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Mousse di Fragole mentre fuori piove…

Questo dessert è una coccola. Le fragole in questo periodo sono belle mature e, visto che in questi giorni non smette di piovere, non posso far passare l’occasione di farne un dolcissimo dopocena.

Per 4 coppette ho utilizzato:
150 g di fragole
4 cucchiai di zucchero + 2 cucchiaini per la panna
100 ml di panna fresca da montare
1 foglio di gelatina
croccantezze a piacere (frutta secca, cioccolato, confettini…)
4 biscotti gustosi (tipo macine)

Ho messo ad ammorbidire il foglio di gelatina in un po’ d’acqua fredda.
Ho lavato e tagliato a pezzetti le fragole, le ho messe in un pentolino con lo zucchero e le ho fatte scaldare finchè lo zucchero non era completamente sciolto e le fragole avevano tirato fuori il loro sciroppo, poi le ho fatte intiepidire.
Sul fondo di ogni coppetta ho deposto il biscotto intero e l’ho bagnato con un po’ dello sciroppo venuto fuori.
Un altro cucchiaio di quello sciroppo mi è servito per far sciogliere il foglio di gelatina strizzato.
Ho frullato le fragole e ho aggiunto la gelatina sciolta.
In un altro recipiente ho montato la panna con i due cucchiaini di zucchero.
Ho aggiunto la panna alle fragole frullate mescolando lievemente, senza farla smontare e lasciando qualche parte non perfettamente amalgamata.
Ho diviso il composto nelle coppette, sopra il biscotto che vie era stato precedentemente deposto.
Ho messo in frigo per 4 ore.
Al momento di servire ho decorato con una fragolina e con dei pezzettini di cioccolato e nocciole.

C’è la croccantezza del cioccolato, il soffice della mousse, la sorpresa finale del biscotto ammorbidito… È giugno ma fuori piove? Pazienza… 😉

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Un blog che non grava sull’ambiente

Da oggi il mio blog diventa ad impatto zero!!!
Offerte online amiche dell'ambienteAderendo all’iniziativa “il mio sito è carbon neutral” si realizza il sogno ecologista di eliminare l’anidride carbonica che si produce. Questo può avvenire sfruttando la capacità degli alberi di neutralizzare la CO2.
Secondo gli studi del Dr. Alexander Wissner-Gross, attivista ambientale e fisico di Harvard, un blog produce una media di circa 0,02 g di CO2 per ogni visita, quantità legata al funzionamento dei server che sono veri mostri mangia-energia. Prendendo come campione una media di 15.000 visite al mese, questo si traduce in 3,6 kg di CO2 l’anno.
Questi numeri sono ben lontani dal numero di visite che ricevo io (almeno per ora! ;D), ma per ogni blog o sito aderente all’iniziativa, grande o piccolo che sia, verrà piantato un albero che neutralizzerà l’anidride carbonica prodotta dal blog stesso per circa 50 anni.

Con un piccolo gesto assolutamente gratuito si può quindi fare qualcosina, che però diventa veramente significativo se moltissimi blogger aderiscono.
Il mio albero, una quercia, (all’incirca il 211esimo albero di questo progetto) verrà piantato da Doveconviene . it in partnership con www.iplantatree.org, associazione che ha già operato nella riforestazione di varie aree.
Doveconviene.it raccoglie sulla pagina web  i volantini delle catene commerciali (ipercoop, castorama, lidl, ikea…etc)  in modo che gli utenti possano sfogliarli e confrontarli agevolmente e trovare il prezzo più conveniente prima di procedere con un acquisto.

I volantini digitali, non solo consentono di avere ben chiaro il confronto fra i prezzi, ma rappresentano un’alternativa ecologica al volantino cartaceo che è una delle maggiori fonti di spreco di carta (ogni anno 500.000 tonnellate di carta vengono impiegate per stamparli, pari a 3 milioni di alberi…e dove finiscono i volantini pubblicitari lo sappiamo tutti).

Oltre a far risparmiare carta e quindi a salvare alberi, da oggi Doveconviene.it vuole anche contribuire a piantarne di nuovi con l’iniziativa “il tuo blog ad impatto zero”, facendosi carico dei costi degli alberi da piantare in cambio della visibilità che l’iniziativa offre.

Il progetto attuale è localizzato a Göritz in Germania in un’area piuttosto ampia di 3,4 ettari, dove verranno piantati circa 27.000 alberi.

Il mio albero non verrà piantato in Italia, ma al momento di aderire all’iniziativa, non dimentichiamo che il pianeta è uno solo!!!


Per ulteriori informazioni e per aderire  collegarsi alla pagina “co2 neutral di doveconviene-punto-it –  offerte e volantini intorno a te”.
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Ludwig II di Baviera, un mistero per sempre

Il 2011 è l’anno di Ludwig II di Baviera, nella ricorrenza del 125° anniversario della sua morte.
Ludwig di Baviera è stato il più conosciuto e amato sovrano bavarese, che in vita fece opere stravaganti e dopo la morte conservò un’aura di misteri insoluti. Rimane tutt’oggi per il suo popolo il Re dei bavaresi e qualcuno lo definisce la prima pop star della storia, una figura complessa assimilabile a quella di Michael Jackson o Freddy Mercury.

Ritratto di Ludwig II di Baviera

Ludwig di Wittelsbach nacque a Nymphenburg nel 1845 e visse per quasi tutta l’infanzia presso il castello di Hohenswangau, con un padre impegnatissimo dalle questioni di stato e con una madre incapace di dargli affetto. Il piccolo Ludwig, timido per natura, si rinchiuse sempre più in se stesso, creandosi un mondo su misura. La sua adolescenza fu segnata da un’istruzione debole, un grande narcisismo e moltissima solitudine.

Divenuto re all’improvviso nel 1864 a soli 18 anni, si tirò addosso gli occhi di tutta Europa. Era alto un metro e novantuno, slanciato, con gli occhi azzurro cupo. Il suo fidanzamento con la cugina Sofia di Baviera (la sorella minore della più famosa Sissi) non diventò mai matrimonio, perché Ludwig lo troncò all’improvviso. Anni dopo fecero scalpore i diari in cui appariva evidente l’omosessualità del giovane Ludwig, a lungo combattuta dalla sua ferrea morale di stampo cattolico, che mai gli consentì di vivere una sessualità libera.

