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Pumpkin-chocolate Bundt Cake, la torta con zucca e cioccolato

 
La scoperta dell’America portò in Europa la zucca di Halloween e numerose altre varietà, assieme ad altri ortaggi colorati e panciuti. Un’altra tipologia di zucca era però già conosciuta fin dall’antichità e coltivata in Oriente ed Europa: la lagenaria, detta anche zucca da vino, piccola e dalla particolare forma a pera o a fiaschetta. Pare che fosse originaria dello Zimbabwe e conosciuta anche dagli antichi egizi. Le piccole zucche venivano accuratamente svuotate della polpa che poi veniva mangiata, mentre il guscio serviva per creare fiaschette dove conservare e trasportare i liquidi; da qui deriva proprio l’espressione “zucca da vino”, ma anche “avere sale in zucca”, poichè i preziosi cristalli, tanto utili per la conservazione degli alimenti e paragonabili al denaro (il salario) venivano spesso conservati in una zucchetta svuotata ed essiccata.
Raffaello e Giulio Romano – Mercurio nella Loggia di Psiche
In ogni caso la moda della zucca nell’arte esplose un poco più tardi, dopo le
grandi scoperte, e in particolare nel XVI e XVII secolo, nelle nature
morte, anche se già nel 1517 Raffaello aveva immortalato la zucca nella Loggia di Psiche alla Farnesina,
sulla testa di Mercurio, al posto riservato, in altre occasioni, alla “cornucopia” e con il medesimo auspicio di abbondanza e fortuna al banchiere
senese Agostino Chigi, committente degli affreschi. I semi della zucca rappresentavano quello che per noi, ancora oggi, rappresentano le lenticchie o i chicchi del melograno a Capodanno: tanto denaro in arrivo. Un’altra
zucchetta fa capolino a destra tra le fronde con un evidente significato
un poco più scabroso… e da qui comprendiamo che a Raffaello e ai suoi
aiutanti piaceva scherzare e che con Agostino Chigi c’era, oltre al rapporto tra committente e artista, anche una goliardica amicizia.

Da “Les Grandes Heures d’Anne de Bretagne”
L’immagine più antica di una zucca resta comunque tra le pagine colorate
di un libro di preghiere: “Les Grandes Heures d’Anne de Bretagne”
illustrato da Jean Bourdichon tra il 1503 e il 1508; tra altri ortaggi,
insetti ed animaletti dell’orto, resi con un vivido realismo, gli
scargianti fiori di zucca gialli o bianchi e i frutti della pianta.
 
Dal ‘500 la zucca, e soprattutto l’appariscente zucca americana, che ben si presta ad essere rappresentata a colori sulla tela, appare sempre più frequentemente nei dipinti di mercato. In realtà il significato di queste pitture è quasi sempre allegorico, esula dalla scena quotidiana rappresentata ed occhieggia sempre più spesso alla sessualità.È

il caso del fiammingo Pieter Aetrsen e suo nipote Joachim Beuckelaer: le zucche presenti nei loro dipinti alludono ad una scena amorosa in secondo piano oppure alla fecondità del ventre femminile.

Pieter Aetrsen – La fruttivendola
 
Joachim Beuckelaer – Mercato
Le fruttivendole o pescivendole di Vincenzo Campi, pittore lombardo, alludono anch’esse alla sessualità. Le zucche sono solitamente tagliate, con i semi esposti, oppure nel caso della pescivendola, tra i tentacoli di un polpo, mentre altre scene nel dipinto richiamano in modo più o meno manifesto il significato sessuale, come il dito nell’orecchio o il gettare dei frutti nel grembo delle donne in secondo piano.

 
Vincenzo Campi – Fruttivendola

 

 
Vincenzo Campi – Pescivendola

In questa carrellata non poteva mancare l’Arcimboldo: nella raffigurazione di Vertumnus, alla zucca è assegnato il compito di rappresentare il torace, sede del cuore e di altri organi vitali.

Giuseppe Arcimboldi – Vertumnus

[fonti:
http://zuccanellorto.wordpress.com/category/storia-culturale/
http://www.stilearte.it/la-zucca-nellarte-simbolo-e-propiziatrice-di-prosperita-fecondita-e-ricchezza1/]

Questa torta è deliziosa, umida al punto giusto, con la freschezza della zucca e il profumo della cannella e la golosità del cioccolato. Sono partita dalla Pumpkin Bundt Cake di Serena e da lì ho fatto le mie modifiche.

