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ai fornelli, ricette originali

Maiale e mele con spezie e noci in una crosta graziosa

Per questa ricetta ho preso spunto qui, sul blog AmaraDolcezza della bravissima Giulia.
L’idea del pollo in ceramica bianca successivamente ricoperto dalla sfoglia mi è subito piaciuto tantissimo. L’unico problema era la mancanza delle cocottes in ceramica…
Mi sono quindi ingegnata in altro modo…
Ho pensato di fare interi gusci di sfoglia, riempiti e successivamente ricoperti dalla sfoglia stessa, e in mio aiuto sono arrivati degli stampini in silicone per muffin di cui sono totalmente entusiasta. Li ho già utilizzati diverse volte, sia come contenitori per monoporzioni di verdure al forno, sia per i classici muffin,sia per queste tortine salate di sfoglia.

Le torte di sfoglia ripiene dei più svariati ingredienti sono una preparazione molto antica. Abbozzate, ma mai valorizzate, in epoca romana, ebbero una vera esplosione nel Medioevo e indovinate un po’ da quale paese si diffusero in tutta Europa… dall’Italia, naturalmente, che in fatto di cucina ne sapeva già un bel po’. Le torte compaiono nel menù degli eremiti di Camaldoli già dal XII secolo e nel XIV sono dentro ai ricettari più diffusi. E se inizialmente sono torte di verdura in seguito diventano anche torte di carne e di formaggio e  con la cucina rinascimentale anche l’involucro, che prima era semplicemente come un pentolino, diventa commestibile.
Anche la mia ricetta ha un qualcosina di antico, frutta e carne, come Giulia, ma cambia il tipo di carne e ci sono le spezie…

La ricetta: Pie al maiale e mele con noci e spezie
Ingredienti: (con una sfoglia vengono 3 pies, quindi anche il ripieno è calcolato per 3 porzioni)
per l’involucro:
1 pasta sfoglia pronta
semini di papavero
per il ripieno:
250 g di carne di maiale magra (ho usato della lonza)
1 mela golden grande
cipolla (tagliata a pezzettini fini fini, ne avrò usata un cucchiaio circa)
1 cucchiaino di cannella
1 cucchiaino di zenzero in polvere
1 spruzzata di pepe
i gherigli di tre noci a pezzettini non troppo piccoli
vino bianco
sale
olio

Ho tagliato la carne di maiale a cubetti di 1,5cm di lato (più o meno) e l’ho bagnata con mezzo bicchiere di vino bianco.
Ho sbucciato la mela e tagliato a cubetti anche questa.
In una padella ho versato due cucchiai d’olio e ho fatto rosolare la cipolla e la mela per qualche minuto. Poi ho aggiunto il maiale, scolato, e dopo qualche minuto il suo vino bianco. Ho proseguito la cottura, facendo asciugare un pochino e nel frattempo ho aggiustato di sale, pepe e spezie e aggiunto le noci spezzettate. Tagliato a cubetti così piccoli, il maiale cuoce in un attimo.
Poi ho spento e lasciato in caldo, mentre preparavo i gusci di sfoglia.
Ho acceso il forno a 180°.

Nella sfoglia già distesa ho ritagliato tre cerchi del diametro di 12 cm. Poi con i ritagli, rimpastati e ridistesi ho preparato i coperchi.
In ogni stampino da muffin ho messo un cerchio, un terzo del maiale e mele e ricoperto con il cerchio più piccolo, saldando bene i bordi. Poi ho  bucherellato con uno stecchino da spiedini.
Quando erano pronti i tre pies, li ho infornati, giusto il tempo di far cuocere e dorare la sfoglia, circa 20 minuti.
A dieci minuti dalla fine della cottura ho aggiunto in forno anche una teglietta di cuoricini, tagliati con uno stampino da biscotti e decorati con i semini di papavero. (Ma andrebbe bene anche della paprika dolce o qualcos’altro che faccia colore).

Una volta sfornati, ho messo un pie in ogni piattino, e decorato con i cuoricini! <3 <3 <3
Se trovate la cosa un po’ sdolcinata…fate delle stelline, ecco! 😀

Con questa ricetta vorrei partecipare nella categoria “salati” al contest “Capolavori da Gustare” di Fujiko del blog “La ricetta della felicità” in collaborazione con ConGusto, scuola di cucina.