Il castello di Hohenswangau, visto da Neuschwanstein

Nel castello di Hohenswangau, al confine meridionale della Baviera, avvenne un incontro che gli condizionò la vita. Lì infatti conobbe personalmente Richard Wagner che già ammirava da tempo. Ludwig aveva ascoltato il Lohengrin a soli 15 anni e con il suo spirito tipicamente sognatore ne era rimasto assolutamente affascinato.
Una volta divenuto re il suo primo desiderio fu quello di richiamare Wagner che anni prima, sovrastato dai debiti, era fuggito all’estero a causa dei creditori; Ludwig lo finanziò, lo installò nel castello di Hohenswangau  e lo mise al suo servizio per la composizione di nuove opere. La musica di Wagner dava vita a quella che era la visione del mondo di Ludwig: gli antichi miti germanici che aveva conosciuto fin dall’infanzia e che popolavano il mondo parallelo nel quale si rifugiava per sfuggire alle regole di corte.

Renoir – Ritratto di Wagner

Wagner, spesato e mantenuto e senza il pensiero dei debiti, aveva promesso di finire l’Anello del Nibelungo in tre anni. Ludwig si innamorò subito del mondo culturale di Wagner, nutrendo anche una sincera ammirazione per il compositore, che considerò però sempre come una persona di rango inferiore. Per il musicista fece costruire il Teatro dell’Opera di Bayreuth, teatro wagneriano per eccellenza, e i pettegoli parlarono addirittura di una relazione amorosa tra i due. D’altro canto Wagner fu sempre tacciato di un certo opportunismo e dall’alto della sua arte considerava Ludwig come suo pari, tanto che proprio per questa ragione a un certo punto fu allontanato.

Elisabetta d’Austria

Ludwig II era un personaggio particolarissimo, romantico per antonomasia, di notte usciva, passeggiava nella notte, scriveva e leggeva, lasciando libera la propria fantasia; di giorno dormiva fino a tardi, cercando di prolungare il più possibile i suoi sogni. Era però vicinissimo al suo popolo da quale era riamato. Sono molti gli aneddoti che narrano di un re gentile e generoso con i popolani, un re da fiaba.

Aveva stretto un particolarissimo rapporto con la cugina Elisabetta d’Austria, Sissi, con la quale condivideva l’insofferenza per l’etichetta di corte e con cui si scambiava lunghe lettere e versi, soprannominandosi l’un l’altra “gabbiano” e “aquila”.
Il 30 novembre del 1870 Ludwig, a letto con un fortissimo mal di denti, ricevette la visita del conte Holnstein, ambasciatore di Bismarck, che gli consegnò la famosa Kaiserbrief, la “lettera imperiale” in cui lo si spingeva ad avallare l’elezione di Gugliemo I come imperatore tedesco. Dopo lunghe trattative il re acconsentì con la sua firma, ma in questo modo rinunciò all’autonomia della Baviera e divenne più spiccato il suo desiderio di costruirsi un mondo di sogno parallelo a quello reale. Inizia l’epoca della costruzione dei suoi castelli. Ludwig abbandona Monaco per diventare Re di un mondo fiabesco.

Il primo castello fu Linderhof, costruito tra il 1869 e il 1879, e dove Ludwig soggiornò più a lungo. Su una preesistenza di terreno risalente al Quattrocento e sulla successiva residenza di caccia, Ludwig voleva creare una residenza per se stesso, ispirata al Petit Trianon di Maria Antonietta. Al piccolo palazzo geometrico fanno da sfondo un sontuosissimo giardino, con fontane e statue e due padiglioni, ispirati al gusto orientaleggiante dell’epoca ed acquistati direttamente a due Esposizioni Universali di Parigi. Un’altra attrazione di Linderhof è la grotta di Venere, una grotta artificiale di stalagmiti, ispirata alla grotta azzurra di Capri, dove il sovrano amava passare le ore. Le innovazioni tecnologiche e i giochi d’acqua non si contano. Ludwig navigava il lago sotterraneo a bordo di una barca a forma di conchiglia mentre cambiavano le correnti e i colori delle luci grazie a marchingegni meccanici.

Veduta di Linderhof con la catena d’acqua retrostante e lo specchio d’acqua davanti

Andy Warhol – Neuschwanstein

Neuschwanstein è il simbolo della Baviera nel mondo. Realizzato poco lontano da Hohenswangau, castello dove Ludwig era cresciuto, venne realizzato su progetto dello scenografo Christian Jank a partire dal 1869. L’idea venne naturalmente a Ludwig dopo la visita alla fortezza medievale di Wartburg in Turingia. Dall’alto dei suoi 965 m domina i paesi di Füssen e Swangau e diversi laghi tra cui il piccolo Alpsee. Sopra la gola del Pöllat vi è un ponte intitolato a Maria, la madre di Ludwig, dal quale si gode la miglior vista del castello.

Walt Disney rimase affascinato dal castello prendendolo a modello per il castello de La Bella Addormentata nel Bosco nel cartone animato e successivamente nei parchi di divertimenti; Andy Warhol, ugualmente incantato, lo fece soggetto di una sua opera.

Veduta di Neuschwanstein

Neuschwanstein visto dal ponte sopra il Pöllat

La terza creazione di Ludwig fu Herrenchiemsee, costruito a partire dal 21 maggio 1878; il re stesso scelse l’ottima posizione, ovvero il centro del lago Chiemsee, la Herreninsel, ospitante un antico convento di monaci agostiniani.
L’ispirazione per Herrenchiemsee gli venne da Luigi XIV, da sempre figura molto amata dal sovrano bavarese, e l’intento era quello di farne una copia Versailles. La facciata nasce infatti per esserne la copia esatta. Il palazzo non fu mai portato a termine a causa della morte prematura del Re, resta solo il blocco centrale.
Gli interni sono ispirati alla reggia francese con influenze ottocentesche suggerite dal sovrano. Al di là delle varie anticamere, la stanza più sfarzosa di tutte è la camera da letto, improntata al cerimoniale di corte francese; stupefacente la Galleria degli Specchi, lunga 98 metri, 25 più di quella di Versailles.
Veduta di Herrenchiemsee