 

La ricetta: Pumpkin & Chocolate Bundt Cake (torta con zucca e cioccolato)
2 uova
180 g di zucchero 
320 g di zucca (polpa pesata già cotta e pulita)
100g di burro
60 g di cioccolato fondente (per me al 64% di cacao)
260 g di farina (per me Cerealia Wellness)
40 g di latte
2/3 di bustina di lievito per dolci
1 cucchiaino di cannella in polvere
1 pizzico di sale
 
per decorare
zucchero a velo
acqua
scaglie di cioccolato fondente
 
Far cuocere la zucca, tagliata a spicchi, in forno a 180° finchè la polpa non è morbida, poi ricavarne 320 g e schiacciarla finemente con una forchetta.
Montare un uovo intero e un tuorlo con lo zucchero e un pizzico di sale. Tenere da parte il secondo albume.
Sciogliere il burro con il cioccolato sminuzzato e lasciar intiepidire.
Aggiungere all’uovo montato la zucca e poi il burro con il cioccolato, mescolando bene.
Setacciare insieme la farina con il lievito e la cannella e cominciare ad aggiungerla a cucchiaiate all’impasto, mescolando bene per non formare grumi. Alternare alla farina un po’ di latte per rendere l’impasto morbido, fino ad esaurimento di entrambi.
Scaldare il forno a 170° ventilato.
Montare a neve il secondo albume ed aggiungerlo all’impasto mescolando dal basso verso l’alto.
Imburrare ed infarinare uno stampo da bundt cake e mettervi l’impasto. Infornare per 45 minuti e fare la prova stecchino prima di sfornare.
Quando la torta è fredda, toglierla dallo stampo e decorarla con glassa di zucchero e scaglie di cioccolato fondente.

 

 
 
 
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Keke fa’i per la A di Apia, Samoa

Le banane non mi hanno mai fatto impazzire, né il gelato, né lo yogurt, aromatizzato a questo gusto, né da sole. Le mangio solo per il potassio che contengono. E poi è accaduto che nel giro di dieci giorni ho fatto ben due torte di banane.
La prima era una classica banana cake, alla maniera americana, e mi è piaciuta; la seconda è questa keke fa’i, torta di banane di Samoa, per l’Abbecedario Culinario Mondiale, ospitato per queste prime tre settimane da Marta del blog Mangiare è un po’ come viaggiare.
Mi è piaciuta ancora più della prima!
Soffice, soffice, veloce e perfetta. Ho solo sostituito una piccola parte di farina con della farina di cocco, per darle una consistenza più particolare.

La ricetta: Keke fa’i ricetta tratta da Samoa Food leggermente modificata.


(per uno stampo piccolo da 18 cm)

1/2 cup di farina 00
1/4 cup di farina di cocco
1/2 cucchiaino di lievito in polvere
1 pizzico di sale

65 g di burro morbido
1/4 cup + 1 cucchiaio di zucchero di canna
1 uovo
i semini di un pezzetto di bacca di vaniglia
1/2 cup di banana molto matura schiacciata
1/2 cucchiaino di bicarbonato di sodio
1/4 cup (scarsa) di latte

Imburrare e infarinare uno stampo a cerniera.
Scaldare il forno a 180°C.
Mescolare insieme farina, sale e lievito.
Lavorare il burro morbido assieme allo zucchero. Aggiungere l’uovo,  i semini di vaniglia e infine la banana.
Aggiungere questo composto agli ingredienti secchi preparati in precedenza.
Sciogliere il bicarbonato nel latte caldo e poi aggiungere il tutto all’impasto.
Infornare per 30 minuti e fare la prova stecchino per valutare la cottura, prima di sfornare.

Questa ricetta partecipa alla raccolta dell’Abbecedario Culinario Mondiale:

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Panipopo per la A di Apia, Samoa

L’Abbecedario Culinario è ripartito in versione Mondiale e anche quest’anno sono tra le ambasciatrici del progetto con immenso onore e con un pochino di vergogna, perchè lo scorso abbecedario (quello europeo) ho fatto molto meno di quello che avrei voluto che, ve lo devo dire, qui la costanza spesso vacilla!
Ma mi rimetto alla prova e il miglior modo per iniziare è quello di partire dalla A.
Mondo, arriviamo e la lettera A corrisponde ad Apia, la capitale di Samoa.

Ci troviamo in Oceania e dalla mappa potete comprendere quanto piccoline siano le due isole in questione. Occupano una superficie di poco meno di 3000 km quadrati, un decimo della superficie italiana.

 

Però sono 3000 km quadrati di paradiso terrestre. Il primo contatto con gli europei si ebbe sono all’inizio del XVIII secolo, ed erano contatti molto sporadici con viaggiatori e scopritori per mare, mentre i primi missionari giunti sulle isole per abitarvi stabilmente comparvero intorno al 1830.