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Rombi al thè verde e vaniglia

Questi sono biscotti che prima o poi fanno tutti…ciò che attira è il fatto di mescolare all’impasto le foglioline di thé, che attribuiscono un grazioso colore verdolino ai dolcini.
Io ho confrontato una buona serie di ricette presenti in rete e ne ho ricavato una mia, decidendo poi di usare un thé verde alla vaniglia che ha riempito la casa di un profumo inebriante.
La ricetta: Rombi al thè verde e vaniglia
Ingredienti:
50 g di farina
50 g di maizena
60 g di burro
60 g di zucchero di canna (il mio non era molto scuro, ma con quello scurissimo e sottile credo che si ottenga un risultato ancor migliore e più rustico!)
1 tuorlo (di un uovo grande)
1 cucchiaino di latte
1 bustina e 1/2 di thè verde aromatizzato alla vaniglia
Preparazione:
Ho tagliato il burro a pezzettini e poi l’ho lavorato a lungo con lo zucchero e il thé verde, fino a ridurlo a crema.
Ho aggiunto maizena e farina, man mano mescolando. Poi ho aggiunto il tuorlo sbattuto con un pizzizco di sale e un cucchiaino di latte.
Ho lasciato riposare l’impasto per un’ora in frigo.
Trascorso questo tempo ho acceso il forno, facendolo scaldare a 170°.
Ho steso la pasta con il mattarello, ritagliando i biscotti con il coltello, nella semplice forma di rombo.
Ho infornato finchè i bordi non si doravano, nel mio caso circa 12-14 minuti.
Con questa ricetta partecipo alla raccolta “Piccola pasticceria: i biscotti“di Ann del blog B per Biscotto. La raccolta scade il 31 ottobre, ho tempo per pubblicare anche qualche altra ricettina per la raccolta!!! 😀
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Torta di savoiardi alla ricotta e pesche al Porto con crema diplomatica e lamponi

C’è da dire che è più lungo leggere il titolo che divorarne una fetta!!! 😀
Si tratta di una torta che ho preparato qualche tempo fa, all’inizio dell’estate e che volevo pubblicare prima della fine della stagione delle pesche!!
Non ho voluto chiamarla Charlotte, anche se alla fine la forma è quella lì, perchè non ho preparato io il biscotto Charlotte che dovrebbe dare il nome alla torta, ma ho usato dei savoiardi già pronti.
Per il ripieno mi sono inventata qualcosa…la volevo bella alta, che ne valesse la pena, insomma!!!
E allora ho fatto uno strato alla ricotta e zucchero, aggiungendo semplicemente delle pesche tagliate a dadini e passate velocemente in uno sciroppo di zucchero e Porto.
Il secondo strato è invece composto da una classica crema diplomatica, poco dolce, sovrastata infine da un cuscino di lamponi freschi.