In tutti e tre i castelli creati dal sovrano, così come nelle preesistenti residenze reali vi erano delle sfarzosissime camere da letto, un vero e proprio vezzo per Ludwig, al limite del pensabile per la profusione di ori e decorazioni. Un’altra particolarità, presente a Linderhof e ad Herrenchiemsee era il famoso Tischlein-deck-dich, il tavolo che si apparecchia da sé, un marchingegno direttamente collegato con le sottostanti cucine, che scendeva spoglio e risaliva imbandito perché Ludwig non fosse disturbato dai valletti mentre mangiava.
Il sovrano era sicuramente interessato alle innovazioni della tecniche e a questo riguardo le sue residenze sono dei veri capolavori, con l’utilizzo di ferro nelle strutture portanti e di sistemi di riscaldamento ad aria calda. A Linderhof le cascate esterne e interne alla grotta di Venere  sono accomunate dal complessissimo impianto idraulico, così come le fontane. Inoltre veniva fatto uso dell’elettricità nell’illuminazione delle sale sotterranee e delle slitte con cui faceva le sue escursioni notturne. Inoltre Ludwig praticava personalmente la fotografia.
Molto era improntato al suo desiderio di spettacolarizzare tutto, ma non può essere un caso che nelle sue creazioni vi siano sempre le soluzioni tecniche più innovative e che egli stesso si fece promotore in Baviera di cultura e scienza nella fondazione dell’Accademia di arti applicate e nell’Istituto di Tecnologia (Politecnico).
interno del teatro di Bayreuth

Intanto il 22 maggio 1872 era stata posta la prima pietra del Teatro di Bayreuth, destinato ad ospitare esclusivamente le rappresentazioni delle opere wagneriane. Ludwig avrebbe voluto costruire per Wagner un grandioso teatro a Monaco che si affacciasse sul fiume Isar, a metà strada tra il Parlamento e l’attuale Friedensengel, ma il Consiglio dei Ministri lo impedì e anni dopo vi trovò posto una statua di Ludwig II.

A partire dal 1877 si fece evidente il cattivo stato delle casse statali, a causa delle forti spese sostenute da Ludwig per le sue costruzioni.
L’ultimo castello sognato dal sovrano avrebbe dovuto essere la rocca di Falkenstein, ma la sua prematura morte lo impedì. 
Nel gennaio del 1886 venne presentato il progetto, ma l’8 giugno i dottori von Gudden, Hagen, Hubrich e Grashey firmarono una perizia, dichiarando il re malato di mente. La perizia era sicuramente avvalorata dalla malattia mentale che aveva colpito anche il fratello di Ludwig, Otto, ma i medici non visitarono mai personalmente il sovrano e, per stilare la perizia, si basarono sulle testimonianze di altri nobili e servitori di palazzo. La reggenza fu affidata allo zio di Ludwig, il principe Liutpold.
Ludwig fu rinchiuso nel castello di Berg, sul lago di Starnberg, con le sbarre alle finestre e guardie alle porte.
Nel pomeriggio del 13 chiese di fare una passeggiata e, visto il suo stato di tranquillità, il medico glielo accordò, accompagnandolo senza alcun seguito o scorta.
Verso sera, dato che non erano ancora rientrati, fu organizzata una spedizione.
I corpi del sovrano e del suo  medico furono ritrovati poco lontano dalla riva verso le 23.
Le ipotesi su questo tragico evento furono molte, ma nessuna chiarì il mistero. Una delle frasi attribuite a Ludwig è: <<Sono un enigma e voglio rimanere un enigma per sempre.>>

I funerali di stato si svolsero il 19 giugno con la più grande partecipazione di folla che la Baviera avesse mai visto. Intorno alla bara fiori a non finire e fra le dita della mano destra di Ludwig un bouquet di gelsomini, dono di Sissi.

La ricetta: Maccheroni ai funghi e speck alla birra.

Una ricettina veloce veloce, neanche tanto bavarese, se non fosse per la birra, ma che mi è sembrata adatta al clima incerto e freschino di questi giorni…sembra ottobre…

Gli ingredienti sono funghi coltivati (200 g), qualche fetta di speck (4fette), prezzemolo e mezzo bicchiere di birra.

Ho pulito e affettato i funghi coltivati, e li ho messi a rosolare con uno spicchio d’aglio.
Intanto ho messo a bollire l’acqua per la pasta.
Una volta che i funghi cominciavano ad ammorbidirsi ho aggiunto la birra e ho lasciato finire di cuocere, per ultimo ho aggiunto il prezzemolo tritato.
Una volta cotta la pasta l’ho passata per un minuto in padella con i funghi aggiungendo anche lo speck tagliato finemente.

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Perché non si deve seminar zizzania…e il pane veloce da preparare in casa

Maestro dei Jeans – Bambino con tozzo di pane – XVIIsec.
Parliamo di dati raccolti in Piemonte alla fine del ‘700, ma per quanto riguarda i secoli precedenti le condizioni non dovevano essere molto diverse.
Il consumo giornaliero di pane si attestava mediamente sui 500 g pro capite, considerando chi poteva permetterselo, ma poteva raggiungere e superare il chilogrammo a testa.
Il pane, successivamente surclassato dalla pasta, era la base dell’alimentazione e, soprattutto in città, dove la gente non poteva direttamente coltivare un orto, rappresentava la quasi totalità delle derrate alimentari per la popolazione.
Non bisogna però pensare ad un pane simile a quello che conosciamo oggi. Raramente si trattava di pane di frumento, il cosiddetto pane bianco, cibo delle classi abbienti.
Ai poveri del Sud Italia andava meglio, perché i pani popolari erano prodotti con crusca di frumento.
Invece, spostandoci verso nord, per far volume nel macinato venivano aggiunti ghiande, castagne, tutta una serie di cereali meno pregiati e una quantità incredibile di graminacee che oggi sono semisconosciute e non più coltivate neppure per l’alimentazione del bestiame. Si fa l’esempio del miglio o della saggina, in Piemonte chiamata melega, da non confondere con la melia, la farina di mais).
Diffusissima anche la farina di segale, oggi utilizzata per produrre pagnottelle nere, pregiate e più costose del pane comune, che vanno di gran moda sulle tavole colte. Un tempo però il pane nero di segale era tutt’altro che ricercato e decisamente poco appetibile perché più compatto e pesante.
Alcune volte la segale non era affatto sana e portava in sé un rischio.
Era il caso della segale cornuta, dove la spiga veniva attaccata da un fungo molto tossico, la Claviceps Purpurea, contenente dell’acido lisergico (la base dell’LSD!!) che provocava forti allucinazioni, ma anche convulsioni simili all’epilessia e cancrena alle estremità, fino alla mummificazione degli arti. In alcune zone la malattia è indicata come fuoco di Sant’Antonio e assimilata a varie forme di herpes, ma per capirne la gravità basti pensare che a Salem, durante il periodo in cui scoppiò la grande caccia alle streghe e si verificarono numerosissimi casi di allucinazioni e visioni sataniche è dimostrato un enorme consumo di segale molto probabilmente infestata. Si tratta di un vero e proprio evento di storia popolare.
I contadini del Nord Europa, dove si consumava più pane di segale, ammalatisi di questo male si muovevano verso i santuari di Sant’Antonio in Italia per chiedere la grazia ed essere guariti dalla malattia; man mano che si spostavano verso sud cambiavano alimentazione, abbandonando il pane di sola segale infestata e passando a pani con più alta percentuale di frumento, in questo modo i sintomi si attutivano e loro credevano di essere stati miracolati.

