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Flaune de l’Aveyron per giugno e il Calendario Culinario “La France à table”

La regione del Midi-Pyrénées, si trova nel sud ovest della Francia.
Si tratta di un cuore verde, poichè interamente circondata da montagne e percorsa da fiumi e torrenti, tanto che 7 degli 8 dipartimenti che la compongono prendono proprio il nome da uno dei suoi corsi d’acqua.
Il verde è molto presente, con 1 parco nazionale da circa 46.000 ettari di natura incontaminata e 3 parchi regionali all’interno della regione.
I Pirenei sono la frontiera naturale che divide la Francia dalla Spagna, ma al tempo stesso per secoli hanno rappresentato la vicinanza con questo altro regno; è quindi facile immaginare che le contaminazioni culturali siano molte.

La varietà della regione è tale che vi si può trovare di tutto, dalle grotte con pitture rupestri preistoriche, alle più importanti industrie spaziali ed aeronautiche europee; a luoghi carichi di spiritualità come Lourdes o Saint-Bertrand de Comminges, base di partenza per i pellegrinaggi verso Santiago di Compostella, ai luoghi dove è nata la lotta operaia, Carmaux e Jaurès, presso gli impianti minerari che un tempo supportavano l’economia della regione; e poi la pastorizia che si racconta anche nelle attività collaterali come il coltelli Laguiole, le maioliche, i cammini della transumanza oggi divenuti sentieri da trekking.

Da fiaba i paesaggi di alcune località celebri, alcune fra tutte: Rocamadour, dove si trova il Santuario della Madonna Nera;

oppure Montsegur che ricorda la drammatica crociata contro gli Albigesi:

o ancora l’Aiguille du Midi:

Anche gli spunti artistici non mancano: a Montauban nacque Ingres; 84 anni dopo, ad Albi, nacque Toulouse-Lautrec.

I prodotti tipici sono conosciuti internazionalmente, il fois gras in prima fila, poi il tartufo, che l’avvicina un po’ al mio Piemonte, poi il formaggio di capra di Rocamadour, l’agnello del Quercy, l’aglio di
Lautrec, lo chasselas di Moissac, uva da tavola e vino di eccellenza, i porcini.

Tra le ricette, piatti corposi come cassoulet, aligot, garbure, stockfish e
gâteau allo spiedo.

Nel Midi, in particolare nell’Aveyron, in primavera si prepara il flaune. Si tratta di un parente prossimo del più conosciuto flan patissier del nord, confezionato con una sorta di ricotta di pecora, più vicina al brocciu corso che alla nostra ricotta. L’aroma tradizionale di questo dolce è però l’acqua di fiori d’arancio e proprio questo connubio di latticino di pecora + fior d’arancio, fa inevitabilmente pensare alla pastiera. In realtà pare che questa preparazione sia derivata da una ricetta dell’antica Grecia e quindi è normale trovarne delle varianti nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. La ricetta pare essersi diffusa in Europa tramite la diaspora ebraica.

La ricetta: Flaune de l’Aveyron
base:
300 g di farina
75 g di burro freddo a cubetti
1 cucchiaio di zucchero
q.b. di acqua fredda con 1 cucchiaino di aceto

ripieno:
500 g di ricotta di pecora
1 uovo intero e 5 tuorli
250 g di zucchero di canna
200 ml di panna fresca
6 cucchiai di acqua di fiori d’arancio

Preparare la brisè sbriciolando velocemente la farina con il burro freddo e lo zucchero. Aggiungere l’acqua fredda di frigorifero con l’aceto ed impastare molto velocemente per non scaldare il tutto.

Per il ripieno mescolare la ricotta con lo zucchero fino a renderla soffice. Aggiungere gli altri ingredienti, mescolando fino ad ottenere una crema omogenea. Profumare con l’acqua di fiori d’arancio.

Stendere la brisè in uno stampo largo 30 cm o in tanti stampini individuali. Riempire ognuno con il ripieno ed infornare a 180° per 45 minuti.

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Gli appuntamenti di Ortinfestival: ce n’è per tutti i gusti.

Come anticipato qui, volevo raccontarvi qualcosa sui tanti appuntamenti di Ortinfestival alla Venaria Reale dal 30 maggio al 2 giugno, per invogliarvi a partecipare.
 
 
 
Il Potager in cui la manifestazione/esposizione si articola è una maglia quadrata di spazi tenuti a verde e completati con una collezione frutticola, orti, cereali, prato e fioriture, divertissement d’acqua e gallerie verdi. 
Immaginate in questo spazio una composizione regolare e studiata di:
varietà antiche di alcuni ortaggi, accanto al paniere dei prodotti agricoli tipici del Piemonte;
piante aromatiche, da quelle alpine, alla macchia mediterranea e quelle più esotiche; 
fiori eduli, dall’Italia e da altre latitudini, accanto a più di 50 nuove specie vegetali dal mondo che si sono adattate con grande successo ai nostri climi;
erbe spontanee, negli ultimi anni quasi dimenticate, che oggi riaffiorano nell’uso in cucina e cosmesi.
 