La ricetta: Torta di savoiardi alla ricotta e pesche al Porto con crema diplomatica e lamponi
1° step: la crema diplomatica
questa crema è composta da crema pasticcera e crema chantilly mischiate insieme in dosi di circa 2 parti di pasticcera e 1 parte di chantilly
Per la crema pasticcera ho usato:
3 tuorli
250ml di latte
1 baccello di vaniglia
25 g di farina
85 g di zucchero
Per la crema chantilly ho usato:
125 ml di panna da montare (ben fredda di frigo)
2 cucchiai di zucchero semolato (ripassato nel frullatore per renderlo più fine) assaggiando, a seconda di quanto volete dolce il risulato finale.
Ho messo a scaldare il latte in un pentolino con il baccello di vaniglia, senza farlo bollire.
Intanto ho montato i tuorli con lo zucchero, formando una massa spumosa. Poi ho aggiunto circa 1/3 del latte intiepidito, a filo, continuando a montare. Ho poi aggiunto la farina con un setaccio, a poco a poco, continuando a miscolare con le fruste.
Ho travasato il tutto nel pentolino e l’ho messo sul fuoco, fino a farlo sobbollire, sempre mescolando. a un certo punto la crema comincerà a raddensarsi, a quel punto ho mescolato ancora per poco e poi ho tolto dal fuoco e messo a raffreddare in un piatto largo.
A parte ho preparato la chantilly, montando la panna, circa circa 125 ml con lo zucchero, finchè non era ben soda, poi l’ho messa in frigo.
2° step: crema alla ricotta con pesche + bagna
250 g di ricotta
2 cucchiai di zucchero e 2 cucchiai di miele
1 cucchiaio di maizena
3 pesche sode lavate, sbucciate e tagliate a pezzettini di 1 cm di lato.
1 bicchierino di vino Porto
1 cucchiaio di zucchero per le pesche.
Ho messo le pesche a pezzettini in un padellino con lo zucchero; quando lo zucchero era caramellato ho aggiunto il Porto, lasciando sfumare.
Da parte ho lavorato la ricotta con zucchero, miele e maizena, finchè non è diventata ben liscia.
Poi ho aggiunto le pesche, dopo averle fatte intiepidire, avendo cura di conservare il sughetto di cottura.
Con il sughetto delle pesche ho preparato la bagna per ammorbidire i savoiardi. ho aggiunto qualche cucchiaio d’acqua e ancora un po’ di Porto e ho bne mischiato il tutto.
3°step: montaggio della torta (servono circa 200 g di savoiardi)
Ho utilizzato un ciotolone quadrato di vetro.
Ho tagliato una punta ai savoiardi in modo che sporgessero poco dal bordo della ciotola. 
Ho steso sul fondo uno strato di savoiardi e li ho ben spruzzati con la bagna al Porto.
Ho poi disposto sul bordo i savoiardi in piedi senza alcuna bagna, perchè restassero bene sodi.
Completato il perimetro del contenitore ho versato la prima crema, quella alla ricotta in uno strato ben uniforme.
Ho fatto un altro strato di savoiardi  imbevuti di bagna, riciclando anche le punte precedentemente tagliate.
Ho mischiato delicatamente la crema pasticcera con la chantilly e ho messo all’interno della corona di savoiardi questa seconda farcitura. In cima l’ho decorata incidendo delle righe con una forchetta.
Ho messo il tutto in freezer, per una notte.
Il mattino seguente ho preso la torta dal freezer, ho aggiunto una corona di panna montata sul bordo, e una vaschetta di lamponi, lavati delicatamente ed asciugati, nel centro.
Ho messo in frigo fino al momento di servire, spolverando poi con un tocco di zucchero a velo.

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Pesche grigliate e Asiago: l’accoppiata frutta e formaggio colpisce ancora

La pesca è stata considerata nei secoli un frutto da nobili. Come la pera, facilmente deperibile, quando non c’era la tecnologia del freddo, andava colta e consumata, ovviamente sulle tavole più raffinate, e non poteva entrare a far parte della dispensa se non in rari casi, sciroppata. Non che i ceti bassi non conoscessero la bontà di questo frutto.
Esiste infatti una novella dell’umanista quattrocentesco Sabadino degli Arienti che narra di un nobile e di un popolano contrapposti nella conquista delle pesche migliori. 
Il nobile, Messer Lippo Ghisilieri, aveva un giardino splendido e famoso, come allora si usava, ricco di ogni specie di erbe pregiate e frutti deliziosi. Fra questi c’erano anche alcuni alberi di pesco, carichi di frutti.
Quasi ogni notte il contadino Zuco Padella si creava un varco nella siepe che proteggeva tutto l’orto d’intorno e, raggiunti gli alberi di pesco, si portava via un bel po’ di frutti.
Il furto ripetuto e sfacciato mise in allarme Messer Lippo. Non si trattava di un furto occasionale, dettato dalla fame, ma di una vera sfida all’equilibrio di classe.
Messer Lippo per smascherare il ladro fa disseminare il terreno tutt’intorno agli alberi di trappole con chiodi rivolti all’insù.
La notte seguente Zuco Padella torna nel giardino e si punge l’alluce con uno di quei chiodi. Per nulla scoraggiato architetta una sorta di trampoli, con al fondo dei ferri da cavallo, in modo da lasciare sul terreno impronte d’asino e nel contempo non ferirsi e la notte seguente ritorna a rubare le pesche di Lippo.
Messer Lippo a questo punto pensa che sia davvero un asino a rubare i suoi frutti. Li fa cogliere tutti tranne quelli di un albero e intorno a questo fa scavare un fossato profondo, come una trappola per lupi, e si mette personalmente di guardia.
Zuco Padella si fa aspettare per tre notti ma, alla fine torna nel giardino sui suoi trampoli. Raggiunge l’unico albero carico di frutta e… cade nel fossato.

