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Panipopo per la A di Apia, Samoa

L’Abbecedario Culinario è ripartito in versione Mondiale e anche quest’anno sono tra le ambasciatrici del progetto con immenso onore e con un pochino di vergogna, perchè lo scorso abbecedario (quello europeo) ho fatto molto meno di quello che avrei voluto che, ve lo devo dire, qui la costanza spesso vacilla!
Ma mi rimetto alla prova e il miglior modo per iniziare è quello di partire dalla A.
Mondo, arriviamo e la lettera A corrisponde ad Apia, la capitale di Samoa.

Ci troviamo in Oceania e dalla mappa potete comprendere quanto piccoline siano le due isole in questione. Occupano una superficie di poco meno di 3000 km quadrati, un decimo della superficie italiana.

 

Però sono 3000 km quadrati di paradiso terrestre. Il primo contatto con gli europei si ebbe sono all’inizio del XVIII secolo, ed erano contatti molto sporadici con viaggiatori e scopritori per mare, mentre i primi missionari giunti sulle isole per abitarvi stabilmente comparvero intorno al 1830.

Il clima ci fa invidia in questi primi giorni freschi, perchè le temperature non scendono, in inverno sotto i 20 gradi. In estate, in ogni caso, io preferisco rimanere ai climi europei, visto che a Samoa le temperature oscillano tra i 40 e i 48 gradi con quasi 8000 mm di pioggia durante la stagione dei monsoni.
Per il resto immaginate un paesaggio insolito e sorprendente,di origine vulcanica con una cima di 1858 m per il vulcano Mauga Silisili al centro dell’isola Savai’i.

Una curiosità: uno dei primi occidentali ad insediarsi stabilmente in Samoa fu Robert Louis Stevenson, con una produttività varia e smisurata in cui spiccano i romanzi “L’Isola del Tesoro”, “La Freccia Nera” e “Lo strano caso del Dr. Jekill e del Signor Hide”. Stevenson, da sempre di salute cagionevole, ed ispirato dai racconti esotici di Melville, accettò di trasferirsi nel sud del Pacifico con la famiglia per scrivere di quei luoghi. Toccò le Isole Marchesi, Tahiti e le Sandwich, Honolulu ed infine Upolu, a Samoa. Qui restò fino alla morte, nell’ammirazione della popolazione indigena che lo soprannominò Tusitala, narratore di storie.

Come prima ricetta di Samoa (ma cercherò di farne un’altra) vi propongo i panipopo, deliziosi panini “affogati” in uno sciroppo di latte di cocco, ingrediente onnipresente in quasi tutta la cucina samoana.
Il popo in questione è proprio il nostro cocco.
Purtroppo un po’ di peripezie hanno accompagnato la nascita di questi panipopo, prima grossolani errori miei, poi un tempo e una luce davvero poco adatta a fotografarli.
Alla fine eccoli qui, seppure un po’ sgranati, con alcuni suggerimenti rispetto alla ricetta tradizionale:
– ho impastato a mano; se impastate con una planetaria la quantità d’acqua va bene, altrimenti meglio ridurla leggermente;
– io ho usato zucchero di canna;
– anche se lo sciroppo di cocco vi sembra tanto, versatelo tutto e vedrete che i panipopo lo assorbiranno;
– usate una teglia che non sia a cerniera, altrimenti tutto lo sciroppo colerà via, invece di ammorbidire il fondo dei panipopo.

La ricetta: Panipopos ricetta tratta da Samoa Food

1 pacchettino di lievito di birra disidratato
2/3 di cup di acqua tiepida (fino a 1 cup, se impastate con la planetaria)
1/2 di cup di zucchero di canna grezzo
1/2 cucchiaino di sale
1 uovo (piccolo)
2 cucchiai di olio vegetale (per me arachidi)
circa 3 cup di farina tipo 0 (o un po’ di più, ma senza “asciugare” troppo l’impasto)

per la salsa di cocco:
200 ml di latte di cocco
200 ml di acqua

100 g di zucchero grezzo di canna
Sciogliere il lievito nell’acqua tiepida e aspettare 10 minuti che cominci a fare delle bollicine.
Da parte mescolare tutti gli ingredienti secchi: farina, sale e zucchero.
Aggiungere l’acqua e lievito e poi di seguito l’olio vegetale: formare un impasto aiutandosi con una forchetta. Aggiungere anche l’uovo sbattuto leggermente. Aggiungere ancora qualche cucchiaio di farina per far prendere corpo all’impasto che deve comunque restare molto morbido.