Sebbene assai più circoscritto, un fenomeno simile si verificò in Piemonte con il loglio. Si dice “separare il grano dal loglio” intendendo “separare le parti di qualità da quelle dannose”.
Non tutto il loglio è dannoso; si tratta di una pianta erbacea con piccole spighette disposte a formare un’infiorescenza piatta lunga dai 30 ai 50 cm. Comunemente si tratta di una pianta foraggera, spesso impiegata in prati misti per aumentare la produzione di farina, ma anche qui il rischio è a portata di mano.
Un tipo particolare di loglio, il Lolium Temulentum, è anche detto Loglio Ubriacante. Comunemente conosciuto come zizzania, provocava intossicazioni anche di grave entità con vere e proprie alterazioni dello stato di coscienza. 

Il Loglio (a sx) e la Zizzania (a dx) – immagini da Wikimedia Commons

Come nella segale cornuta anche nella zizzania l’intossicazione è dovuta all’infestazione delle spighe da parte di funghi, sempre produttori di alcaloidi tossici, ma un po’ meno della Claviceps Purpurea, che producevano piuttosto effetti simili a quelli dell’alcool.
E’ noto il detto “seminar zizzania” con cui si intende mettere discordia, creare con malizia e cattiveria situazioni di conflitto all’interno di un gruppo.

Da uno dei libri più antichi del mondo si può evincere la parabola della zizzania. 
Un uomo seminò del seme buono nel suo campo ma un nemico di notte  vi sparse la zizzania. I servi ne accorsero solo alla fioritura, poiché la zizzania ha fiori rossi. Ma era difficile a quel punto togliere l’erba cattiva senza rischiare di sradicare il grano. Il padrone allora suggerì ai servi di farlo solo dopo il raccolto, cogliendo prima la zizzania e legandola in fasci per bruciarla, poi il grano da riporre nel suo granaio. Un chiaro riferimento al giorno del giudizio, dove i cattivi saranno separati dai buoni.

Lasciamo ora perdere le erbe cattive e passiamo alla ricetta di oggi:

Pane velocissimo in due ore
Il profumo del pane che si sprigiona dal forno di casa è per me un vero miracolo… tanto più se la ricetta è velocissima e facile, e non impegna più di dieci minuti.
Otterrete delle pagnotte con una crosta croccantina e un po’ umide all’interno, con dei bei buchi di lievitazione grandi grandi.
La ricetta originale l’ho trovata qui, ma a seconda di ciò che volete aggiungere al vostro pane potete modificarla leggermente. Per ora ho fatto del pane bianco con semi di sesamo e con semi di papavero, del pane al finocchio, con i semini nell’impasto e del pane ai cinque cereali.
Per le farine integrali bisogna mischiare la farina con quella bianca ed aggiungere un po’ più di acqua.
Io, rispetto alle dosi originali proposte da Cookaround, ho sempre fatto metà impasto, sufficiente per 2 pagnottelle medie oppure un pagnottone più grande oppure 8 paninetti:

250 g di farina “0” (oppure 150 g di farina ai 5 cereali e 100 g di farina bianca)
185 g acqua (190 g con farine integrali)
1/3 di panetto di lievito
½ cucchiaino di miele
1 cucchiaino di sale

Ho sciolto il lievito nell’acqua tiepida insieme al miele.
Ho messo la farina in uno scodellone largo e ho cominciato ad aggiungere l’acqua e lievito, mescolando velocemente con una forchetta.
Si forma una pastella morbida, quasi fluida e poco lavorata.
Per ultimo ho aggiunto il sale e, se volete, potete aggiungere qualche seme nell’impasto (o le olive, o le noci, o quel che vi pare).
Ho coperto con pellicola trasparente e ho lasciato lievitare al caldo per 2 ore.
Trascorso questo tempo,  ho fatto scaldare il forno a 230° (ma dipende da quale forno avete: il mio è elettrico e ventilato, ma piccolo, quindi tende a surriscaldare).
Ho fatto slittare la pasta nella teglia coperta da un foglio di carta forno; è importante che il lato superiore dell’impasto resti rivolto verso l’alto, perchè si facilita la crescita in forno.
Se volete potete spennellare il pane con olio. Io ho aggiunto solo dei semini in superficie.

Lasciar cuocere per 30 minuti, e poi far raffreddare gradualmente su una gratella.

Pane bianco con semi di sesamo e di papavero
i grandi alveoli di lievitazione
Pane ai 5 cereali
Più compatto ma anche più profumato

Aggiornamento del 8 giugno 2001: pane alle olive.

Aggiornamento del 11 giugno: panini al papavero, semini nell’impasto.

Aggiornamento del 14 giugno: panini alle cipolle rosse di Tropea. (aggiunte a pezzettini nell’impasto prima della lievitazione.
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Machiavelli e la Finocchiona