Per i pollici neri, però curiosi come me, ci saranno affascinanti visite guidate attraverso gli orti per imparare a riconoscere le diverse specie vegetali.
Per i pollici verdi, invece, ci saranno veri e propri workshop di orto, per costruirlo da sé, in vaso o nei cassonetti. 
Per i pollici neri che aspirano a diventare pollici verdi ci saranno basici corsi di alfabetizzazione orticola.
 
Come in ogni manifestazione che si rispetti non mancherà l’area dedicata ai piaceri del palato: si andrà dalla cucina d’autore di chef talentuosi e stellati, al BistrOrt, con cucina semplice del mercato e di stagione, ai Pop-up Kiosk, dove verrà servito al volo street-food in chiave “orticola“.
Sarà allestita un’area pic-nic, la iPlaid zone, per i dejeuner sur l’herbe o le merende sinoire, come vogliate chiamarle…
Infine non mancheranno gli showcooking e le cooking classes, con blogger, chef e autori gastronomici.
 
Nella filosofia green, i materiali di recupero verranno utilizzati per allestire orti verticali, sui tetti, sui terrazzi o sui davanzali urbani.
 
La Blogger-area sarà allestita con le tende eco-chic di Ferrino e per alcuni vi sarà la possibilità di pernottare all’interno dei giardini della reggia.
 
Infine l’area shopping riguarderà diverse categorie, dal verde (piante, tuberi, sementi), al food, al design e arredamento, al wellness e verranno presentati diversi Gruppi di Acquisto Solidale operanti sul territorio.
 
A completare il tutto ci saranno le performance degli artisti di strada e la presenza del partner d’eccezione di quest’anno, il Peru, che presenterà il rito andino della Pachamama, la Madre Terra, un tempo venerata dagli Inca e oggi da molte popolazioni autoctone del centro e sud America.
 
Vi saluto e vi dò appuntamento ad Ortinfestival con la mia semplicissima ricetta di dolce con le fragole. Mentre scrivo penso a molte amiche blogger che sicuramente saranno attratte da questo calendario così ricco ed allettante. La manifestazione aprirà alle ore 16,00 del 30 maggio e si concluderà il 2 giugno; per altre informazioni cliccate qui!
 
 
 
La ricetta: Pudding di fragole al profumo di lime

 

150 g di fette di pane integrale (il mio ai cereali preparato con Multicereali QB Molino Grassi)
20 g di burro
200 g di fragole mature
200 ml di latte intero
2 cucchiai di miele
1 uovo grande
1 cucchiaio di zucchero di canna + un po’
la buccia di un lime
 
Tagliare il pane a fette e poi a rettangolini. Lavare le fragole e tagliarle a pezzettini.
Far sciogliere il burro e spennellarlo sulle fette di pane.
In una pirofila disporre uno strato di pane e poi uno strato di fragole e continuare fino ad esaurimento degli ingredienti.
Scaldare il latte con il miele e la buccia gratugiata di un lime. Montare l’uovo con il cucchiaio di zucchero, poi miscelare questo composto con il latte e miele intiepidito.
Versare il tutto sulle fette di pane e fragole e lasciare assorbire, per circa 10 minuti, mentre il forno si scalda.
Infornare poi a 180°C fino a doratura delle fette di pane in superficie. Consumare tipiedo o freddo.
 
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6 settembre 2017
Ho provato una nuova versione di questo pudding: ho utilizzato 7 fette di plumcake all’uva passa, tagliate ancora a metà e disposte su una teglia rotonda di 20 cm di diametro. Ho sbattuto con 50 g di zucchero 2 albumi e 1 uovo intero, con la buccia di mezzo limone bio. Alle uova ho aggiunto 300 ml di latte di soia tiepido. Poi ho irrorato il pane all’uvetta con questo composto, disposto delle fragole surgelate sul tutto e fatto riposare per 10 minuti e poi infornato a 180°C per 30 minuti.
 
Eccolo qui:
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Trancetto di Apple Cake a modo mio, gluten e lactose free: un esperimento!