Il clima ci fa invidia in questi primi giorni freschi, perchè le temperature non scendono, in inverno sotto i 20 gradi. In estate, in ogni caso, io preferisco rimanere ai climi europei, visto che a Samoa le temperature oscillano tra i 40 e i 48 gradi con quasi 8000 mm di pioggia durante la stagione dei monsoni.
Per il resto immaginate un paesaggio insolito e sorprendente,di origine vulcanica con una cima di 1858 m per il vulcano Mauga Silisili al centro dell’isola Savai’i.

Una curiosità: uno dei primi occidentali ad insediarsi stabilmente in Samoa fu Robert Louis Stevenson, con una produttività varia e smisurata in cui spiccano i romanzi “L’Isola del Tesoro”, “La Freccia Nera” e “Lo strano caso del Dr. Jekill e del Signor Hide”. Stevenson, da sempre di salute cagionevole, ed ispirato dai racconti esotici di Melville, accettò di trasferirsi nel sud del Pacifico con la famiglia per scrivere di quei luoghi. Toccò le Isole Marchesi, Tahiti e le Sandwich, Honolulu ed infine Upolu, a Samoa. Qui restò fino alla morte, nell’ammirazione della popolazione indigena che lo soprannominò Tusitala, narratore di storie.

Come prima ricetta di Samoa (ma cercherò di farne un’altra) vi propongo i panipopo, deliziosi panini “affogati” in uno sciroppo di latte di cocco, ingrediente onnipresente in quasi tutta la cucina samoana.
Il popo in questione è proprio il nostro cocco.
Purtroppo un po’ di peripezie hanno accompagnato la nascita di questi panipopo, prima grossolani errori miei, poi un tempo e una luce davvero poco adatta a fotografarli.
Alla fine eccoli qui, seppure un po’ sgranati, con alcuni suggerimenti rispetto alla ricetta tradizionale:
– ho impastato a mano; se impastate con una planetaria la quantità d’acqua va bene, altrimenti meglio ridurla leggermente;
– io ho usato zucchero di canna;
– anche se lo sciroppo di cocco vi sembra tanto, versatelo tutto e vedrete che i panipopo lo assorbiranno;
– usate una teglia che non sia a cerniera, altrimenti tutto lo sciroppo colerà via, invece di ammorbidire il fondo dei panipopo.

La ricetta: Panipopos ricetta tratta da Samoa Food

1 pacchettino di lievito di birra disidratato
2/3 di cup di acqua tiepida (fino a 1 cup, se impastate con la planetaria)
1/2 di cup di zucchero di canna grezzo
1/2 cucchiaino di sale
1 uovo (piccolo)
2 cucchiai di olio vegetale (per me arachidi)
circa 3 cup di farina tipo 0 (o un po’ di più, ma senza “asciugare” troppo l’impasto)

per la salsa di cocco:
200 ml di latte di cocco
200 ml di acqua

100 g di zucchero grezzo di canna
Sciogliere il lievito nell’acqua tiepida e aspettare 10 minuti che cominci a fare delle bollicine.
Da parte mescolare tutti gli ingredienti secchi: farina, sale e zucchero.
Aggiungere l’acqua e lievito e poi di seguito l’olio vegetale: formare un impasto aiutandosi con una forchetta. Aggiungere anche l’uovo sbattuto leggermente. Aggiungere ancora qualche cucchiaio di farina per far prendere corpo all’impasto che deve comunque restare molto morbido.

Far riposare per 10 minuti, poi coprire con pellicola e riporre in un posto caldo fino al raddoppio.
Sgonfiare l’impasto e poi procedere o formando delle palline, oppure, come ho fatto io, formare i panipopo come girelle: stenderlo in un rettangolo, aiutandosi con un po’ di farina, arrotolarlo su stesso e tagliare questo rotolo in 14 fette.

Mettere le fette di impasto in due teglie del diametro di 20-21 cm, coprire con pellicola e portare a raddoppio.
Preparare la salsa al cocco: diluire il latte di cocco con acqua e zucchero, facendo ben sciogliere quest’ultimo.
Quando i panipopo sono raddoppiati, scaldare il forno a 180° e, quando è caldo, cospargerli di salsa, abbondando. La salsa deve restare sul fondo della teglia, rendendoli umidi nella parte più bassa e verrà poi assorbita dai dolcetti in cottura e dopo.
Infornare per 20 minuti e poi lasciar intiepidire.
I panipopo si servono accompagnati da un po’ di salsa rimasta sul fondo della teglia.

