Magno, riferendosi al mistero dell’Immacolata Concezione.
Il fatto più singolare è che l’uovo sia appeso nell’interno di una volta a cassettoni, presumibilmente la volta di una chiesa, visto che di sacra conversazione si tratta, e sospeso ad una lunga catenella dorata. Possibile che Piero della Francesca si sia inventato di sana pianta questa cosa solo per avere un punto di fuga nella sua architettura prospettica immaginaria e un centro per il gioco di circonferenze che sembra reggere tutta l’equilibrio della composizione?
In effetti nella liturgia antica bizantina viene documentata la presenza di uova appese a catenelle come ornamento di chiese; esse simboleggiano la cura di Dio per il suo popolo.
Antonio Paolucci, grande storico dell’arte, in una delle sue pubblicazioni parla dell’uso diffuso di sospendere fisicamente uova di struzzo all’interno di importanti edifici religiosi, come il duomo o il battistero di Firenze, luoghi che Piero della Francesca conosceva bene. Non si trovano molte fonti sull’argomento, ma se così fosse sarebbe in effetti la prova che l’usanza era effettivamente abituale.
Naturalmente l’uovo, rapportato visivamente alla conchiglia alle sue spalle, potrebbe anche essere assimilato ad una perla che per nascere all’interno della conchiglia stessa non ha bisogno della fecondazione maschile, facendo riferimento all’Immacolata concezione avvenuta nello stesso modo.
Resta che, osservato da vicino, quello è nettamente un uovo, non una perla!
La ricetta: torta ai 4 albumi, con crema al limone e gelatina di limone
Uova che si mangiano e porzioni di uova che restano in frigo quando servono solo i tuorli…questa volta sono rimasti in frigo i tuorli perché ho voluto preparare la torta 4 albumi. Questo tipo di torta, da gustare anche da sola, è leggera e soffice, arricchita dalle mandorle, e una farcitura come la crema al limone è adattissima a darle un tocco in più.
Per la torta quattro albumi (io l’ho presa da Coquinaria, ma in rete si trova un po’ dappertutto!) ho usato:
4 albumi
45 g di mandorle tritate
40 g di farina
125 g di zucchero
80 g di burro
sale
Ho fatto sciogliere il burro a bagnomaria e l’ho lasciato intiepidire.
Ho tritato le mandorle e le ho mescolate alla farina e allo zucchero.
Ho montato a neve gli albumi freddi di frigo con un pizzico di sale.
Ho unito gli albumi alla miscela di farina, mescolando dall’alto in basso, e per ultimo ho aggiunto il burro fuso.
Ho infornato per 30 minuti a 180°C.
Per la crema al limone (senza uova!!) ho usato:
250ml latte
70g zucchero
20g farina
la buccia grattugiata di 1 limone non trattato
80ml di panna da montare
Ho messo a scaldare il latte in un pentolino
In un altro pentolino ho mischiato farina, zucchero e buccia di limone
Ho poi aggiunto qualche cucchiaio di latte a formare una pstella morbida e poi il restante latte, ormai caldo, a filo.
Ho rimesso sul fuoco e mescolato con un cucchiaio di legno finchè non rassoda.
Ho fatto raffreddare la crema e poi aggiunto 80 g di panna montata, zuccherata poco.
Poi ho diviso a metà la torta e sopra il fondo ho messo la crema al limone e poi ricoperto con l’altra mezza torta.
Sulla superficie ho spalmato della gelatina di limone preparata con il succo di un limone e tanto zucchero quanto il peso del succo.
Si fa sciogliere sul fuoco e raddensare. Poi si lascia colare sulla torta, già decorata con fette di limone.
ai fornelli

Dove buttare l’olio di frittura usato

Questo non è un vero e proprio post! E’ quasi una comunicazione di servizio… 😉

Ieri su Facebook circolava questo messaggio:
«Sapete dove buttare l’olio della padella dopo una frittura fatta in casa?
Sebbene non si facciano molte fritture, quando le facciamo, siamo soliti buttare l’olio usato nel lavandino della cucina o in qualche scarico, vero?
Questo è uno dei maggiori errori che possiamo commettere.
Perché lo facciamo? Semplicemente perché non c’è nessuno che ci spieghi come farlo in forma adeguata.
Il meglio che possiamo fare è ASPETTARE CHE SI RAFFREDDI e collocare l’olio usato in bottiglie di plastica, o barattoli di vetro, chiuderli e metterli nella spazzatura.
UN LITRO DI OLIO rende non potabile CIRCA UN MILIONE DI LITRI D’ACQUA, quantità sufficiente per il consumo di acqua di una persona per 14 anni.
Se poi siete così volenterosi da conferirlo ad una ricicleria pubblica ancora meglio, diventerà biodiesel o combustibile.
Se tu scegli d’inviare questa e-mail ai tuoi amici, l’ambiente e i ns. figli ti saranno molto riconoscenti!
Presso il Centro Ecologico della ditta Cosir nella zona industriale del Comune di Dolianova è disponibile un raccoglitore dell’olio esausto.
Il cambiamento inizia da noi stessi. Se speri di cambiare il mondo inizia a cambiare casa tua e le tue abitudini.»

Premettendo che non ho idea dove si trovi Dolianova, mi è sembrato uno spunto molto interessante, perché tante volte gettando l’olio della frittura mi sembrava di fare una cosa poco pulita, ma non sapendo dove metterlo era inevitabile buttarlo nello scarico.

Sono andata subito a cercare su internet informazioni su un centro ecologico a Torino che accettasse gli oli vegetali esausti. C’è e non si trova in una sperduta zona industriale: viene segnalato in via Arbe 12, vicinissimo al Parco Ruffini e, a detta di chi c’è stato, si sbriga tutta la faccenda in cinque minuti: l’olio in un contenitore blu, la bottiglia sporca in quello arancione e via!
Dopo aver fatto qualcosa per l’ambiente – e per il futuro di tutti – ci si sente meglio…e anche questa volta (come qui!) è gratis!!! 😀
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