Che la Bolzano Apple Cake sia da qualche mese a questa parte la mia torta di mele preferita è un dato di fatto…
Che ci tenessi a partecipare al contest di Andante con gusto è un altro:
ho visto talmente tante proposte “senza” golose e gustose che non
cimentarmi sarebbe stato davvero un peccato.
E quindi arrivo con l’accelerato delle 20,50 per mandare anch’io una proposta.
Ho reinventato la Bolzano Apple Cake, la
celebre torta dello chef Scott Carsberg, tutta burro e felicità,
rendendola una gioia anche per chi è intollerante al lattosio, usando la
crema di cocco. Ho sostituito la farina di grano tenero con grano
saraceno e maizena per farla gustare anche ai celiaci.
Lo chef dice che questa torta si presenta come un muro di mele e in
effetti è così: tanti strati sottilissimi di mela, resi omogei da una
malta di torta, che però non sovrasta assolutamente il sapore dolce
acidulo delle mele verdi. Nella versione originale è la migliore torta
di mele che io abbia mai preparato. In questa versione “senza” è forse
ancora più buona e saporita.
Alcune note “tecniche” sono essenziali:
– l’acqua di cocco è il liquido biancastro contenuto nelle noci di cocco giovani;
– il latte di cocco è prodotto da polpa di cocco (fresca o essiccata) e acqua calda;
– la crema di cocco è prodotta con meno acqua, rispetto al latte di
cocco e quindi più densa ed è la parte che nelle lattine acquistabili
nei supermercati meglio forniti o nei negozi di alimentari orientali,
resta in superficie.
Il latte e la crema di cocco si possono
prepararare anche a casa, a partire dal cocco fresco o dal cocco
disidratato che è facilmente reperibile: bisogna coprire 100 g di cocco
essiccato (oppure 200 g di fresco, grattugiato) con 1/2 litro di acqua
calda, lasciarlo riposare e poi filtrare il tutto, per ottenere il
latte. Con meno acqua si dovrebbe ottenere la crema. Io questa volta ho
utilizzato una lattina di latte di cocco acquistata al Lidl, ma proverò
anche a fare l’esperimento dell’autoproduzione!
Il latte di cocco non contiene lattosio;
contiene invece acido laurico, contenuto anche nel latte materno, che ha
numerose proprietà per lo sviluppo del cervello e la salute delle ossa.
I grassi saturi del latte di cocco sono facilmente metabolizzati dal
nostro organismo e per questa ragione è facilmente digeribile.
Visto che è cambiato il tipo di farina,
l’aroma principale e la parte grassa utilizzata, ho battezzato questa
torta con il mio nome…me lo merito, no? 😀
 
La ricetta:

Apple Cake gluten free e lactose free

(per una teglia rettangolare 20x18cm)
2 mele verdi Granny Smith grandi (o 3 piccole)
120 g di zucchero di canna
1 tuorlo e 1 uovo grande
la buccia grattugiata di 1 limone
170 g di crema e latte di cocco (prendere la parte più solida della lattina ed aggiungere, se occorre un po’ di latte di cocco)
40 g di farina di grano saraceno
20 g di maizena
olio vegetale per spennellare la teglia

Mescolare le due farine e metterle da parte.
Sbucciare le mele ed affettarle a 1 mm di spessore con la mandolina. Se
non l’avete, utilizzate un pelapatate, devono essere molto sottili.
Irrorarle con il succo di limone per non farle annerire.
Montare l’uovo e il tuorlo con lo zucchero. Aggiungere la buccia di limone e il latte e crema di cocco, mescolando con cura.
Aggiungere le farine setacciate, mescolando per non formare grumi.
Aggiungere infine le mele, rigirandole nell’impasto per farlo aderire su tutti i lati.
Spennellare la teglia rettangolare con l’olio vegetale e mettervi dentro l’impasto.
Infornare subito, in forno già caldo a 180° e e far cuocere finchè la superficie non è ben dorata.
Lasciare raffreddare nella teglia. La
torta di staccherà da sola dal fondo. Tagliare a trancetti rettangolari,
spolverando di zucchero a velo o zucchero di canna. Si può mangiare
fredda, oppure leggermente intiepidita.

Con questa ricetta partecipo al contest È senza? È buono! di Patty “Andante con Gusto” e “Cose dell’altro pane” nella categoria prodotti da colazione.

contest andante con gusto
ai fornelli, biscotti, dolci, Natale

Quadrotti friabili al cacao e nocciole, senza burro Biscotti con olio (di semi o di oliva) nell'impasto e tante nocciole

Questi biscotti sono adatti a una domenica di pioggia o ad accompagnarvi nell’inizio della settimana. Leggeri e intensi, perfetti anche con il sole che oggi mi ha letteralmente colta di sorpresa.
Sono semplici e veloci da fare, con una forma davvero rustica, niente formine o ritagli complicati, solo un impasto da stendere alto, quanto le nocciole intere che sono all’interno, e da tagliare a quadrati regolari.

Ho pensato di sostituire il burro con olio per un risultato più leggero e successivamente, avendo un po’ di albumi in frigo, ho utilizzato il solo bianco d’uovo al posto dell’uovo intero.

 
Ne derivano dei biscotti sbriciolosi e friabili, ma le nocciole sono valorizzate anche dalla differenza di consistenza. 
Il consiglio naturalmente è di usare nocciole di ottima qualità, come la Tonda Gentile delle Langhe che ho usato io oppure la nocciola IGP di Giffoni. Se usate delle nocciole in granella, potrete fare biscottini più sottili e più piccoli, a voi la scelta!
 
Con questo post ringrazio Valentina, la blogger di Latte Dolce Fritto; anche questo blog, conosciuto da poco, mi ha subito conquistato. Valentina mi ha fatto dono di un piccolo premio, questo:
 
Non sono solita continuare le catene, ma mi ha fatto davvero piacere e visto che fin dall’antica Roma era uso regalare piantine di nocciole per augurare felicità, io omaggio Valentina con questi super biscotti alla nocciola, con lo stesso augurio.
E a tutti voi, che mi leggete e mi seguite con affetto, una cascata di biscotti alla nocciola per un felice inizio di settimana!