Far riposare per 10 minuti, poi coprire con pellicola e riporre in un posto caldo fino al raddoppio.
Sgonfiare l’impasto e poi procedere o formando delle palline, oppure, come ho fatto io, formare i panipopo come girelle: stenderlo in un rettangolo, aiutandosi con un po’ di farina, arrotolarlo su stesso e tagliare questo rotolo in 14 fette.

Mettere le fette di impasto in due teglie del diametro di 20-21 cm, coprire con pellicola e portare a raddoppio.
Preparare la salsa al cocco: diluire il latte di cocco con acqua e zucchero, facendo ben sciogliere quest’ultimo.
Quando i panipopo sono raddoppiati, scaldare il forno a 180° e, quando è caldo, cospargerli di salsa, abbondando. La salsa deve restare sul fondo della teglia, rendendoli umidi nella parte più bassa e verrà poi assorbita dai dolcetti in cottura e dopo.
Infornare per 20 minuti e poi lasciar intiepidire.
I panipopo si servono accompagnati da un po’ di salsa rimasta sul fondo della teglia.

 

Questa ricetta partecipa alla raccolta dell’Abbecedario Culinario Mondiale:

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Torta al miele e mandorle e l’inizio della “storia del miele”

Parliamo di miele. E non è mica cosa semplice… L’inchiostro in materia è davvero un mare, perchè il miele ha una storia lunga quanto il mondo.

Per chi sa che viene prodotto dalle api ma non ricorda bene il procedimento (come la sottoscritta, fino a ieri!) ecco cosa accade: le api esploratrici succhiano il nettare dal fiore e quando si sono ben riempite il pancino (in realtà la sacca mellifera è posta prima dello stomaco) tornano all’alveare e lo passano ad altre api. Per ogni bottino di miele il passaggio viene fatto altre 100 volte, di stomachino in stomachino, arricchendosi di enzimi preziosi che trasformano il nettare in miele. A questo punto il miele liquido, contentente oltre il 70% di acqua, e deposto nella celletta, viene asciugato dalle api con il movimento delle ali, come una sorta di phon naturale, che consente di arrivare al 18% di presenza di acqua. A questo punto il miele, che grazie al suo contenuto zuccherino si può conservare per anni, viene sigillato dentro la celletta con la cera.
Le api da cui proviene il miele italiano sono in massima parte della specie mellifica ligustica che, oltre ad avere un buon carattere, produce anche un’elevata quantità di miele in eccesso, rispetto al fabbisogno di sostentamento dell’alveare. Per questa ragione il miele in più può essere prelavato dall’apicoltore e trasformato.