 

Questa ricetta partecipa alla raccolta dell’Abbecedario Culinario Mondiale:

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Torta al miele e mandorle e l’inizio della “storia del miele”

Parliamo di miele. E non è mica cosa semplice… L’inchiostro in materia è davvero un mare, perchè il miele ha una storia lunga quanto il mondo.

Per chi sa che viene prodotto dalle api ma non ricorda bene il procedimento (come la sottoscritta, fino a ieri!) ecco cosa accade: le api esploratrici succhiano il nettare dal fiore e quando si sono ben riempite il pancino (in realtà la sacca mellifera è posta prima dello stomaco) tornano all’alveare e lo passano ad altre api. Per ogni bottino di miele il passaggio viene fatto altre 100 volte, di stomachino in stomachino, arricchendosi di enzimi preziosi che trasformano il nettare in miele. A questo punto il miele liquido, contentente oltre il 70% di acqua, e deposto nella celletta, viene asciugato dalle api con il movimento delle ali, come una sorta di phon naturale, che consente di arrivare al 18% di presenza di acqua. A questo punto il miele, che grazie al suo contenuto zuccherino si può conservare per anni, viene sigillato dentro la celletta con la cera.
Le api da cui proviene il miele italiano sono in massima parte della specie mellifica ligustica che, oltre ad avere un buon carattere, produce anche un’elevata quantità di miele in eccesso, rispetto al fabbisogno di sostentamento dell’alveare. Per questa ragione il miele in più può essere prelavato dall’apicoltore e trasformato.

Tralasciando la parte puramente biologica, e correndo per un milione di anni indietro nel tempo, il miele, ben prima di tornare “di moda” per le sue tante proprietà salutistiche era l’unico ingrediente in grado di dolcificare i cibi, ben prima della scoperta dello zucchero, almeno in questa parte del mondo. 
Giusto per dare qualche parametro sullo zucchero: esso era già conosciuto in Polinesia dal XIII secolo a.C., e dal VI secolo a.C, diffuso anche nella Persia di Re Dario. La diffusione, invece, la si deve agli arabi, sempre grandi commercianti dall’Oriente all’Occidente, che lo conoscevano già dal VI secolo a.C. e incominciarono a farlo viaggiare, insieme alla canna da zucchero, dal VII secolo d.C con la loro grande espansione verso l’Europa.
Ma torniamo al miele. La sua fortuna è ben più antica. 
Le api sociali avrebbero
un’età che va dai 20 ai 10 milioni di anni
, e permettetemi di
sorridere su questa approssimazione di soli 10 milioni di anni. L’uomo
è comparso solo 1 milione di anni fa e da subito cominciò ad
approfittare di questa dolcezza di natura: questa è una pittura rupestre trovata nella zona di Valencia, in Spagna, che rappresenta un raccoglitore di miele, con accanto il favo e le api in volo che sembra raccontare nei dettagli una tecnica di raccolta utilizzata ancora oggi in India.
La parola miele, melit, viene trovata per la prima volta su una tavoletta ittita; nel codice di Hammurabi erano previste pene severe per chi svuotava illecitamente un’arnia; e sulle iscrizioni geroglifiche egizie la letteratura in materia diventa una mole interessante, con prove “dipinte” del fatto che era già diffusa l’apicoltura. E quando Ra, il dio Sole, piangeva d’amore, queste erano lacrime di miele.
Per i Greci il miele era il cibo degli Dei, l’Ambrosia, ma soprattutto il nutrimento che permise la sopravvivenza del primo e più importante dei loro dèi, Zeus, quando era minacciato dal padre Kronos, tristemente conosciuto per l’abitudine a cibarsi della propria prole. Le leggende in merito sono tante, un vero e proprio intreccio di storie, dove ninfe, figlie di re e animali mitologici intrecciano le loro vincende; alla fine il succo è questo: la capra Amalthea, o una ninfa con questo nome e la ninfa Melissa, poi trasformata in ape, nutrirono il piccolo Zeus con latte e miele.
E una torta con yogurt greco, panna, miele e mandorle è il migliore accompagnamento a questo groviglio di storie.
La ricetta: Torta al miele e mandorle (da una ricetta “Duchy Originals”, rivisitata da me)
175 g di farina di grano tenero
200 g di mandorle tritate finemente
100 g di miele (per me MielBio Rigoni d’Asiago -Tiglio)
100 g di zucchero di canna
150 g di yogurt greco
50 g di panna fresca
1 uovo
2 cucchiaini di lievito per torte 
1 manciata di mandorle a lamelle
Imburrare e infarinare la teglia (21-22 cm di diametro).
Accendere il forno a 160°.
Mescolare con una frusta zucchero, yogurt, panna, miele e tuorlo del’uovo.
Montare a neve l’albume.
Aggiungere poi al composto la farina, con il lievito in polvere e le mandorle tritate, mescolando bene.
In ultimo incorporare con cura l’albume montato a neve.
Trasferire nella teglia ed infornare per circa 40 minuti. (con prova stecchino e senza far scurire troppo la superficie).
Spennellare la superficie della torta con 1 cucchiaio di miele allungato con acqua e distribuire le lamelle di mandorla.