 

 

La ricetta: Quadrotti friabili al cacao e nocciole, senza burro
(ho seguito la ricetta di Francesca, ma ho dimezzato le dosi. Ho cambiato il burro con l’olio di semi, nella proporzione di 100 g di burro a 80 g di olio di semi, e l’uovo intero con pari peso di albume)

225 g di farina
15 g di cacao amaro
60 g di olio extravergine di oliva (o di semi di girasole)
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
80 g di zucchero a velo
1 albume
85 g nocciole (le mie qualità tonda gentile delle Langhe)

Mescolare in una grande ciotola farina, cacao e zucchero. Aggiungere mescolando l’olio e poi l’albume, formando grosse briciole di impasto. Completare con le nocciole intere e la vaniglia. Formare un panetto alto due dita e riporre in frigo a raffreddare per un’oretta.
Stendere l’impasto in un rettangolo spesso quanto le nocciole e ritagliarlo in quadrotti di 5 cm di lato.
Infornare a circa 180° per circa 13 minuti.
Maneggiare delicatamente finchè non sono ben freddi.

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Pommes meringuées con uvetta e cannella per il mese di marzo in Normandia.

Per il calendario culinario La France à Table oggi viaggiamo fin nel nord della Francia.

La Normandia è considerata la culla dell’Impressionismo, non solo per Claude Monet, che vi soggiornò lungamente e la scelse per più di 40 anni ma perchè moltissimi altri pittori dell’epoca rappresentarono su tela i suoi paesaggi.
 
Gli storici dell’arte mettono agli albori dell’impressionismo il Déjeuner sur l’herbe di Manet, esposto al Salon des Refusée (dove venivano esposti i dipinti rifiutati dal Salon ufficiale) nel 1863.
Il dipinto  venne riproposto con una chiave diversa e con lo
stesso titolo dal giovane Monet nel 1865: il suo Déjeuner sur l’herbe
stacca nettamente dalla
pittura classica, anche se ancora lontano dalle pennellate di colore che
saranno il tratto distintivo della nuova corrente pittorica.
i due “Déjeuner” di Manet e di Monet
 
Claude Monet era nato a Parigi ma già nel 1845, a 5 anni, si era trasferito con la famiglia in un sobborgo di Le Havre, sull’estuario della Senna, in Alta Normandia, dove il padre gestiva una drogheria. 
Quasi subito Monet si sentì predisposto per la pittura di paesaggio en plein air, prima ancora che l’impressionismo venisse codificato. Nel 1859 si era trasferì a Parigi, incontrando tutti gli esponenti del circolo nascente, pittori, poeti e scrittori, che coloreranno almeno quattro radiosi decenni di Francia. Con alcuni, ad alterne vicende, si trovò anche a dividere lo stesso tetto, mentre il suo interesse per la resa della luce e la pittura di paesaggio venne influenzato dalla permanenza in Marocco, durante il servizio militare, e durante i soggiorni a Trouville, ad Argenteuil e a Londra. Qui ebbe anche la possibilità di studiare le opere di Turner e Constable, pittori romantici inglesi di paesaggio.
Nel 1874 era nuovamente a Parigi, quando si inaugurò la mostra del gruppo Societé anonyme des peintres, sculpteurs et graveurs, nello studio del fotografo Nadar, e qui Monet esponne la sua Impression, soleil levant, che diede il nome all’Impressionismo stesso. Pennellate di colore che sono luce, per un quadro dipinto che rappresenta proprio il porto di Le Havre all’alba.

Altri luoghi in Normandia conservano memoria di Monet.
A Giverny egli visse dal 1883 al 1926, in una bellissima casa con giardino che oggi è museo. Fare il confronto tra le fotografie e i suoi dipinti è emozionante:

 

A Rouen, la cittadina di origine medievale che vide la morte sul rogo Giovanna d’Arco, Monet dedicò una serie di sue opere alla cattedrale gotica, fino a produrre più di 30 tele, tra
il 1892 e il 1894
, e nel periodo più produttivo fino a 14 versioni diverse in un solo giorno, seguendo i cambiamenti indotti dal mutare della luce.

Un altro soggetto che incantò Monet, tanto da indurlo a rappresentarlo molte volte e farne oggetto di studio per la luce, furono le scogliere di Etretat.

E qui potete vedere la stessa scogliera in una fotografia recente:

 
La Normandia non è però solo un luogo dai paesaggi incantevoli, ma è tra le regioni francesi la maggiore produttrice di mele. Si conta una stima di 7 milioni di alberi di mele, come uno sterminato frutteto, che tra ottobre e novembre si colorano di frutti. Tra le varietà più note la Belle de Boskoop, la Cox Orange, la Jonagold, la Reine des Reinettes.