Tralasciando la parte puramente biologica, e correndo per un milione di anni indietro nel tempo, il miele, ben prima di tornare “di moda” per le sue tante proprietà salutistiche era l’unico ingrediente in grado di dolcificare i cibi, ben prima della scoperta dello zucchero, almeno in questa parte del mondo. 
Giusto per dare qualche parametro sullo zucchero: esso era già conosciuto in Polinesia dal XIII secolo a.C., e dal VI secolo a.C, diffuso anche nella Persia di Re Dario. La diffusione, invece, la si deve agli arabi, sempre grandi commercianti dall’Oriente all’Occidente, che lo conoscevano già dal VI secolo a.C. e incominciarono a farlo viaggiare, insieme alla canna da zucchero, dal VII secolo d.C con la loro grande espansione verso l’Europa.
Ma torniamo al miele. La sua fortuna è ben più antica. 
Le api sociali avrebbero
un’età che va dai 20 ai 10 milioni di anni
, e permettetemi di
sorridere su questa approssimazione di soli 10 milioni di anni. L’uomo
è comparso solo 1 milione di anni fa e da subito cominciò ad
approfittare di questa dolcezza di natura: questa è una pittura rupestre trovata nella zona di Valencia, in Spagna, che rappresenta un raccoglitore di miele, con accanto il favo e le api in volo che sembra raccontare nei dettagli una tecnica di raccolta utilizzata ancora oggi in India.
La parola miele, melit, viene trovata per la prima volta su una tavoletta ittita; nel codice di Hammurabi erano previste pene severe per chi svuotava illecitamente un’arnia; e sulle iscrizioni geroglifiche egizie la letteratura in materia diventa una mole interessante, con prove “dipinte” del fatto che era già diffusa l’apicoltura. E quando Ra, il dio Sole, piangeva d’amore, queste erano lacrime di miele.
Per i Greci il miele era il cibo degli Dei, l’Ambrosia, ma soprattutto il nutrimento che permise la sopravvivenza del primo e più importante dei loro dèi, Zeus, quando era minacciato dal padre Kronos, tristemente conosciuto per l’abitudine a cibarsi della propria prole. Le leggende in merito sono tante, un vero e proprio intreccio di storie, dove ninfe, figlie di re e animali mitologici intrecciano le loro vincende; alla fine il succo è questo: la capra Amalthea, o una ninfa con questo nome e la ninfa Melissa, poi trasformata in ape, nutrirono il piccolo Zeus con latte e miele.
E una torta con yogurt greco, panna, miele e mandorle è il migliore accompagnamento a questo groviglio di storie.
La ricetta: Torta al miele e mandorle (da una ricetta “Duchy Originals”, rivisitata da me)
175 g di farina di grano tenero
200 g di mandorle tritate finemente
100 g di miele (per me MielBio Rigoni d’Asiago -Tiglio)
100 g di zucchero di canna
150 g di yogurt greco
50 g di panna fresca
1 uovo
2 cucchiaini di lievito per torte 
1 manciata di mandorle a lamelle
Imburrare e infarinare la teglia (21-22 cm di diametro).
Accendere il forno a 160°.
Mescolare con una frusta zucchero, yogurt, panna, miele e tuorlo del’uovo.
Montare a neve l’albume.
Aggiungere poi al composto la farina, con il lievito in polvere e le mandorle tritate, mescolando bene.
In ultimo incorporare con cura l’albume montato a neve.
Trasferire nella teglia ed infornare per circa 40 minuti. (con prova stecchino e senza far scurire troppo la superficie).
Spennellare la superficie della torta con 1 cucchiaio di miele allungato con acqua e distribuire le lamelle di mandorla.

Io l’ho accompagnata con yogurt greco al naturale e mirtilli…ma era ancora settembre…naturalmente si presta a qualsiasi frutto di stagione

[fonti: 
http://www.mieliditalia.it/index.php/mieli-e-prodotti-delle-api/miele/80136-il-miele-attraverso-i-secoli
http://www.placidasignora.com/2012/11/18/le-lacrime-di-ra-storie-proverbi-e-curiosita-sul-miele/
http://bifrost.it/ELLENI/2.Teogonia/06-Nascita_di_Zeus.html]

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Gli appuntamenti di Ortinfestival: ce n’è per tutti i gusti.

Come anticipato qui, volevo raccontarvi qualcosa sui tanti appuntamenti di Ortinfestival alla Venaria Reale dal 30 maggio al 2 giugno, per invogliarvi a partecipare.
 
 
 
Il Potager in cui la manifestazione/esposizione si articola è una maglia quadrata di spazi tenuti a verde e completati con una collezione frutticola, orti, cereali, prato e fioriture, divertissement d’acqua e gallerie verdi. 
Immaginate in questo spazio una composizione regolare e studiata di:
varietà antiche di alcuni ortaggi, accanto al paniere dei prodotti agricoli tipici del Piemonte;
piante aromatiche, da quelle alpine, alla macchia mediterranea e quelle più esotiche; 
fiori eduli, dall’Italia e da altre latitudini, accanto a più di 50 nuove specie vegetali dal mondo che si sono adattate con grande successo ai nostri climi;
erbe spontanee, negli ultimi anni quasi dimenticate, che oggi riaffiorano nell’uso in cucina e cosmesi.
 
Per i pollici neri, però curiosi come me, ci saranno affascinanti visite guidate attraverso gli orti per imparare a riconoscere le diverse specie vegetali.
Per i pollici verdi, invece, ci saranno veri e propri workshop di orto, per costruirlo da sé, in vaso o nei cassonetti. 
Per i pollici neri che aspirano a diventare pollici verdi ci saranno basici corsi di alfabetizzazione orticola.
 