Messer Lippo, che non era un nobiluomo nel senso più profondo del termine, fa gettare nel fosso dell’acqua bollente e, mentre Zuco Padella chiede pietà, lo fa tirare su e lo rimprovera per essersi avvicinato a un frutto da nobili: «Bene, bene! È stata una caccia fruttuosa: volevo prendere un lupo e invece ho preso l’asino che mi mangiava le pesche.
Villano e ladrone che non sei altro! Credevi di gabbare Lippo e invece lui ti ha fottuto, che ti vengano mille cacasangui!  
Un’altra volta lascia stare la mia frutta e mangiati la tua, cioè rape, agli, porri, cipolle e scalogni con pan di sorgo!»
Proprio questa frase ci fa capire che la gelosia di Messer Lippo nei confronti delle proprie pesche sia di ragione morale: nessun villano si deve avvicinare ad un frutto da nobili!!!
Con le ultime pesche della stagione ho preparato un antipasto leggerissimo dal gusto delicato e dolce. 

La ricetta: Pesche grigliate con Asiago, miele e aceto balsamico.
ingredienti per 2/3 persone.
2 pesche mature ma sode, (sono ideali le percoche che non tirano fuori troppa acqua)
alcune fette di Asiago pressato dop, a stagionatura media, spesse 0,5 cm
tre cucchiai di miele
1 cucchiaino di aceto balsamico
semini di sesamo
sale rosa dell’himalaya (ma va bene anche qualche granello di sale grosso marino)
Ho preparato una salsina per far da base al piatto, mescolando il miele con l’aceto balsamico e mescolandolo con qualche goccino di acqua calda. Deve divenire molto fluida, quasi liquida.
Ho tagliato a fette le pesche, già lavate e sbucciate, e le ho disposte su una bistecchiera ricoperta di carta da forno.
Mentre le pesche grigliavano le ho man mano girate per farle dorare dall’altro lato.
Sui piatti ho messo la salsa preparata in precedenza. Poi vi ho disposto ordinatamente le fettine di Asiago.
Sul formaggio ho distributo le pesche ben calde, in modo che lo ammorbidissero e ho completato il tutto con qualche mini pezzettino di asiago, un altro filo di miele, dei semini di sesamo e qualche granello di sale rosa che si scioglierà quasi all’istante.
Sono perfette accompagnate da pane tostato di segale o ai cereali.

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Torta al cacao farcita di crema al lampone, dedicata a te!