Io l’ho accompagnata con yogurt greco al naturale e mirtilli…ma era ancora settembre…naturalmente si presta a qualsiasi frutto di stagione

[fonti: 
http://www.mieliditalia.it/index.php/mieli-e-prodotti-delle-api/miele/80136-il-miele-attraverso-i-secoli
http://www.placidasignora.com/2012/11/18/le-lacrime-di-ra-storie-proverbi-e-curiosita-sul-miele/
http://bifrost.it/ELLENI/2.Teogonia/06-Nascita_di_Zeus.html]

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Cookies al burro d’arachidi e gocce di cioccolato Velocissimi da preparare e naturalmente... uno tira l'altro

Esistono ricette che ti entrano nel cuore. E non importa quante volte tu le possa rielaborare, quelle restano sempre la base da cui partire. 
È il caso di questi cookies. 

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Cookies al burro d’arachidi e gocce di cioccolato Velocissimi da preparare e naturalmente... uno tira l'altro" class="facebook-share"> Cookies al burro d’arachidi e gocce di cioccolato Velocissimi da preparare e naturalmente... uno tira l'altro" class="twitter-share"> Cookies al burro d’arachidi e gocce di cioccolato Velocissimi da preparare e naturalmente... uno tira l'altro" class="googleplus-share"> Cookies al burro d’arachidi e gocce di cioccolato Velocissimi da preparare e naturalmente... uno tira l'altro" data-image="https://www.ricettedicultura.com/wp-content/uploads/2014/09/cookies_peanuts_4ww_zps23ff9ff0-565x660-1.jpg" class="pinterest-share">
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Focaccione sofficissimo per la colazione, con la Selezione di Stagione Simply

La ricetta di oggi si accompagna ad una iniziativa dei supermercati Simply. A partire dal 27 giugno e fino alla fine del 2014, sono disponibili in giorni prestabiliti, nel caso del mio supermercato di fiducia, il venerdì e il sabato, delle cassettine di frutta oppure di verdura contenenti esclusivamente prodotti di stagione a 0,79 € al Kg. Sono andata anch’io a provare questa selezione. Ecco la cassettina di frutta che ho scelto:

Uva, pesche bianche, mele e susine. Già pesate e pronte da portare a casa.
L’iniziativa è nata per promuovere il consumo della frutta e della verdura di stagione anche a chi si rifornisce al supermercato e non ha il tempo di andare dal fruttivendolo di fiducia. D’altronde con molti prodotti che ormai si trovano tutto l’anno, per i “non foodbloggers” c’è ancora un po’ di confusione…
Con questa cassettina di frutta ho elaborato una ricetta. Le pesche bianche me l’ero già mangiate e quindi ho pensato di preparare qualcosa per la colazione di settembre. Una focaccia che ricordasse un po’ la toscana schiacciata coll’uva, che si fa con le uve da vino, e un po’ la focaccia dolce di Susa, ricca di zucchero croccante in superficie.
Dalla Selezione di stagione Simply ho preso l’uva bianca e le susine che si prestano perfettamente a questo tipo di preparazione e alla cottura che ho adottato. Ho aggiunto solo una manciata di mirtilli freschi.
La focaccia è davvero perfetta per la colazione, dolce ma non troppo e con tanta frutta. Io l’ho tagliata a spicchi e surgelata: è sufficiente passarla in frigo la sera e scaldarla per 3 minuti in forno prima di gustarla al mattino, con il té, il caffelatte o una bella tazza di yogurt greco.
E naturalmente è personalizzabile con altra frutta di stagione!