La mela è quindi molto utilizzata in cucina, ma è soprattutto la materia prima per la produzione della bevanda più diffusa. La Normandia è l’unica regione di Francia a non avere vigneti, qui si beve il sidro. C’è anche una Route du Cidre, circa 40 km che si snodano tra cantine e frutteti.

E se in Normandia il vino sta al sidro, la grappa sta al Calvados, profumatissimo distillato a base di sidro, che vanta una storia risalente al 28 marzo 1553, la prima citazione scritta del prezioso nettare. Non è leggenda il trou normand, narrato da Maupassant e da Flaubert, ovvero il bicchierino di Calvados da buttar giù tutto d’un fiato a metà dei luculliani pasti per scuotere lo stomaco e far posto ad altre vivande.
La Normandia è anche terra di qualitativamente importanti bovini da latte e di celebri e raffinati formaggi ed è la seconda produttrice francese di ostriche, ma la protagonista della ricetta di questo mese doveva essere la mela. Non in forma di tarte normande, la celebre crostata di mele e calvados, ma più semplicemente una mela meringata, semplicissima da preparare, un finepasto semplice e golosissimo.
 
La ricetta: Mele meringate all’uva passa e cannella

(per 4 persone)
2 mele grandi
10 g di burro
1 cucchiaino di zucchero
1 cucchiaino di cannella
4 cucchiaini di marmellata di mele
2 cucchiai di uva passa
1 bicchierino di Calvados (o in assenza brandy)

1 albume
30 g di zucchero

Tagliare le mele a metà, sbucciarle e togliere la parte centrale con i semi. Cospargerle di succo di limone.Mettere a bagno l’uvetta nel bicchierino di Calvados.
Mettere le mezze mele in padella con il burro e la cannella e farle cuocere coperte per 10 minuti, rigirandole spesso.
Scolarlele mele e disporle in una piccola teglia con il buco verso l’alto. Mettere in ogni cavità un cucchiaino di marmellata di mele e l’uva passa, scolata.
Scaldare il forno a 160°C.
Cominciare a montare a neve l’albume e, quando diventa schiumoso, aggiungere i 30 g di zucchero e finire di montare.
Disporre la meringa su ciascuna mezza mela ed infornare subito. Lasciar cuocere finchè la meringa non è soda in superficie (all’interno resterà più morbida).

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Le bugie che uniscono l’Italia… Il dolce di Carnevale più amato e conosciuto

bugie-chiacchiere-cenci
Forse e senza forse, le bugie sono il dolce carnevalesco più conosciuto e diffuso, tanto che tutte le regioni d’Italia ne hanno la propria versione e danno loro un nome tipico, caratteristico ed evocativo.
 

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ai fornelli, dolci, storia & cultura, uova e fritture

Fritole venete, per un… Carnevale di Venezia Le frittelle veneziane con uvetta e pinoli dall'antica storia

Il quadro con cui si apre questo post è La venditrice di fritole di Pietro Longhi, dove una popolana veneziana, vestita di abiti dimessi, vende le frittelle carnevalesche a un signore ben vestito e dall’espressione decisamente poco simpatica, che sventola un grande fazzoletto con il quale, probabilmente, si proteggeva dai terribili miasmi che provenivano dai canali di una Venezia settecentesca.

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ai fornelli, dolci, lievitati, lievitati-dolci, storia & cultura

È l’ora della brioche… quasi francese

Oggi voglio parlare di un personaggio che tutti conoscono: Maria Antonietta, l’ultima regina di Francia che perse la testa durante la rivoluzione del 1789; l’avete sicuramente incontrata sui libri di scuola o, alla peggio, in qualche puntata di Lady Oscar.
Passò un’infanzia felice e relativamente svogliata in Austria, viziata e vezzeggiata anche dalla sua istitutrice, tanto che a 12 anni non sapeva ancora scrivere e non parlava correttamente né il francese, né il tedesco. Conversava però amabilmente in italiano, grazie alla grande ammirazione che aveva per Pietro Metastasio, l’inventore del melodramma, prestigioso ospite alla corte asburgica. La piccola Antoine eccelleva anche in altre arti, come la musica e soprattutto la danza. A due anni aveva contratto il vaiolo, ma ne era guarita e perciò in seguito immune, così ne non ne fu colpita durante la terribile epidemia che colpì anche la famiglia reale nel 1767.
Maria Teresa
Come molte giovani principesse, aveva però una madre ingombrante, che da semplice consorte dell’imperatore Francesco I, era di fatto divenuta la vera e propria imperatrice del gigante asburgico, riconosciuta tra i primi sovrani illuminati ed artefice di una politica articolatissima e moderna. Maria Teresa si era messa in testa, con 16 figli, dei quali ben 10 che arrivarono all’età adulta, di imparentarsi attraverso i matrimoni con i sovrani di tutta Europa. Purtroppo l’epidemia di vaiolo di cui scrivevo sopra ridimensionò i suoi piani. Riuscì a far sposare, prima di Maria Antonietta, Maria Carolina con il re Ferdinando IV di Borbone, detto il Re Lazzarone, che nonostante il soprannome fu un ottimo sovrano per il Regno di Napoli, e Maria Amalia con Ferdinando I di Parma, che non ebbe nomignoli ma fu un pessimo sovrano, complessato e bigotto e si presume pure cornuto.