Questa è l’immagine più conosciuta di Niccolò Machiavelli, ma il ritratto dipinto da Santi di Tito riproduce davvero le sembianze dello scrittore e politico fiorentino?
Santi di Tito, artista fiorentino, nacque a Borgo San Sepolcro nel 1536, quando Machiavelli era già morto da 9 anni.
Probabilmente Santi di Tito si ispirò al busto conservato a Palazzo Vecchio, in quello che doveva essere l’ufficio dello statista, probabilmente a sua volta modellato sulla maschera mortuaria.
Ebbene, degli altri dipinti che ritraggono Machiavelli, anche in età più avanzata, nessuno sembra penetrare come questo la natura misteriosa del politico e letterato che incarnò l’uomo rinascimentale per antonomasia, le labbra strette in un enigmatico sorriso, lo sguardo intelligente che cerca l’osservatore senza reticenza, enfatizzato dall’ampia fronte.
Si narra che Niccolò Machiavelli fosse anche un buongustaio e non si facesse mai mancare a tavola qualche fetta di finocchiona e che poi intrattenesse i suoi convitati con narrazioni sull’origine e gli scopi di questo particolare salume.
La finocchiona nasce nella Firenze medievale; la tradizione vuole che fosse preparata con gli scarti di altri salumi, rifilature del prosciutto, guanciale e altro grasso di maiale, poi fortemente aromatizzati con sale, pepe, aglio, vino e naturalmente semi di finocchio che le conferiscono il caratteristico aroma e che si dice venissero utilizzati in origine per mascherare l’odore particolarmente forte.
Un detto dei norcini del Chianti fa riferimento alla credenza che questo salume mascherasse gli altri sapori in abbinamento; pare infatti che il termine infinocchiare derivi proprio dalla finocchiona che i contadini facevano assaggiare a coloro che andavano ad acquistare vino sfuso. Il seme di finocchio, dall’aroma particolarmente forte, anestetizzava le papille gustative, facendo passare per buono anche un vino mediocre.
 La finocchiona viene tuttora preparata e insaccata in budello naturale e fatta maturare per circa una settimana in ambiente riscaldato, aerato più volte al giorno. Dopo questo periodo necessita di una stagionatura di almeno cinque mesi in un luogo fresco prima di venir consumata.
Particolarmente rinomata è quella della zona del Chianti, parte senese, e delle comunità montane di Rufina e Pontassieve.
Esiste anche una variante dall’impasto più magro, meno compatto e dalla più breve stagionatura, chiamato sbriciolona, ma si tratta di un prodotto di impronta decisamente più industriale.
Di difficile abbinamento per il suo gusto forte, tradizionalmente si accompagna ad un Chianti dei Colli Fiorentini giovane “governato all’uso chiantigiano”, ovvero con rifermentazione per aggiunta di mosto d’uva appassita.
[Fonti:
Antonella Imbesi, Il meglio dei salumi italiani, in Sapori e piaceri, anno 8, pp. 84-93.
http://www.taccuinistorici.it/ita/news/medioevale/dsalumi—carni/FINOCCHIONA-toscana.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Niccol%C3%B2_Machiavelli
http://www.toscanaitalia.it/cosa-vedere/cucina-tipica-toscana/prodotti-tipici-toscani.html]
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25 maggio – Fish & Chips Day (ma il mio è homemade!!!)

Oggi, 25 maggio, in Irlanda si festeggia il Fish&Chips Day.
Si tratta di un’iniziativa nata per far conoscere le origini di questa preparazione che sembra affondare le radici nella cucina anglosassone delle coste e che invece vanta una discendenza tutta italiana. Infatti nel 1880 si formò la prima comunità di immigrati italiani in Irlanda; provenivano da Val di Comino, provincia di Frosinone, ed introdussero la frittura di pesce in pastella, vendendola poi agli angoli delle strade avvolta in cartocci insieme alle patate fritte.
Non solo pizza…è un sollievo, anche se ricordiamo che curiosamente anche la pizza nasce come cibo da mangiare in strada, senza tanti complimenti…il cibo prêt à porter è di sicuro successo!
Non mi stupisce che gli italiani siano arrivati anche in Irlanda a portare qualcosa della nostra tradizione culinaria… mi stupisce che in quegli anni andassero proprio in Irlanda dove non si navigava nell’oro, tutt’altro… ma tant’è!!!
il nostro itinerario
Questa ricorrenza è anche l’occasione per dedicare un post a questa bellissima terra e per ricordare il mio viaggio dell’anno scorso, viaggio di scoperte e di emozioni continue in un luogo che non può non restare nel cuore.
Anche oggi mi porto dietro il chiasso di Dublino e la sua poesia, il vento di Galway, i colori del Connemara, il silenzio di Inis Mor, la musica di Doolin, lo spleen delle Cliffs of Moher, i contrasti di Limerick, i profumi di Cork, i colori di Kinsale, l’impronta della storia a Cashel e Cahir, l’aspettativa sportiva di Kilkenny, e solo chi ha visitato quei luoghi mi può capire da una sola parola.
Pubblico qualcuna delle mie foto dell’agosto scorso… con un velo di malinconia…e poi largo alla ricetta del Fish&Chips…a modo mio!
I mille volti di Dublino
Galway, città sul mare e mare in città
uno sguardo sul Connemara
Kilemore Abbey, al centro del Connemara
Inis Mor, la più grande delle Aran Island
silenzio alle Aran
uno sguardo sull’Atlantico dal Dún Aengus
il Clare fatato
Vertigini alle Cliffs oh Moher
Breve sosta a Limerick
Cork, ventosa e affascinante
Le maree e le piccole case colorate di Kinsale

I laghi di Killarney, nel Kerry
Muckross House
In punta di piedi dentro Cashel
Uno sguardo su Cahir dalle mura del castello
Kilkenny, piena di storia
La ricetta: Fish & Chips Homemade

Quei signori di Val di Comino non avevano la friggitrice, né le patate surgelate, né la maionese in bustina… Quindi presumo avessero un bel da fare a preparare fish & chips tutto il sacrosanto giorno.
Anche con le facilitazioni elettriche odierne, toglietevi dalla testa di risolvere il tutto in 10 minuti!!!

Io ho suddiviso il lavoro in quattro (4!!!) fasi.

1. La salsa
1 uovo
125 ml di olio di semi
il succo di mezzo limone
sale
1 vasetto di yogurt bianco intero
1 cucchiaino di timo
pepe

Si tratta di una maionese fatta a mano corretta con lo yogurt: nell’uovo intero ho messo un pizzichino di sale, ho mescolato per un minuto poi ho cominciato ad aggiungere l’olio di semi di mais a goccia a goccia sempre mescolando. Poi con la velocità minima del frullatore ho continuato a montare, aggiungendo l’olio a filo.
Quando la maionese è diventata solida ho aggiunto il succo filtrato di mezzo limone e ho aggiustato di sale. Poi ho messo in frigo.
Prima di portare in tavola ho mischiato 4 cucchiai di maionese con 2 di yogurt intero, un cucchiaino di timo e una spolverata di pepe.

2. Le patate (quantità a scelta…ma più sono e meglio è!!!)

Ho scelto il tipo a buccia rossa, più adatto ad esser fritto. Le ho lavate e sbucciate, tagliate a listarelle lunghe e messe in frigo, mentre preparavo la salsa.
Le ho riprese e ho fatto il primo passaggio in olio bollente di semi di arachidi, devono essere tolte che sono ancora bianche. Si lasciano intiepidire e intanto si passa al pesce.
Poi si riprendono e si fa una seconda frittura, che darà croccantezza, facendole dorare un po’ e salando alla fine.

3. La pastella
100g di farina
100 ml di birra
1 uovo
sale

Ho mischiato la farina con il tuorlo d’uovo, aggiungendo pian piano la birra. Ho lasciato riposare per dieci minuti, poi ho aggiunto l’albume montato a neve con un pizzico di sale.