Come in ogni manifestazione che si rispetti non mancherà l’area dedicata ai piaceri del palato: si andrà dalla cucina d’autore di chef talentuosi e stellati, al BistrOrt, con cucina semplice del mercato e di stagione, ai Pop-up Kiosk, dove verrà servito al volo street-food in chiave “orticola“.
Sarà allestita un’area pic-nic, la iPlaid zone, per i dejeuner sur l’herbe o le merende sinoire, come vogliate chiamarle…
Infine non mancheranno gli showcooking e le cooking classes, con blogger, chef e autori gastronomici.
 
Nella filosofia green, i materiali di recupero verranno utilizzati per allestire orti verticali, sui tetti, sui terrazzi o sui davanzali urbani.
 
La Blogger-area sarà allestita con le tende eco-chic di Ferrino e per alcuni vi sarà la possibilità di pernottare all’interno dei giardini della reggia.
 
Infine l’area shopping riguarderà diverse categorie, dal verde (piante, tuberi, sementi), al food, al design e arredamento, al wellness e verranno presentati diversi Gruppi di Acquisto Solidale operanti sul territorio.
 
A completare il tutto ci saranno le performance degli artisti di strada e la presenza del partner d’eccezione di quest’anno, il Peru, che presenterà il rito andino della Pachamama, la Madre Terra, un tempo venerata dagli Inca e oggi da molte popolazioni autoctone del centro e sud America.
 
Vi saluto e vi dò appuntamento ad Ortinfestival con la mia semplicissima ricetta di dolce con le fragole. Mentre scrivo penso a molte amiche blogger che sicuramente saranno attratte da questo calendario così ricco ed allettante. La manifestazione aprirà alle ore 16,00 del 30 maggio e si concluderà il 2 giugno; per altre informazioni cliccate qui!
 
 
 
La ricetta: Pudding di fragole al profumo di lime

 

150 g di fette di pane integrale (il mio ai cereali preparato con Multicereali QB Molino Grassi)
20 g di burro
200 g di fragole mature
200 ml di latte intero
2 cucchiai di miele
1 uovo grande
1 cucchiaio di zucchero di canna + un po’
la buccia di un lime
 
Tagliare il pane a fette e poi a rettangolini. Lavare le fragole e tagliarle a pezzettini.
Far sciogliere il burro e spennellarlo sulle fette di pane.
In una pirofila disporre uno strato di pane e poi uno strato di fragole e continuare fino ad esaurimento degli ingredienti.
Scaldare il latte con il miele e la buccia gratugiata di un lime. Montare l’uovo con il cucchiaio di zucchero, poi miscelare questo composto con il latte e miele intiepidito.
Versare il tutto sulle fette di pane e fragole e lasciare assorbire, per circa 10 minuti, mentre il forno si scalda.
Infornare poi a 180°C fino a doratura delle fette di pane in superficie. Consumare tipiedo o freddo.
 
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6 settembre 2017
Ho provato una nuova versione di questo pudding: ho utilizzato 7 fette di plumcake all’uva passa, tagliate ancora a metà e disposte su una teglia rotonda di 20 cm di diametro. Ho sbattuto con 50 g di zucchero 2 albumi e 1 uovo intero, con la buccia di mezzo limone bio. Alle uova ho aggiunto 300 ml di latte di soia tiepido. Poi ho irrorato il pane all’uvetta con questo composto, disposto delle fragole surgelate sul tutto e fatto riposare per 10 minuti e poi infornato a 180°C per 30 minuti.
 
Eccolo qui:
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Trancetto di Apple Cake a modo mio, gluten e lactose free: un esperimento!