Ma veniamo alla nostra Maria Antonietta. A 15 anni, molto graziosa, sempre capricciosa e svogliata, ma più educata, partì per la Francia, dopo il matrimonio

Marie Antoinette a 14 anni

avvenuto per procura con il delfino di Francia Luigi, futuro Luigi XVI, goffo, sgraziato e cicciottello. 

Avete presente quei ragazzetti che tutte abbiamo incontrato alle medie, o il primo anno delle superiori? Ragazzetti ancora né carne né pesce, ma che al momento ci sembrano il fascino personificato? Noi lì a sospirare e questi, ancora adolescenti sgraziati e pure presuntuosi, non ci filano neppure per sbaglio, presi da affari molto importanti (vedi calcio, basket, tiro del giavellotto o, nell’ipotesi più rosea, dallo studio). E quasi sicuramente, a rincontrarli oggi hanno subito un tremendo tracollo, grassi e completamente calvi…
Ecco, il futuro Luigi XVI era così, a dire il vero educato da anni di odio nei confronti dell’Austria e degli Asburgo non aveva nessuna voglia di sposare l’Austriaca, così come il popolo soprannominò Maria Antonietta, anch’esso fiaccato da anni di guerre contro l’Austria. Anzi le cronache di corte narrano di una vera e propria repulsione fisica (o paura) nei confronti della giovane principessa, prologo di un matrimonio che non venne consumato se non sette anni dopo.
Nel frattempo parliamo delle condizioni contingenti: una Francia allo stremo, anni di guerre e soprattutto di tasse ingentissime avevano fiaccato la popolazione che non sapeva più con chi prendersela
Con il giovane Re era ancora presto, anche se sappiamo tutti come è andata a finire nel 1789, e pur sempre di un re si trattava…
Chi poteva incarnare quel lusso decadente meglio della bella e viziata Regina, che dava sfarzose feste a Versailles, per consolarsi della disattenzione dello sposo che in realtà era pure bruttino, ben diverso dai ritratti che le avevano inviato in Austria?
Così Maria Antonietta divenne il capro espiatorio di tutte le maldicenze sulla nobiltà di nascita.
E, secondo le nostre maestre delle elementari, fu lei, durante una rivolta di popolani stremati dalla fame, a pronunciare la famosa frase: «S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche», «Se non hanno più pane, che mangino brioche».
 
E invece anche questa fu una diceria messa in giro per screditare la sfortunata regina. E le maestre elementari ci sono cascate come pere cotte.
Jean Jacques Rousseau racconta nel IV libro delle sue Confessioni che nel 1741 si trovava presso una ricca dama e, parecchio affamato, aveva intenzione di comprarsi del pane. Ora fatemi immaginare questo Rousseau che, ospite da una gran dama, patisce la fame… ma erano tutti spilorci ‘sti nobili?
Ad ogni modo, dice Jean Jacques che essendo vestito di abiti sfarzosi, entrare in una comune panetteria gli sembrava azzardato ed imbarazzante.
Dunque, cito testualmente: «Allora mi ricordai il suggerimento di una grande principessa a
cui avevano detto che i contadini non avevano più pane e che rispose:
che mangino delle brioches. Perciò mi comprai una brioche
Rousseau sorvola sul fatto che comprare brioche presuppone entrare in un altro negozio, ma noi facciamo finta di sapere che una pasticceria dell’epoca era ben più raffinata di una panetteria e proseguiamo oltre.
Maria Antonietta è nata nel 1755, quindi nel 1741 non poteva già aver pronunciato la frase incriminata e dunque Rousseau fa sicuramente riferimento ad un’altra principessa, forse Maria Teresa d’Austria, moglie di Luigi XIV.
 
E quindi, giunti a questo punto, possiamo assolvere Maria Antonietta alla quale forse la sfortunata frase venne appioppata sul groppone da quei francesi intolleranti nei confronti dell’Austriaca.
 
Ma vediamola finalmente questa brioche francese che è una cosa spettacolare ed è pure semplicissima da produrre. Nel formato originale è cotta in un unico stampo, con ingenti quantità di burro e uova, spugnosa e sofficissima, con una morbida crosticina dorata, lontana parente del nostro pandoro.
 
Io ho seguito la ricetta delle brioches intrecciate di Ida, Briciole in cucina, riducendo un pochino la quantità di burro ed usando solo la vaniglia per aromatizzare.
Con queste dosi ho ottenuto 6 brioches grandine, che vi fanno arrivare all’ora di pranzo senza un buco allo stomaco. In realtà credo che se ne possano tranquillamente ricavare 8 un poco più piccole. Ho adottato anche l’espediente della lievitazione in frigo per una notte. Vi consente di utilizzare poco lievito ed avere una massa spugnosa e sofficissima!
Naturalmente se riesco a procurarmi uno stampo, proverò ad utilizzare la stessa ricetta anche per il classico brioche-one francese in un unico pezzo.
 