4. Il pesce
per 2 persone ho usato 250 g di merluzzo decongelato
Ho asciugato i filetti e li ho passati nella farina, poi li ho bagnati abbondantemente nella pastella e li ho messi a friggere, mentre le patate completavano la seconda friggitura in un’altra padella.

Ho composto il piatto e…   goile maith ar chor ar bith!!!

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Riso dolce al latte con riduzione al Porto

Il riso dolce al latte, o crema di riso, è un dessert facile facile e delicato. 
Alcuni lo chiamano riso dolce alla greca, servito con una spolverata di cannella, o rifinendolo con lo yogurt greco.
Io ho preparato la crema di riso, l’ho messa in piccoli vasetti di vetro e ricoperta da un sottile strato di riduzione al Porto.
Se li si lascia un po’ in frigo, la riduzione scivola pian piano verso il basso e insaporisce tutto il riso.
Per 5 vasetti ho usato questi ingredienti:
Crema di riso:
100 g riso
1/2 l latte intero
1 stecca di vaniglia
4 cucchiai zucchero
Ho messo il riso in una casseruola, coperto d’acqua e fatto raggiungere il bollore.
Ho lasciato bollire il riso per 20 minuti fino a che non aveva assorbito tutta l’acqua.
In una casseruola ho messo il latte con la stecca di vaniglia e ho scaldato fino a farlo increspare.
Ho aggiunto il riso cotto in precedenza e ho fatto riprendere il bollore.
Poi ho abbassato il fuoco, zuccherato e fatto cuocere fino al completo assorbimento del latte, mescolando spesso. Ci vorrà un po’… O__o’
Infine ho diviso la crema in 5 tazzine di vetro e lasciato intiepidire.
Riduzione al Porto:
1 bicchierino di Porto
2 cucchiai di zucchero
1 goccino d’acqua
Si fanno scaldare gli ingredienti sul fuoco in un padellino antiaderente  fino a che lo sciroppo non rapprende un po’. Poi si lascia intiepidire leggermente e si versa nei vasetti.
La crema si può servire tiepida o fredda di frigo a piacere.

ai fornelli, ricette originali, storia & cultura

Excursus semiserio su ceci e porri … e pappardelle alle vongole su passatina di ceci

B.Thorvaldsen, busto di Cicerone
Questo signore è Marco Tullio Cicerone, compagno immancabile dei nostri incubi da liceali.
Il suo nome si dice derivi da cicer, il cece, perché pare che un suo antenato avesse un’escrescenza a forma di cece vicino al naso. Insomma aveva un qualcosa che la nostra lingua “neolatina” chiama comunemente porro… trovo che sia curioso che noi definiamo volgarmente con il nome di un vegetale ciò che i latini definivano con il nome di un altro vegetale commestibile. Eppure, se vogliamo, il cosiddetto porro assomiglia molto di più a un cece che a un porro… e il porro (il vegetale intendo) non ha la sostanza del suo amico cecio.
Si dice “non valere una buccia di porro”, e la locuzione “piantar porri” significa gingillarsi…un po’ quello che viene popolarmente indicato con pettinare le bambole o far ballare la scimmia; peggio ancora “piantare un porro a qualcuno”: significa ingannarlo!!!
la strega di Biancaneve con il suo indimenticabile porro

Per alcune culture il porro (quello somigliante a un cece) che spunta sulle mani e sul viso è indice di malocchio e i modi per eliminarlo sono svariati ma legati a rituali che comportano l’utilizzo di altri legumi e cereali – e non di porri o di altre forme di cipolla – curiosamente.

Alcune tradizioni popolari italiane prescrivono ad esempio di passare sopra il porro dei fagioli, che poi vengono gettati in un posto dove la persona con i porri non deve passare più. Si crede che come marciscono i fagioli, così  il porro si secca e cade, per il concetto omeopatico del similia similibus curantur.
Nella provincia di Avellino viene ancora praticato un rito che utilizza i nodini dei fili di paglia (i curmi in dialetto) per eliminare gli indesiderati porri (carnosi!!).
Si tocca col nodo il porro, e si pronunciano le seguenti parole:
nfracetate curmi, come nfracetano gli puorri, ‘nfracetate puorri, come nfracetano gli curmi
 (Marcite, curmi, come marciscono i porri, marcite, porri, come marciscono i curmi)
Come avveniva con i fagioli il nodino di paglia deve poi essere gettato in un pozzo a marcire e, come marcisce la paglia, così si seccherà il porro.

Ma parliamo della pianta, che è meglio!

L’imperatore romano Nerone, che non brillava per simpatia, fu soprannominato “il porrofago” perché era ghiotto di porri: li utilizzava in gran quantità per schiarirsi la voce.
Il porro in cucina dona sapore ad ogni brodo, ma di suo non è molto saporito… possiamo farci un risotto dolciastro o renderlo compagno di qualche altro gusto forte. Bisogna però riconoscergli 5000 anni di storia – da alcuni studiosi è ipotizzata la sua origine celtica – e la virtù di aver aiutato, pur essendo di poca sostanza,  a superare più di una carestia durante il Medioevo.
cece nel suo baccello

Il cece è altrettanto antico, ma di tutt’altra pasta. Vanta un’origine irachena risalente all’età del bronzo, ed è conosciuto dagli Egizi e nell’Antica Grecia e nominato anche nella più antica opera di letteratura della storia, la Bibbia. Utilizzato in tutti i paesi del mediterraneo e rinomato per la sua carica proteica, il latino cicer deriva dal greco kikis che significa forza e l’appellativo arietinum allude all’ariete, perché con un po’ di fantasia, si può scorgere il profilo di un ariete nella forma del cece.

con un po’ di fantasia si può riconoscere nel cece la sagoma di una testa di ariete
Senza fantasia alcuna, ma con i dati alla mano si può dire che si tratta del terzo legume più coltivato al mondo, dopo soia e fagiolo. In Italia è utilizzato soprattutto al sud come condimento per la pasta e in Liguria, dove i piatti più peculiari sono farinata e panissa (la ligure, da non confondere con quella vercellese che è tutta un’altra cosa e non c’entra nulla con i ceci.) Sempre originario della Liguria è lo zimino di ceci, una specie di minestra di verdura. Il nome, solo quello, arriva via mare fin nel Sassarese, ma gli ingredienti sono completamente diversi.
Dalla cucina mediorientale sono arrivati anche da noi il falafel e l’hummus ebraico e libanese; il gusto muta, a causa delle spezie, ma la corposità rimane quella.