Come molti di coloro che mi leggono sanno, domenica scorsa è stato il compleanno di una persona per me molto speciale…
Ci tenevo proprio a fargli una Supertorta e perciò quando il frutto del mio lavoro è rimasto appiccicato, come cemento a presa rapida, al fondo della tortiera che avevo imburrato per benino (non così benino, a quanto pare…) sono rimasta proprio male!!!
Tant’è!!!
Dopo una breve crisi isterica di circa 3 minuti e conseguente fase depressiva, sono andata a ricomprare gli ingredienti che mi servivano, accompagnata dalla SPS (suddetta persona speciale), perchè mi trovavo in luogo a me semi-ignoto…
Insomma, dopo essermi di nuovo rimboccata le maniche – e nel mezzo della preparazione di un pasto decente, caldo e tradizionale a 5 stanchi figuri che rientravano dalle vacanze, ho tirato fuori questa tortina qui:
Avevo pensato a lungo ai sapori che mi sembrano più adatti ad esprimere il mio sentimento… passione del caldo cacao e tenerezza del fresco lampone!
Inutile dire che l’abbinamento è stato uno spettacolo!!!
Ancora Auguri, Amore Mio!!!
La ricetta: Torta al cacao farcita di crema al lampone
Per la base da farcire:
25 g maizena
25 g farina
60 g zucchero
2 uova
1 cucchiaino di lievito per dolci
3 cucchiai colmi di cacao in polvere zuccherato
Ho ben montato i tuorli con lo zucchero finchè non sono diventati chiari.
Ho setacciato insieme farina, maizena, lievito e cacao e li ho aggiunti gradualmente ai tuorli amalgamando bene.
Il composto che si ottiene è molto denso.
Ho montato gli albumi a neve e li ho uniti all’impasto rendendolo di nuovo larabile, ma senza smontarli.
Infine ho trasferito il composto in una teglia di 24 cm di diametro (carta da forno, non rischiate con l’imburratura se non siete fiduciosi nella vostra teglia) e ho infornato a 170° per circa 35 minuti. La torta non deve sgonfiare al centro dopo la cottura, quindi regolatevi con il vostro forno; meglio tenere la temperatura leggermente più bassa e lasciare che la cottura duri un po’ di più!!!
Una volta che la torta era perfettamente fredda l’ho divisa a metà trasversalmente per farcirla.
Per la farcitura e la decorazione:
250 g di lamponi
125 g di mascarpone
100 ml di panna da montare
zucchero (mi sono regolata assaggiando e ho perso il conto dei cucchiai… :-/) 
due cucchiaini di zucchero a velo
Ho messo da parte metà dei lamponi per la decorazione finale. 
Ho scaldato in pentolino i restanti lamponi con un cucchiaio di zucchero e un cucchiaio di acqua. Si disfano subito, senza farli cuocere, schiacciarli con una forchetta e lasciar raffreddare.
Ho lavorato il mascarpone con qualche cucchiaio di zucchero, regolandomi man mano per la dolcezza.
Poi ho montato la panna e l’ho mischiata al mascarpone; infine ho aggiunto la poltiglia di lamponi. Non l’ho passata al setaccio, perchè i semini non risultavano fastidiosi.
Ho messo la crema così preparata in frigo perchè si amalgamassero tutti i gusti e diventasse ben soda.
Sulla metà della torta ho messo circa metà della crema, spalmando bene. Ho messo l’altro disco di torta e ho schiacciato leggermente perchè aderisse.
Sulla cima ho versato l’altra metà della crema , più abbondante verso il bordoo esterno e più bassa al centro, riempendo poi il centro con i lamponi che avevo messo da parte.
Infine ho spolverato i lamponi con lo zucchero a velo.
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Cioccolato + Albicocca = Torta AlbiCioccola

Per i romani era la mela armena, perchè in Armenia venne scoperta da Alessandro Magno. Ma le origini dell’albicocca sono geograficamente più lontane, nella Cina Settentrionale, al confine con la Russia e risalenti a 2000 anni prima di Cristo.
Nel suo nome è nascosto il significato di primizia: praecocum la chiamavano i latini, letteralmente “precoce”. Ed è come primizia che va consumata quando è matura e succosa ma non molliccia, perchè l’albicocca troppo matura diventa pastosa. 
Sulla bocca degli arabi diventa al-berquq e di qua alla nostrana albicocca il passo è breve.
Il periodo più adatto per consumare le albicocche è giugno-luglio ma io, ancora al 12 agosto avevo delle albicocche da salvare prima che facessero fagotto e migrassero sconsolate dal frigo, però non volevo farne marmellata e quindi ho pensato al modo più veloce per utilizzarle a pezzetti. Ne è uscita una ricetta-lampo, una specie di clafoutis, ma al cacao, quindi con una nota golosa in più.
Devo dire che è venuto benissimo, bello soffice, e che il sapore del cacao si sposa benissimo con l’asprigno dell’albicocca.
La ricetta: Torta AlbiCioccola 
Ingredienti:
6-7 albicocche grandi
3 uova
140 g di zucchero
100 g di farina
4 cucchiai di cacao zuccherato in polvere
Ho lavato le albicocche e le ho tagliate a spicchi sottili, spruzzandole di qualche goccia di limone, giusto per non farle annerire.
Ho montato le uova con lo zucchero e ho aggiunto poi la farina, mescolando bene, ed infine il cacao setacciato.
In una teglia rettangolare coperta da carta forno, ho disposto gli spicchi di albicocca, fitti-fitti, fino a riempire tutta la superficie. Poi sopra ho versato  il composto al cacao in uno strato uniforme.
Poi ho messo subito in forno già caldo a 175° per circa 25 minuti.
Quando la torta era fredda l’ho capovolta e ho staccato la carta forno in modo da scoprire le albicocche che si erano saldate nell’impasto.
Questa torta è in superficie quasi cremosa, per l’umidità rilasciata dai frutti; il giorno dopo è rimasta sofficissima e la nota acidulina è proprio piacevole!!! Al terzo giorno non arriverà!!! 😀
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Spaghetti alla chitarra con peperoni, pinoli e cipolle rosse (anzi viola!) caramellate