 
La ricetta: Brioches quasi francesi
 (6-8 pezzi)
200 g di farina manitoba
50 g di zucchero a velo
10 g di lievito di birra fresco 
2 uova medie
80g di burro a temperatura ambiente
i semini di mezza stecca di vaniglia
1 pizzichino di sale
 
Per la rifinitura un pochino di latte e granelli di zucchero di canna
 
Ho sciolto il lievito di birra in un goccino di latte.
Ho messo farina e zucchero a velo nella ciotola dell’impastatrice, aggiungendo prima il lievito sciolto e poi gradualmente le due uova con il pizzichino di sale, fino ad ottenere una bella massa. Ho lasciato andare l’impastatrice per un bel po’, almeno un quarto d’ora. Quando la pasta si staccava bene dai bordi ho aggiunto la vaniglia e gradualmente il burro tagliato a cubettini: è importante aggiungere burro solo quando il precedente è stato ben assorbito dall’impasto. Una volta assorbito tutto continuare ad impastare con il gancio per altri cinque minuti. 
Ho deposto l’impasto in una ciotola per la lievitazione, lasciato lievitare fin quasi al raddoppio, poi sgonfiato e deposto in frigo per tutta la notte.
Al mattino ho tirato fuori dal frigo e  portato a temperatura ambiente; ho sgonfiato, ripiegando l’impasto su se stesso, ma senza impastare violentemente.
Poi l’ho suddiviso in 6 pezzi (ma anche 8 possono andar bene); per ogni pezzo ho ricavato 4 palline e le ho messe vicine-vicine in stampi da muffin (quelli di silicone). Ho lasciato lievitare fino al raddoppio e poi infornato.
Ida consiglia di portare la temperatura del forno ventilato a 200°C, mentre le brioches lievitano ancora per una mezz’ora, poi spennellarle con latte e zucchero e metterle in forno abbassando la temperatura a 180°C per circa quindici minuti.
Il modo migliore è controllare costantemente  il grado di cottura e doratura, a seconda del vostro forno.
Ho farcito con crema inglese alla vaniglia. E congelato. E una volta riportate a temperatura ambiente, restano davvero perfette. Fatele! 🙂
 
 
 
 
 

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ai fornelli, contest, dolci, torte

Torta di semola con polpa di pera e cardamomo Profumata, umida e golosa

Arriva ancora una ricetta per #Mangiare Matera, proprio poco prima della scadenza.
Mangiare Matera – Vero Lucano è nata per esprimere con i suoi prodotti la vera essenza di un territorio: dopo l’assaggio di ciò che è giunto fin qui, direi che ci sono proprio riusciti! Il pane, innanzitutto, che da semplice accompagnamento diventa ingrediente per mille altri utilizzi…e poi la pasta ruvida-ruvida-ruvida…e ancora le semole dal buon profumo che mi hanno affascinato tanto che, anche a contest terminato, arriveranno di sicuro altri utilizzi.
Ho concluso in dolcezza, con una torta rustica semplice e aromatica con il cardamomo che in infusione, durante la cottura delle pere, rilascia un profumo delicato. 
P { margin-bottom: 0.21cm; }L’interno del dolce resta umido e fragrante per diversi giorni, senza seccare, grazie alla polpa di pera inserita proprio nell’impasto.È una torta perfetta per accompagnare il té, soprattutto un té nero speziato, ma è resa fresca dalla salsa di pere che l’accompagna e può essere gustata anche da sola.

 
 

La ricetta: Torta di semola con polpa di pera e cardamomo
2 uova intere
280 g di purea di pere
110 g zucchero
40 g di burro
1 cucchiaino di lievito per dolci
 
per la purea di pere:
5 pere grosse
5 bacche di cardamomo
1 bicchierino di grappa
2 cucchiai di zucchero
1 bicchiere d’acqua
 
per rifinire:
zucchero a velo
cannella
 
Per prima cosa ho preparato la purea di pere. Ho messo le pere lavate, sbucciate e tagliate a pezzetti in un pentolino con l’acqua, la grappa, lo zucchero e i semi di cardamomo. Ho fatto cuocere finchè la pera non era morbidissima. Ho scolato dall’acqua in eccesso ed ho frullato il tutto; poi ho passato al setaccio, per ottenere una crema perfettamente liscia. Una parte di questa purea servirà per la preparazione della torta, la restante per accompagnamento.
 
Per la torta: ho lavorato le uova intere con lo zucchero, ho aggiunto poi il burro sciolto e intiepidito, 280 g di purea di pere e gradualmente la farina di semola rimacinata ed infine il lievito setacciato. 
Ho imburrato una teglia del diametro di 22 cm e vi ho versato l’impasto.
Ho infornato a 180°C per 35 minuti.
In superficie ho spolverato di zucchero a velo con una punta di cucchiaino di cannella.
 
Al momento di servire ho accompagnato la fetta con un cucchiaio abbondante di fresca purea di pere al cardamomo. 
 