Che la Bolzano Apple Cake sia da qualche mese a questa parte la mia torta di mele preferita è un dato di fatto…
Che ci tenessi a partecipare al contest di Andante con gusto è un altro:
ho visto talmente tante proposte “senza” golose e gustose che non
cimentarmi sarebbe stato davvero un peccato.
E quindi arrivo con l’accelerato delle 20,50 per mandare anch’io una proposta.
Ho reinventato la Bolzano Apple Cake, la
celebre torta dello chef Scott Carsberg, tutta burro e felicità,
rendendola una gioia anche per chi è intollerante al lattosio, usando la
crema di cocco. Ho sostituito la farina di grano tenero con grano
saraceno e maizena per farla gustare anche ai celiaci.
Lo chef dice che questa torta si presenta come un muro di mele e in
effetti è così: tanti strati sottilissimi di mela, resi omogei da una
malta di torta, che però non sovrasta assolutamente il sapore dolce
acidulo delle mele verdi. Nella versione originale è la migliore torta
di mele che io abbia mai preparato. In questa versione “senza” è forse
ancora più buona e saporita.
Alcune note “tecniche” sono essenziali:
– l’acqua di cocco è il liquido biancastro contenuto nelle noci di cocco giovani;
– il latte di cocco è prodotto da polpa di cocco (fresca o essiccata) e acqua calda;
– la crema di cocco è prodotta con meno acqua, rispetto al latte di
cocco e quindi più densa ed è la parte che nelle lattine acquistabili
nei supermercati meglio forniti o nei negozi di alimentari orientali,
resta in superficie.
Il latte e la crema di cocco si possono
prepararare anche a casa, a partire dal cocco fresco o dal cocco
disidratato che è facilmente reperibile: bisogna coprire 100 g di cocco
essiccato (oppure 200 g di fresco, grattugiato) con 1/2 litro di acqua
calda, lasciarlo riposare e poi filtrare il tutto, per ottenere il
latte. Con meno acqua si dovrebbe ottenere la crema. Io questa volta ho
utilizzato una lattina di latte di cocco acquistata al Lidl, ma proverò
anche a fare l’esperimento dell’autoproduzione!
Il latte di cocco non contiene lattosio;
contiene invece acido laurico, contenuto anche nel latte materno, che ha
numerose proprietà per lo sviluppo del cervello e la salute delle ossa.
I grassi saturi del latte di cocco sono facilmente metabolizzati dal
nostro organismo e per questa ragione è facilmente digeribile.
Visto che è cambiato il tipo di farina,
l’aroma principale e la parte grassa utilizzata, ho battezzato questa
torta con il mio nome…me lo merito, no? 😀
 
La ricetta:

Apple Cake gluten free e lactose free

(per una teglia rettangolare 20x18cm)
2 mele verdi Granny Smith grandi (o 3 piccole)
120 g di zucchero di canna
1 tuorlo e 1 uovo grande
la buccia grattugiata di 1 limone
170 g di crema e latte di cocco (prendere la parte più solida della lattina ed aggiungere, se occorre un po’ di latte di cocco)
40 g di farina di grano saraceno
20 g di maizena
olio vegetale per spennellare la teglia

Mescolare le due farine e metterle da parte.
Sbucciare le mele ed affettarle a 1 mm di spessore con la mandolina. Se
non l’avete, utilizzate un pelapatate, devono essere molto sottili.
Irrorarle con il succo di limone per non farle annerire.
Montare l’uovo e il tuorlo con lo zucchero. Aggiungere la buccia di limone e il latte e crema di cocco, mescolando con cura.
Aggiungere le farine setacciate, mescolando per non formare grumi.
Aggiungere infine le mele, rigirandole nell’impasto per farlo aderire su tutti i lati.
Spennellare la teglia rettangolare con l’olio vegetale e mettervi dentro l’impasto.
Infornare subito, in forno già caldo a 180° e e far cuocere finchè la superficie non è ben dorata.
Lasciare raffreddare nella teglia. La
torta di staccherà da sola dal fondo. Tagliare a trancetti rettangolari,
spolverando di zucchero a velo o zucchero di canna. Si può mangiare
fredda, oppure leggermente intiepidita.

Con questa ricetta partecipo al contest È senza? È buono! di Patty “Andante con Gusto” e “Cose dell’altro pane” nella categoria prodotti da colazione.

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Torta di semola con polpa di pera e cardamomo Profumata, umida e golosa

Arriva ancora una ricetta per #Mangiare Matera, proprio poco prima della scadenza.
Mangiare Matera – Vero Lucano è nata per esprimere con i suoi prodotti la vera essenza di un territorio: dopo l’assaggio di ciò che è giunto fin qui, direi che ci sono proprio riusciti! Il pane, innanzitutto, che da semplice accompagnamento diventa ingrediente per mille altri utilizzi…e poi la pasta ruvida-ruvida-ruvida…e ancora le semole dal buon profumo che mi hanno affascinato tanto che, anche a contest terminato, arriveranno di sicuro altri utilizzi.
Ho concluso in dolcezza, con una torta rustica semplice e aromatica con il cardamomo che in infusione, durante la cottura delle pere, rilascia un profumo delicato. 
P { margin-bottom: 0.21cm; }L’interno del dolce resta umido e fragrante per diversi giorni, senza seccare, grazie alla polpa di pera inserita proprio nell’impasto.È una torta perfetta per accompagnare il té, soprattutto un té nero speziato, ma è resa fresca dalla salsa di pere che l’accompagna e può essere gustata anche da sola.