«Sembrerebbe un cibo, se non fosse per il suo sapore strano e intenso.» Questa la frase pronunciata da Cristoforo Colombo per presentare all’Europa il peperone, e qui si capisce che Colombo faceva il navigatore e non il pubblicitario. Non credo che in molti potessero essere attratti da una presentazione del genere, ma bisogna capire che il gusto dell’epoca si era formato su ortaggi non troppo saporiti, le rape, ad esempio, o le fave e in pochi potevano essere preparati all’esplosione di sapore del peperone.

Inizialmente fu chiamato pepe d’India, per la sensazione che provocava sulla lingua simile a quella provocata dal pepe, ben conosciuto in Europa e simbolo delle tavole più altolocate.

Gli spagnoli pensarono che anche il peperone potesse servire per ricavarne una spezia e tentarono di farlo conoscere in Europa, cercando di far partire un bel business. I loro sogni di gloria naufragarono però (si può dire, parlando di navigatori???) perché il peperone, sia dolce che piccante, si adattò bene a tutti i climi e in pochi decenni riempì i giardini e gli orti d’Europa e Africa.

Da quel momento anche il più povero contadino poté facilmente fabbricare la sua dose di pepe d’India e parallelamente il gusto sulle tavole nobili, ancora condizionato da zafferano, chiodi di garofano e cannella, cominciò a virare verso l’apprezzamento delle erbette e delle verdurine, cominciando a lasciar un po’ da parte le spezie.

Il peperone intanto si diffuse in Italia da nord a sud, trovando terreno fertile, sia fisicamente, che metaforicamente nelle menti ingegnose dei cuochi improvvisati delle mense povere. Non c’è regione in Italia che non vanti qualche tipica qualità di peperone, da quelli dolci e tondi di Carmagnola in Piemonte, alle varietà più piccanti calabresi. E non c’è regione che non esalti il gusto del peperone con ricette di ogni tipo, dai peperoni con le acciughe piemontesi, alle peperonate venete, al peperone cucinato con il baccalà lungo il Tirreno ai friggitelli pugliesi e ancora alla caponata siciliana. La Calabria ha coltivato il culto di quelli più piccanti, facendone ingrediente irrinunciabile per i prodigiosi salumi e le varie miscele di verdure piccanti sott’olio. Un simbolo dell’Italia nel sud nel mondo? Basti dire che la pizza con il salamino piccante a Los Angeles, Pechino, Sidney e Nairobi si chiama semplicemente “peperoni”. E basta.
[fonti:
http://it.wikipedia.org/
M. Niola, Si fa presto a dire cotto, Il Mulino 2009.]
La ricetta: Spaghetti alla chitarra con peperoni, pinoli e cipolle rosse caramellate.

Avevo trovato questa ricetta sul sito della pasta Garofalo. Senza troppi ingredienti, l’incontro tra i sapori semplici è esaltante, anche con il peperone più insipido, figuriamoci ora che i peperoni sono belli succosi e dolci.
Per due persone, vanno bene:
spaghetti alla chitarra (quanti ne volete)
1 peperone rosso maturo (se vi capita con una nota piccantina, ancora meglio)
1 cipolla rossa di Tropea
1 manciata di pinoli
2 cucchiai di zucchero
1 spicchio d’aglio
1 filetto d’acciuga
olio, sale
Ho pulito il peperone e l’ho tagliato a pezzettini piccoli, tipo dadini.
Ho fatto soffriggere l’aglio in tre cucchiai d’olio, aggiungendo un’acciughina per dare sapore.
Ho versato i peperoni in padella e li ho fatti rosolare un po’, sempre mescolando, e poi ho fatto cuocere aggiungendo un filo d’acqua ogni tanto.
Intanto si può mettere l’acqua per la pasta a bollire.
In un padellino far tostare leggermente i pinoli e metterli da parte.
Ho poi affettato la cipolla finemente e l’ho fatta ammorbidire sul fuoco con un filo d’olio.
Poi ho versato i cucchiai di zucchero. Mentre lo zucchero si scioglie, la cipolla si ammorbidisce, quando è pronta spegnere e tenere al caldo.
Una volta che la pasta era cotta, l’ho scolata e passata in padella con i peperoni.
Poi ho impiattato, mettendo la cipolla sopra la montagnola di spaghetti, in modo che il sughino dolce colasse anche nel centro. Sopra la cipolla e i peperoni ho completato con i pinoli.
L’incontro tra il dolce acidulo e piccantino del peperone e il dolce pieno e rotondo della cipolla è squisito.