La ricetta: Focaccione sofficissimo con frutta di stagione
per ogni focaccione di tot cm di diametro:
5 o 6 susine sode (Selezione di stagione Simply)
1 grappoletto di uva (Selezione di stagione Simply)
1 pugnetto di mirtilli freschi
280 g di farina tipo 0
5 g di lievito di birra fresco
100 g di acqua
80 g di zucchero
1 uovo grande (+ un po’ d’albume per la glassatura)
2-3 cucchiai d’olio extravergine d’oliva
q.b zucchero di canna scuro

In una terrina sciogliere il lievito in 50 g di acqua ed impastarlo con 50 g di farina. Lasciar riposare questo lievitino per un paio d’ore, finchè non è bello gonfio.
A questo punto aggiungere la restante farina e lo zucchero con altri 50 g di acqua e formare un impasto. Aggiungervi l’uovo e farlo assorbire, continuando a rigirare l’impasto finchè non è più appiccicoso. Per ultimo aggiungere due cucchiai di olio extravergine di oliva.
Lasciar riposare l’impasto al tiepido fino al raddoppio. 
Ungere una teglia (la mia era da crostata) e porvi l’impasto, allargandolo con delicatezza. Dopo mezz’ora o poco più sarà bello gonfio e pronto da decorare. Disporre in ordine le susine tagliate a metà, i chicchi d’uva e i mirtilli, spennellare con bianco d’uovo e spolverare in superficie con zucchero di canna.
Scaldare il forno a 180° ed infornare per circa 20-25 minuti.

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“Piramidi e Pentole” ad ExillesFest e i Dolcetti del Faraone

Questa non è una ricetta, è un’archeoricetta!

Parliamo di Archeoricette come avevo già fatto qui e qui. Non c’entra nulla la bistecca di brontosauro…ma ricostruzioni attendibili delle ricette che “potevano” esistere nell’antichità.
Siamo ad un nuovo capitolo e ad un nuovo libro per Gene Urciuoli e per Marta Berogno.
Si parla di Piramidi e Pentole,
ovvero di quello che è arrivato fino a noi della cultura gastronomica
egizia
L’espediente utilizzato per raccontare questi aspetti è
l’analisi dei geroglifici che parlano di alimentazione. Come accade per i reperti archeologici, in archeoricette ogni singolo alimento è interpretato come strato archeologico che deve essere contestualizzato cronologicamente e geograficamente per portare ad affascinanti interpretazioni. In alcuni casi ci sono ricette tramandate dalle fonti, in altri casi sono ricostruzioni accettabili e verosimili di quella che poteva essere l’alimentazione dell’epoca.

In questo volumetto si parte dalla parola e dal fatto che nelle decorazioni tombali egizie la rappresentazione del cibo e degli atti che ne descrivevano la preparazione aveva così tanta rilevanza: il cibo, non soltanto bisogno primario nella vita terrena, ma anche una necessità da soddisfare nell’aldilà, tanto che suppellettili per cucinare e formule per ottenere magicamente il cibo erano conservate nelle sepolture.
Questo libro a metà tra un compendio di grammatica egizia e un libro di storia dell’alimentazione, svolge il difficile compito della divulgazione anche verso un pubblico solitamente distante da questo genere di tematiche. Da un lato spiega la composizione delle scritte, dall’altro approfondisce brevemente le abitudini culinarie.
Il 31 agosto, ad Exilles, nell’ambito di ExillesFest ci sarà una nuova presentazione di questo libro, insieme agli autori Marta Berogno e Generoso Urciuoli.
Io cucinerò e racconterò una rielaborazione delle “golosità di Ramses”, mentre Irene del blog Stuzzichevole, proporrà i “Dolcetti al cipero”, entrambe tra le ricette presenti all’interno del libro.
Le “golosità di Ramses” dolcetti di cui il faraone doveva essere ghiotto, si trovano rappresentati all’interno della sepoltura del faraone Ramses III, insieme a tutte le fasi della preparazione: sicuramente un suggerimento per i servitori dell’aldilà che avrebbero potuto, in questo modo, deliziare il sovrano.  
Ho modificato la ricetta proposta per rendere questi dolcetti meno compatti. La prima volta ho aumentato la dose di formaggio di capra, ma non è stato sufficiente, quindi ho aggiunto un poco di lievito di birra.
La ricetta: Dolcetti del Faraone (in forno)
200 g di semola di grano duro
1 pizzichino di lievito di birra fresco
200 g di formaggio cremoso di capra
2 cucchiai di miele
2-3 cucchiai d’acqua

per decorare
miele q.b
2 cucchiai di semini di papavero

Sciogliere il lievito di birra nei due cucchiai d’acqua e amalgamarvi il miele.
Mescolare la farina con il formaggio fresco e la pappetta di lievito e miele e formare un impasto omogeneo e ben lavorato.
Far lievitare per un’ora circa.
Riprendere l’impasto, tagliarlo a pezzi e per ogni pezzo ricavare dei rotolini lunghi e sottili, di circa 1/2 o 1 cm di diametro. Arrotolare il rotolino su se stesso come per formare una spirale e quando la spirale ha raggiunto un diametro di circa 2 cm, tagliarla con il coltello e metterla su una teglia infarinata. Proseguire fino ad esaurire l’impasto.
Infornare a 180° C per 15 minuti circa. Sformare, deporre su un piatto ed irrorare con miele e semini di papavero.