 
 

La ricetta: Torta di semola con polpa di pera e cardamomo
2 uova intere
280 g di purea di pere
110 g zucchero
40 g di burro
1 cucchiaino di lievito per dolci
 
per la purea di pere:
5 pere grosse
5 bacche di cardamomo
1 bicchierino di grappa
2 cucchiai di zucchero
1 bicchiere d’acqua
 
per rifinire:
zucchero a velo
cannella
 
Per prima cosa ho preparato la purea di pere. Ho messo le pere lavate, sbucciate e tagliate a pezzetti in un pentolino con l’acqua, la grappa, lo zucchero e i semi di cardamomo. Ho fatto cuocere finchè la pera non era morbidissima. Ho scolato dall’acqua in eccesso ed ho frullato il tutto; poi ho passato al setaccio, per ottenere una crema perfettamente liscia. Una parte di questa purea servirà per la preparazione della torta, la restante per accompagnamento.
 
Per la torta: ho lavorato le uova intere con lo zucchero, ho aggiunto poi il burro sciolto e intiepidito, 280 g di purea di pere e gradualmente la farina di semola rimacinata ed infine il lievito setacciato. 
Ho imburrato una teglia del diametro di 22 cm e vi ho versato l’impasto.
Ho infornato a 180°C per 35 minuti.
In superficie ho spolverato di zucchero a velo con una punta di cucchiaino di cannella.
 
Al momento di servire ho accompagnato la fetta con un cucchiaio abbondante di fresca purea di pere al cardamomo. 
 
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Galette des Rois per l’Epifania Il dolce parigino dell'Epifania per eccellenza

Oggi non poteva mancare un dolce, per di più dal momento che l’Epifania è l’unica occasione dell’anno in cui questa prelibatezza si dovrebbe gustare: la galette des Rois parisienne.

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Gerard Ter Borch – Donna che sbuccia le mele (e la torta di mele caramellata alla francese!)

Gerard Ter Borch – Donna che sbuccia le mele – 1650 circa
 
 
 
Gerard ter Borch nacque nel 1617 a Zwolle nei Paesi Bassi. Cominciò a disegnare all’età di 8 anni e fu allievo di suo padre Gerard detto il Vecchio.
 
Dal 1632, dopo un breve soggiorno ad Amsterdam dove fu incoraggiato da diversi artisti, entrò nello studio di  Pieter de Molyn, ad Harleem, dove rimase fino al 1635, e da cui acquisì il gusto per la semplicità della composizione.
 
Nel 1635 si mise in viaggio visitando prima Londra e successivamente la Germania, la Francia, la Spagna e l’Italia. Nel 1641 si hanno sue notizie a Roma dove dipinse il piccolo ritratto su supporto di rame Jan six and the young lady.
 
Dopo il 1648 venne invitato a Madrid presso Filippo IV, dove poté studiare lo stile di Velasquez, ma a causa di un intrigo di corte presto si vide costretto a tornare in Olanda.
 
Si sposò nel 1654 con una delle sue nipoti a Deventer, dove divenne il borgomastro e dove i notabili della città si disputarono l’onore di farsi fare un ritratto da lui.
 
Morì a Deventer nel 1681.
 
 
 
Ter Borch fu un eccellente ritrattista, ma ancor di più pittore di genere, dedicandosi principalmente a riprodurre scene di vita domestica e familiare. Riprodusse con uno stile estremamente fedele la gente del suo tempo, dando particolare evidenza all’espressività dei personaggi, senza alcuna traccia di leggerezza o grossolanità.
 
Egli raggiunse l’eccellenza nella riproduzione di tessuti e di drappeggi, del rilucere di un vaso d’argento o nel rendere la trasparenza di una coppa di cristallo o la texture di un tappeto. I suoi colori sono sempre vibranti ed è evidente l’armonia della luce.
 
 
 
 
 
[Fonti:
 
 
Kunsthistorisches Museum, in Musei del Mondo, collana diretta da Carlo Ludovico Ragghianti, Mondadori, pp. 142-143.]
 