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Excursus semiserio su ceci e porri … e pappardelle alle vongole su passatina di ceci

B.Thorvaldsen, busto di Cicerone
Questo signore è Marco Tullio Cicerone, compagno immancabile dei nostri incubi da liceali.
Il suo nome si dice derivi da cicer, il cece, perché pare che un suo antenato avesse un’escrescenza a forma di cece vicino al naso. Insomma aveva un qualcosa che la nostra lingua “neolatina” chiama comunemente porro… trovo che sia curioso che noi definiamo volgarmente con il nome di un vegetale ciò che i latini definivano con il nome di un altro vegetale commestibile. Eppure, se vogliamo, il cosiddetto porro assomiglia molto di più a un cece che a un porro… e il porro (il vegetale intendo) non ha la sostanza del suo amico cecio.
Si dice “non valere una buccia di porro”, e la locuzione “piantar porri” significa gingillarsi…un po’ quello che viene popolarmente indicato con pettinare le bambole o far ballare la scimmia; peggio ancora “piantare un porro a qualcuno”: significa ingannarlo!!!
la strega di Biancaneve con il suo indimenticabile porro

Per alcune culture il porro (quello somigliante a un cece) che spunta sulle mani e sul viso è indice di malocchio e i modi per eliminarlo sono svariati ma legati a rituali che comportano l’utilizzo di altri legumi e cereali – e non di porri o di altre forme di cipolla – curiosamente.

Alcune tradizioni popolari italiane prescrivono ad esempio di passare sopra il porro dei fagioli, che poi vengono gettati in un posto dove la persona con i porri non deve passare più. Si crede che come marciscono i fagioli, così  il porro si secca e cade, per il concetto omeopatico del similia similibus curantur.
Nella provincia di Avellino viene ancora praticato un rito che utilizza i nodini dei fili di paglia (i curmi in dialetto) per eliminare gli indesiderati porri (carnosi!!).
Si tocca col nodo il porro, e si pronunciano le seguenti parole:
nfracetate curmi, come nfracetano gli puorri, ‘nfracetate puorri, come nfracetano gli curmi
 (Marcite, curmi, come marciscono i porri, marcite, porri, come marciscono i curmi)
Come avveniva con i fagioli il nodino di paglia deve poi essere gettato in un pozzo a marcire e, come marcisce la paglia, così si seccherà il porro.

Ma parliamo della pianta, che è meglio!

L’imperatore romano Nerone, che non brillava per simpatia, fu soprannominato “il porrofago” perché era ghiotto di porri: li utilizzava in gran quantità per schiarirsi la voce.
Il porro in cucina dona sapore ad ogni brodo, ma di suo non è molto saporito… possiamo farci un risotto dolciastro o renderlo compagno di qualche altro gusto forte. Bisogna però riconoscergli 5000 anni di storia – da alcuni studiosi è ipotizzata la sua origine celtica – e la virtù di aver aiutato, pur essendo di poca sostanza,  a superare più di una carestia durante il Medioevo.
cece nel suo baccello

Il cece è altrettanto antico, ma di tutt’altra pasta. Vanta un’origine irachena risalente all’età del bronzo, ed è conosciuto dagli Egizi e nell’Antica Grecia e nominato anche nella più antica opera di letteratura della storia, la Bibbia. Utilizzato in tutti i paesi del mediterraneo e rinomato per la sua carica proteica, il latino cicer deriva dal greco kikis che significa forza e l’appellativo arietinum allude all’ariete, perché con un po’ di fantasia, si può scorgere il profilo di un ariete nella forma del cece.