È raro che il cece non piaccia, perché il gusto è morbido e sapido; io trovo che sia eccezionale abbinato al pesce, cibo galenicamente freddo che ne tempera il calore.
Ricordando il classico partenopeo di pasta fagioli e cozze, io, in un impeto di creatività, ho abbinato i ceci alle vongole e il risultato è stato straordinario.
La ricetta: pappardelle alle vongole su passatina di ceci (dosi da 2 a 4 persone)
400 g di ceci lessati
1 pezzo di sedano, carota, cipolla (o porro!) per fare un soffritto
peperoncino secco
1 bicchiere di vino bianco
70 g di vongole conservate in acqua (se volete prenderle fresche meglio ancora!!)
1 grosso spicchio d’aglio
1 pomodoro maturo
olio evo
sale
Preparazione:
In un pentolino ho messo 1 spicchio d’aglio, un pezzo di carota, un pezzo di sedano, 1 pezzo di cipolla, 1 peperoncino essiccato in 2 cucchiai d’olio evo e ho fatto soffriggere leggermente. Ho aggiunto i ceci, li ho rosolati e ho sfumato con mezzo bicchiere di vino bianco e poi ho lasciato insaporire aggiungendo la loro acqua di bollitura.
Ho aggiustato di sale.
Nel frattempo in una padella ho rosolato un grosso spicchio d’aglio e poi ho aggiunto le vongole, le ho fatte insaporire aggiungendo mezzo bicchiere di vino bianco e un pomodoro tagliato a dadini. Regolato di sale e aggiunto acqua per far proseguire la cottura.
Intanto ho messo a bollire l’acqua della pasta.
Mentre la pasta cuoceva ho liberato i ceci di tutte le verdure, ne ho preso metà e messo insieme alle vongole a girare sul fuoco ancora per qualche minuto, l’altra metà l’ho frullata fino a farne una crema vellutata a cui ho aggiunto un bicchiere d’acqua calda per mantenerla fluida.
Una volta che la pasta era cotta, l’ho fatta saltare velocemente in padella con vongole e ceci, senza farla asciugare. Poi ho messo nei piatti una mestolata di passata di ceci calda e sopra la pasta con il condimento di ceci e vongole e completato con una spolveratina leggera di pepe.

Abbinamento: Erbaluce di Caluso 2009, Azienda Agricola Orsolari.

ai fornelli, ricette originali

Pannacotta Tricolore

In tema dei 150 anni dell’Unità d’Italia, festeggiamo anche a tavola…


La ricetta: Pannacotta Tricolore – Tristep

Step.1 – Gelatina di fragole
250 g di fragole
3 fogli di gelatina
5 cucchiai di zucchero
2 cucchiai di Porto
Ho pulito le fragole liberandole del picciolo, le ho tagliate a pezzetti e le ho messe in un pentolino con lo zucchero e un cucchiaio d’acqua.
Le ho fatte scaldare per 4-5 minuti, poi intiempidire; infine le ho frullate e ho setacciato la polpa.
Ho fatto ammollare in acqua fredda la gelatina per 10 minuti, poi l’ho messa per pochi istanti sul fuoco facendola sciogliere nei due cucchiai di porto.
Ho aggiunto la gelatina alla purea di fragole e ho mescolato bene.
Ho riempito il fondo di sei bicchieri.
Dopo averli fatti intiepidire li ho messi in frigo, fino a solidificazione, almeno 2 ore.
Step. 2 – Pannacotta
Ho usato un preparato per pannacotta, aggiungendo 200 ml di panna fresca e 300 ml di latte.
Una volta intiepidita l’ho suddivisa sulla gelatina di fragole precedentemente solidificata.
Ho rimesso il tutto in frigo lasciandolo tutta la notte.
Step. 3 – Gelatina di basilico
Circa 30 grosse foglie di basilico
Ghiaccio
Zucchero (a piacere, basta assaggiare)
Un filo d’olio
Qualche granelllo di sale grosso
½ foglio di gelatina
Ho messo nel bicchiere del frullatore le foglie di basilico spezzettate, con un filo d’olio e qualche cubetto di ghiaccio pestato. Ho frullato ad intermittenza, senza far scaldare la salsa, aggiungendo lo zucchero e qualche granello di sale per bilanciare.
Intanto ho ammollato ½ foglio di gelatina in acqua fredda, poi l’ho strizzato e fatto sciogliere in un cucchiaio d’acqua calda ed infine aggiunto alla salsa di basilico preparata in precedenza.
Anche questa volta ho suddiviso la salsa in uno strato sottile nei sei bicchieri, dove c’era già la gelatina di fragole e la pannacotta solidificata.
Ho lasciato rassodare in frigo anche questa volta, almeno due ore.
Ho servito con una fogliolina di basilico come guarnizione.
(Volendo si può fare il terzo strato con la salsa al basilico, senza farla gelificare, ma così l’aspetto è più scenografico, e mentre si mangia, non si perde d’occhio la bandiera, fino all’ultima cucchiaiata!!!)

ai fornelli, storia & cultura

Gelatine alla carota ripiene di gorgonzola

«Questo formaggio è magico, tra un paio d’anni diventerò l’uomo più conosciuto al mondo!» così disse Piermarco Bergamo, lo scopritore del gorgonzola, intorno alla fine del X secolo, in una taverna nei pressi di Milano.
Si sbagliava: il formaggio da lui inventato divenne il più conosciuto al mondo, mentre di lui si perse ogni traccia.

La ricetta: Gelatine alla carota ripiene di gorgonzola

La ricetta l’ho presa qui, e l’ho leggermente modificata, ma la sostanza rimane quella! Nel ripieno ho messo del gorgonzola a pasta semidura, il cui sapore contrasta piacevolmente con la dolcezza della gelatina di carote; infine ho guarnito il cubetto con una spolverata di pepe nero.

Per 9 cubetti ho utilizzato:
350 g di carote
100 g  di gorgonzola

4 fogli di colla di pesce
sale
2 noci
pepe nero
crema di aceto balsamico (o aceto balsamico!)