Torta di semola con polpa di pera e cardamomo Profumata, umida e golosa" class="facebook-share"> Torta di semola con polpa di pera e cardamomo Profumata, umida e golosa" class="twitter-share"> Torta di semola con polpa di pera e cardamomo Profumata, umida e golosa" class="googleplus-share"> Torta di semola con polpa di pera e cardamomo Profumata, umida e golosa" data-image="https://www.ricettedicultura.com/wp-content/uploads/2013/11/torta-semola_pere_5_w-1.jpg" class="pinterest-share">
ai fornelli, dolci, ricette tradizionali, storia & cultura

Bustrengolo per Halloween…anzi per Ognissanti

Arriviamo ai giorni di festa per Ognissanti e gli italiani, almeno quell’alta percentuale che sono dediti ed appassionati di cucina sono ai fornelli. I piatti più noti e strettamente legati alla festività di Ognissanti sono dolci. Forse questo fatto è strettamente legato al detto “trick or treat” che i bambini anglosassoni recitano durante la loro questua di casa in casa nella notte di Halloween. In origine erano i pellegrini cristiani ad elemosinare il “dolce dell’anima” che altro non era che semplice pane. Ecco la tradizione di tutti i dolci di Ognissanti, spesso a forma di pane, infarciti di frutta secca.
 
Chi ha già sentito parlare del Bustrengolo? È un dolce che mi ha colpito per l’estrema semplicità dei suoi ingredienti. Si tratta di una specie di pasticcio di farina di mais, quasi una polentina dolce, guarnito con frutta secca, tra cui uva sultanina e pinoli e mele a fettine e, talvolta noci e nocciole, normalmente cotto al forno oppure fritto.P { margin-bottom: 0.21cm; }
L’origine e la diffusione è umbra, anche se è noto un Bustrengo marchigiano ed emiliano, che però è molto più simile ad una torta vera e propria, con uova e farina bianca oltre a quella di mais.
 
Impossibile, parlando di dolci umbri, non citare la celebre Fiera dei Morti che si svolge ogni anno a Perugia sin dall’epoca medievale. Si hanno testimonianze scritte sin dal 1260, quando era già un’usanza radicata.
Le fiere godevano di particolari esenzioni dai dazi e la possibilità di commerciare anche per coloro che avevano avuto problemi con la legge per cause civili. Era Festa, non solo per la presenza di giochi, quali la caccia al toro, la corsa dell’anello e la giostra della quintana ed altri più semplici come lotterie e tombole, ma anche perchè prevedeva un grande afflusso in città con conseguente arricchimento della popolazione. Nel periodo autunnale era per di più di grande importanza per il possibile approvvigionamento di varie cibarie prima dell’inverno.
Tutte queste ragioni decretarono la fortuna di questa Fiera che spesso cambiò nome attraverso i secoli, da Fiera di Ognissanti a Fiera dei Defunti, fino a riprendere quello attuale di Fiera dei Morti.
 
E dunque via al più particolare e tipico dolce umbro della Festa di Ognissanti. Io ho seguito la ricetta tipica trovata in rete, sostituendo i pinoli con delle noci che avevo in casa. Per venire un poco più incontro al gusto attuale ho leggermente aumentato la quantità di zucchero nell’impasto e l’ho completato con dello zucchero a velo in superficie e un bicchierino di grappa nell’impasto.
Le dosi sono sufficienti per una teglia rotonda da 24 cm di diametro.
La ricetta: Bustrengolo umbro
175 g di farina di mais
80 gr di zucchero (50 nella ricetta originale)
50 gr di noci
50 g di uva sultanina
1 bicchierino di grappa***
2 cucchiai di olio d’oliva extravergine
1 pizzico di sale
1 mela
 
zucchero a velo per la superficie
 
Ho portato ad ebollizione 600 g di acqua con la punta di un cucchiaino di sale.
Ho intanto pesato lo zucchero e messo in ammollo l’uva passa nel bicchierino di grappa, sminuzzato le noci e sbucciato e tagliato a fettine la mela, spruzzandola con qualche goccia di limone.
Quando l’acqua bolliva ho versato a pioggia la farina di mais mescolando ed aggiungendo subito due cucchiai d’olio. Ho mescolato la polenta per circa un quarto d’ora, poi ho aggiunto l’uvetta con la grappa e le noci, lo zucchero  ed infine le fettine di mela, continuando a mescolare.
Ho unto di olio una teglia e vi ho messo il composto, schiacciandolo con il dorso di un cucchiaio.
Ho infornato a 180° per circa 35 minuti, poi cosparso di zucchero a velo e rimesso in forno ancora per 5 minuti.
Il bustrengolo si gusta freddo!***aggiornamento del 4 novembre: Loredana nei commenti mi suggerisce una ricetta in cui al posto della grappa ha trovato il Mistrà, liquore tipico marchigiano e laziale. Allora, siccome la zona di diffusione è esatta, ve lo segnalo perchè possiate fare un bustrengolo più vicino all’originale.

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