Qui sotto la prima versione dei dolcetti, senza lievito; mantengono molto meglio la forma, ma sono troppo compatti e sebbene dolci molto lontani dal gusto odierno, volevo presentare all’ExillesFest un assaggio che fosse anche gradevole ai nostri palati.

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Oeuf à la neige per il Calendario Culinario La France à Table

Mentre tutte le foodblogger serie – quelle che ad agosto si stendono in spiaggia, italiana o straniera che sia – si prendono una pausa dal blog e dalla rete, io torno alla carica.
Io ad agosto resto a Torino e qualche giorno lontano dal blog me lo sono già fatto.
Quindi, o golosi cronici, voi che non siete in alcun modo scoraggiati o redarguiti dal caldo imperante (che ora arriva, oh, sì che arriva, è già qui!), ecco che troverete me ad allettarvi, incurante della canicola estiva, perchè ecco, sì… insomma… caldo o non caldo, si deve pur mangiare!
Quindi lasciatele perdere per un mese, le super foodblogger, e fatevi un giro qui, che da leggere ce n’è sempre…pure troppo!
L’Ile de France è la regione in cui si trova Parigi. Il suo nome deriva da île, isola, perchè territorio delimitato dai fiumi Oise, Marne, Epte, Aisne, Yonne ed Eure e attraversato dalla Seine, che bagna anche Parigi. Un’altra interpretazione vuole che la denominazione derivi Liddle Franke in lingua franca, appunto, che significa Piccola Francia.
Alla resa dei conti è tutt’altro che “piccola”, se non per il suo territorio, visto che è la più ricca regione di Francia e il suo reddito procapite è del 70% più elevato del resto della media Europea.
 
Un territorio ricco quindi e fortemente turistico.
In primo piano, ancora una volta, i castelli. Fontainebleau, con un’architettura che attraversa epoche e stili e con i suoi 115 ettari di giardini;
foto da http://www.williamcurtisrolf.com
il castello di Saint-Germain-en-Laye, anche questo notevole per la costruzione in sé, ma ancor di più per le collezioni al suo interno: ospita infatti il Museo di Archeologia Nazionale, che fa fare un viaggio attraverso 30.000 oggetti archeologici dal Paleolitico alla Gallia Merovingia del VIII secolo; 
se invece pensate che le cose preistoriche siano troppo distanti dai vostri gusti, ecco il Castello d’Ecouen, al cui interno sono conservati arazzi, ceraniche, mobili, gioielli e oggetti di uso quotidiano, risalenti al Rinascimento. 
Restando in tema di castelli e palazzi, non si può dimenticare Versailles… anche se, da torinese, ci tengo a dire che al progetto della Venaria Reale cominciarono a lavorare due anni prima…
Per le foodbloggers a caccia di props, l’ideale è fare un salto a Saint-Ouen, dove si svolge un mercatino delle pulci davvero celebre, il tempio europeo dei mercanti di anticaglie.
Un accenno lo merita anche Auvers-sur-Oise dove vissero e lavorarono molti pittori impressionisti francesi, quali Cezanne, Pissarro, Corot, Daubigny e dove morì Vincent Van Gogh, sepolto proprio nel cimitero di Auvers.


La ricetta francese di questo mese è un dessert fresco che ci
siamo spazzolati il dicembre scorso, mentre finivo di fotografare per il
calendario, ma che è adattissimo per concludere una cena anche se fuori
ci sono 30 gradi. La crema inglese la potete preparare in anticipo,
anche la sera prima; le nuvole, un po’ meno in anticipo, due ore prima di portare in tavola,
velocissime da montare e immergere per pochi istanti nell’acqua bollente
e quindi via subito sulla crema inglese. 
Attenzione, però! Alcuni confondono l’ oeuf à la neige con l’île flottante, invece come spiega una francese DOC sul suo blog, le seconde si differenziano per la cottura del bianco d’uovo che nell’île flottante è meringa cotta a bagno maria in forno. Nell’oeuf à la neige la quenelle di meringa viene adagiata nell’acqua bollente e lì cuoce per pochissimi minuti.