 
 
Il dipinto, di data incerta, ma appartenente alla piena maturità dell’artista, rappresenta una scena di intimità domestica, dove una donna sbuccia delle mele davanti allo sguardo attento di quello che potrebbe essere il figlioletto.
 

Ter Borch non si sofferma su molti particolari, ma la sua trattazione è quasi impressionista ante litteram, vista la morbidezza del colore e della luce.

 
L’attenzione dell’osservatore si sofferma principalmente sul triangolo formato dagli sguardi della donna, verso le proprie mani e del bambino verso il volto della madre. Infatti ciò che mi colpisce è il fatto che il bimbo, vero centro geometrico dell’opera, non stia aspettando le mele, quanto piuttosto sia in attento ascolto di ciò che la madre gli sta raccontando. La luce evidenzia la gota del bimbo dandogli un’espressione di morbida tenerezza.

 

Gli altri oggetti nella stanza fanno da cornice alla scena principale. Le mele nel piatto di ceramica, rese con fedeltà ma senza cadere nella maniera, e sul tavolo una lunga buccia di mela; il candelabro d’argento, anch’esso luccicante sotto i raggi di luce; la tovaglia di velluto scuro.

 
 

Ter Borch dimostra la sua perizia anche nel rappresentare l’abito con bordi di pelliccia della donna. La stoffa manda bagliori dorati e le bordure chiare sono rese con tale maestria da sembrare a rilievo.

 

Ai piedi della donna un altro particolare narrativo: il cesto con la biancheria da ricamare o rammendare, con la grossa scatola del cucito, attende che tutte le mele siano state sbucciate.

 

 
 
 
 
 

La ricetta: Torta di mele caramellata alla francese

 
Ho trovato questa idea su un blog francese e subito mi è sembrata di una golosità straordinaria e quindi l’ho voluta riproporre modificando un po’ gli ingredienti.

 

 
 

 

 
 
 
 
In Francia hanno una cosa, chiamata sucre glace, che viene utilizzato per fare il caramello. Altro non è che zucchero a velo, addizionato di fecola, così che il caramello rapprenda.
 
Non avendo questo prodotto, ho utilizzato dello zucchero normale e dopo averlo fatto caramellare con l’acqua ho aggiunto la maizena per far inspessire lo sciroppo.
 
 
 
 
 
Per una tortiera di 23 cm di diametro occorrono:
 
 
 
Fondo della torta:
 
1 pasta sfoglia pronta
 
qualche cucchiaino di zucchero
 
 
 
Mele:
 
4 mele piccole
 
25 g di burro
 
qualche cucchiaio di zucchero di canna
 
 
 
Caramello:
 
200 g di zucchero
 
½ bicchiere d’acqua
 
2 cucchiaini colmi di maizena
 
½ bicchiere di latte intero (o panna, ma io non ce l’avevo)
 
30 g di burro
 
1 pizzico di sale
 
 
 
 
 
Fondo della torta:
 
Ho messo la sfoglia in una teglia, arrotolando un bel bordo e colmandola di fagioli e l’ho fatta cuocere a 180° per 20 minuti. Poi ho tolto i fagioli e spolverato di zucchero il fondo e rimesso in forno per qualche minuto ancora, per renderla croccante.
 
 
 
Caramello al latte:
 
In un pentolino ho fatto sciogliere lo zucchero con l’acqua a fuoco lento, aggiungendo dopo la maizena. Poi fuori dal fuoco, ho aggiunto il latte e il burro e mescolato ancora per un po’, aggiungendo anche un bel pizzico di sale.
 
 
 
Mele:
 
Le ho lavate, sbucciate, tagliate a fettine e irrorate di succo di limone. Poi le ho passate in padella con il loro succo e qualche cucchiaio di zucchero di canna e 25 g di burro. Quando le mele avevano perso un po’ del loro succo, le ho messe nel fondo della torta, prima preparato e ho irrorato con un po’ di caramello al latte.
 
Ho rimesso in forno il tutto per ancora 1o minuti e infine fatto caramellare per qualche minuto sotto il grill.
 
 
 
Per servire, versare nel piattino qualche cucchiaiata di caramello al latte, tiepido, con sopra la fetta di torta e (se li avete) qualche confetto sbriciolato (io ci ho messo pezzettini di mandorla e di cioccolato).

 
 
 
 
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