Preparazione:
Ho pelato e cotto le carote a pezzetti, poi le ho frullate, con un po’ della loro acqua, fino ad ottenere una crema.
Ho aggiustato di sale.
Poi ho suddiviso il composto in due parti.
Ho ammorbidito 2 fogli di gelatina in un po’ d’acqua fredda, per 10 minuti; poi l’ho fatta sciogliere velocemente sul fuoco con un cucchiaio d’acqua e l’ho mischiata ad una metà di crema di carote.
Ho messo il composto in un recipiente quadrato, precedentemente rivestito di carta da forno bagnata e strizzata, e messo in frigo per almeno due ore.
Poi ho tagliato il gorgonzola in 9 cubetti, l’ho disposto regolarmente sopra la gelatina di carote, che si è nel frattempo rappresa, ed infine ho ricoperto il tutto con la seconda parte di crema di carote, amalgamata alla gelatina restante (2 fogli) con lo stesso procedimento di prima.
Di nuovo in frigo, questa volta fino a pochi minuti prima di servire.
Tagliare il panetto ottenuto facendo attenzione a non beccare il ripieno, e spolverare leggermente ogni cubetto con pepe nero.
Ho decorato il piatto con un giro di crema di aceto balsamico e delle noci sbriciolate.

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David Teniers il Giovane – Interno di Cucina (1644)

David Teniers il Giovane – Interno di Cucina – 1644 – immagine tratta da Wikimedia
L’autore di questo dipinto è David Teniers detto Il Giovane, nato ad Anversa il 15 dicembre 1610 in una famiglia di artisti.
Il padre, David il Vecchio, aveva altri tre figli pittori; all’epoca chi mandava un figlio come apprendista spesso doveva pagare l’artista che lo ospitava e gli insegnava il mestiere, quindi non è così strano che tutti e quattro i figli di David il Vecchio abbiano seguito le orme del padre nella pittura, ma David fu quello maggiormente dotato artisticamente.
Dal padre apprese lo stile di moda all’epoca ispirato all’arte di Adam Elsheimer, pittore paesaggista più in voga del periodo. Al tempo stesso David conobbe la pittura di Pieter Paul Rubens, all’apice del suo successo.
Ricercando l’innovazione si avvicinò alla pittura di Adriaen Brouwer, che rappresentava scene di vita quotidiana, e divenne anch’egli pittore di genere, ritraendo scene rustiche casalinghe o di taverna, feste paesane e laboratori, solo secondariamente interessandosi alle scene sacre. Dell’opera di David colpisce la caratterizzazione dei personaggi e la vena umoristica o addirittura grottesca nel rappresentarli.
Nel 1632 fu ammesso alla potente Gilda di San Luca.
Il suo periodo più produttivo va dal 1633 al 1640, periodo in cui, però, non si distinse molto dallo stile del padre.
Nel 1637 sposò Anna, figlia di Jan Bruegel e nipote di Pieter Bruegel il Vecchio, unendosi ad un’altra famiglia di artisti ed assimilando in alcuni suoi quadri l’impronta di Jan Bruegel.
I critici sostengono che le sue creazioni più originali e significative siano più tarde, come ad esempio Il figliol Prodigo e i Cinque Sensi, risalenti all’incirca al 1645. Aveva intanto sviluppato uno stile personale, che collegava toni chiari a colori più caldi. I temi da lui prediletti si diversificarono, ed egli realizzò, oltre alle scene rustiche, utilizzate anche come base per la creazione di arazzi, quadri ove appaiono maghi, streghe, medici e alchimisti. I personaggi sono talvolta sostituiti da scimmie o da gatti in costume.
Nel 1651, trasferitosi a Bruxelles, venne nominato pittore di corte e direttore delle collezioni dell’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria, allora governatore dei Paesi Bassi spagnoli. La raccolta che riuscì a mettere insieme si trasformò negli anni nel nucleo principale del Kunsthistorisches Museum, il principale museo di Vienna.
Nella seconda parte della sua carriera David perse un po’ di genialità ed inventiva, e pur essendo tecnicamente ineccepibile diventò meno originale e sfociò nel manierismo, ma fu considerato, ancora in vita, uno  dei più grandi pittori del suo tempo.
Poco dopo la morte della prima moglie, nel 1656, si era risposato con Isabella de Fren, figlia del segretario del consiglio di Brabante e fece tutto il possibile per dimostrare il suo diritto ad un titolo di cavaliere, scrivendo al re Filippo IV di Spagna e ricordandogli che il titolo di cavaliere era stato concesso anche a Van Dyck e Rubens. Il re si mostrò disposto ad accogliere la richiesta ma a condizione che Teniers gli vendesse tutti i suoi quadri. A quanto si sa la condizione non fu rispettata forse perché era sua intenzione fondare un’accademia strettamente riservata a pittori e scultori.
David Teniers il Giovane morì a Bruxelles il 25 aprile 1690.
[fonti:
Il dipinto rappresenta una scena di vita quotidiana in una cucina del XVII secolo.
Il fulcro della composizione è la signora con la gonna rossa, forse la padrona di casa, che siede in cucina, da un lato perché  è il luogo più caldo della casa, visto che il grande camino era sempre acceso, e di notte il fuoco covava sotto la cenere, dall’altro perché doveva dirigere i servitori. La signora sta sbucciando un frutto, infatti una cesta di mele giace ai suoi piedi, per metterlo nel piatto che un bambino le porge.

Si può dedurre che in questa casa si stia preparando un banchetto, dalla portata trionfale posta sul tavolo, quasi sicuramente un pasticcio di carne di volailles, una portata che di certo non si cucinava per il pranzo quotidiano, vista la sua presentazione imponente, sopra un guscio di pane su cui è stato rimontato il collo e le ali del cigno.Sulla tavola si possono anche riconoscere alcune pagnotte, una forma di formaggio e la trasparenza di alcuni calici decorati.

In alto si  riconoscono le forme della selvaggina appesa ad un apposito sostegno per la frollatura. La carne delle bestie appena uccise non può essere mangiata subito, necessita di un periodo in cui si svolgono tutti i processi chimici che consentono di consumarla senza che sia un’immasticabile soletta. Se la carne bovina necessita fino a tre settimane di frollatura a temperatura controllata, per gli animali da cortile e la piccola selvaggina è sufficiente un periodo molto più breve che a quei tempi si svolgeva in casa. Le bestie venivano perciò appese a quell’aggeggio in attesa che fossero pronte per essere cucinate. 
Accanto alle carni già pronte è posto un recipiente per la marinatura.
Lo stesso trattamento era riservato ai  pesci. Ce ne sono alcuni che attendono la frollatura, mentre uno è già posto in una specie di padella, mentre un piccolo osservatore a quattro zampe controlla la situazione.
Al fondo della cucina alcuni servitori sono indaffarati a cucinare, mentre un terzo servitore sta allestendo grandi quantità di polli su uno spiedo che avrebbe poi girato direttamente sull’enorme camino della cucina, che era usato per arrostire ed anche per cuocere i cibi, sotto la cenere o in pignatte.
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