La ricetta: Oeuf à la neige

Per la crema inglese:
400 ml di panna fresca da montare
300 ml di latte intero
135 g di zucchero
6 tuorli
1 bacca di vanigliaPer le oeuf à la neige:
4 albumi
70 g di zucchero
1 cucchiaino di fiori di lavanda

Portare a ebollizione il latte e la panna assieme ai semini e alla buccia della bacca di vaniglia. Quando bolle, spegnere il fuoco e lasciare ancora la bacca in infusione per un quarto d’ora. Sbattere i tuorli con lo zucchero finchè non diventano chiari  e spumosi. Versare un po’ di miscela di latte e panna, bollente sui tuorli, mescolare bene e poi aggiungere, gradualmente tutto il liquido, mescolando. Far cuocere poi, in una casseruola, a bagnomaria, finché la crema non nappa il cucchiaio. Con il termometro da cucina, dovrebbe arrivare a 85°C.
La crema a questo punto va raffreddata velocemente, perchè non impazzisca: metterla quindi in una piccola boule e porre questa boule in una più grande, preliminarmente riempita di cubetti di ghiaccio. Mescolare finchè la crema non raggiunge la temperatura ambiente. Rimettere nella crema la buccia di vaniglia e porre il contenitore in fresco per almeno 6 ore.

Un’ora o due ore prima di servire il dolce preparare le oeuf à neige, montando gli albumi finchè non schiariscono ed aggiungendo poi lo zucchero, continuando a montare. Quando la meringa è pronta, scaldare una pentola d’acqua a circa 85°C ed immergervi poi la meringa a cucchiaiate, formnado delle grosse quenelles. Devono cuocere circa 7 minuti. Poi giratele e proseguite la cottura per altri 3 minuti. Deponetele su un piatto o un canovaccio pulito fino al momento di servire.

La crema va posta in coppe o bicchieri larghi e capienti e completata con le nuvole di meringa e, come ho fatto io, con i fiori di lavanda (oppure più semplicemente con qualche scaglia di mandorla o granella di altra frutta secca).

 

 

 

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ai fornelli, biscotti, dolci

Cheewy Bars, barrette morbide con cereali croccanti e pesche al timo

Da oggi inizia ai supermercati Lidl la settimana dedicata ai prodotti di ispirazione USA della linea Mcennedy, American Way. Fino al 29 giugno saranno più di 40 i prodotti proposti in offerta speciale e limitata: dai classici cookies americani, ai cranberries disidratati, ai preparati per torte e pancakes, ad altri numerosi prodotti salati…
Un folto gruppetto di foobloggers ha accettato l’invito di provarli in anteprima e tra questi anch’io!
Ho ricevuto i morbidi cranberries, alcune confezioni di cereali addolciti dallo sciroppo d’acero, il burro di arachidi in versione crunchy e un nuovo attrezzino per la mia cucina: la piastra elettrica per fare in modo veloce e pulito delle ottime ciambelline.
Quindi questa settimana mi trasferisco negli Stati Uniti, almeno con il pensiero, e vi propongo qualche ricetta di ispirazione americana, con i prodotti che ho ricevuto.
Il primo pensiero è volato a delle barrette ripiene, talmente golose che ne basta poco per soddisfare la voglia di dolce quotidiana e facili facili da fare e presentare, già porzionate.
Il ripieno è di pesca, visto che l’estate è arrivata, la parte croccante invece è data dai Crunchy Clusters Mcennedy, agglomerati di cereali e muesli con noci pecan e sciroppo d’acero.

La ricetta: Cheewy Bars con cereali croccanti e pesche al timo

250 g di Crunchy Clusters Mcennedy
100 g di farina
140 g di burro morbido
70 g di zucchero di canna
2 uova
1 pizzico di sale
scorza di limone

4-5 pesche
1 cucchiaio di zucchero di canna
10 g di burro
timo fresco o essiccato

Preparare prima le pesche, sbucciandole e tagliandole a fettine. In un padellino mettere i 10 g di burro, le pesche e lo zucchero e far insaporire a fuoco vivace con il timo, giusto il tempo di far sciogliere lo zucchero.

Lavorare il burro morbido con lo zucchero, poi aggiungere le uova sbattute leggermente con un pizzichino di sale e la farina, ricavando un impasto morbido. Aggiungere e distribuire uniformemente all’impasto i cereali Crunchy Clusters.

Imburrare e infarinare una teglia rettangolare o quadrata di dimensioni circa 21x21cm o poco più grande. Distribuire sul fondo poco più di metà dell’impasto. Fare uno  strato di pesche e ricoprire con il resto dell’impasto.
Infornare a 150°C in forno già caldo, ventilato, per mezz’ora o fino a doratura.
Lasciar intiepidire e tagliare a quadratini o rettangoli, per poi lasciar raffreddare completamente.

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