con un po’ di fantasia si può riconoscere nel cece la sagoma di una testa di ariete
Senza fantasia alcuna, ma con i dati alla mano si può dire che si tratta del terzo legume più coltivato al mondo, dopo soia e fagiolo. In Italia è utilizzato soprattutto al sud come condimento per la pasta e in Liguria, dove i piatti più peculiari sono farinata e panissa (la ligure, da non confondere con quella vercellese che è tutta un’altra cosa e non c’entra nulla con i ceci.) Sempre originario della Liguria è lo zimino di ceci, una specie di minestra di verdura. Il nome, solo quello, arriva via mare fin nel Sassarese, ma gli ingredienti sono completamente diversi.
Dalla cucina mediorientale sono arrivati anche da noi il falafel e l’hummus ebraico e libanese; il gusto muta, a causa delle spezie, ma la corposità rimane quella.

È raro che il cece non piaccia, perché il gusto è morbido e sapido; io trovo che sia eccezionale abbinato al pesce, cibo galenicamente freddo che ne tempera il calore.
Ricordando il classico partenopeo di pasta fagioli e cozze, io, in un impeto di creatività, ho abbinato i ceci alle vongole e il risultato è stato straordinario.
La ricetta: pappardelle alle vongole su passatina di ceci (dosi da 2 a 4 persone)
400 g di ceci lessati
1 pezzo di sedano, carota, cipolla (o porro!) per fare un soffritto
peperoncino secco
1 bicchiere di vino bianco
70 g di vongole conservate in acqua (se volete prenderle fresche meglio ancora!!)
1 grosso spicchio d’aglio
1 pomodoro maturo
olio evo
sale
Preparazione:
In un pentolino ho messo 1 spicchio d’aglio, un pezzo di carota, un pezzo di sedano, 1 pezzo di cipolla, 1 peperoncino essiccato in 2 cucchiai d’olio evo e ho fatto soffriggere leggermente. Ho aggiunto i ceci, li ho rosolati e ho sfumato con mezzo bicchiere di vino bianco e poi ho lasciato insaporire aggiungendo la loro acqua di bollitura.
Ho aggiustato di sale.
Nel frattempo in una padella ho rosolato un grosso spicchio d’aglio e poi ho aggiunto le vongole, le ho fatte insaporire aggiungendo mezzo bicchiere di vino bianco e un pomodoro tagliato a dadini. Regolato di sale e aggiunto acqua per far proseguire la cottura.
Intanto ho messo a bollire l’acqua della pasta.
Mentre la pasta cuoceva ho liberato i ceci di tutte le verdure, ne ho preso metà e messo insieme alle vongole a girare sul fuoco ancora per qualche minuto, l’altra metà l’ho frullata fino a farne una crema vellutata a cui ho aggiunto un bicchiere d’acqua calda per mantenerla fluida.
Una volta che la pasta era cotta, l’ho fatta saltare velocemente in padella con vongole e ceci, senza farla asciugare. Poi ho messo nei piatti una mestolata di passata di ceci calda e sopra la pasta con il condimento di ceci e vongole e completato con una spolveratina leggera di pepe.

Abbinamento: Erbaluce di Caluso 2009, Azienda Agricola Orsolari.

ai fornelli, ricette originali

Pannacotta Tricolore

In tema dei 150 anni dell’Unità d’Italia, festeggiamo anche a tavola…


La ricetta: Pannacotta Tricolore – Tristep

Step.1 – Gelatina di fragole
250 g di fragole
3 fogli di gelatina
5 cucchiai di zucchero
2 cucchiai di Porto
Ho pulito le fragole liberandole del picciolo, le ho tagliate a pezzetti e le ho messe in un pentolino con lo zucchero e un cucchiaio d’acqua.
Le ho fatte scaldare per 4-5 minuti, poi intiempidire; infine le ho frullate e ho setacciato la polpa.
Ho fatto ammollare in acqua fredda la gelatina per 10 minuti, poi l’ho messa per pochi istanti sul fuoco facendola sciogliere nei due cucchiai di porto.
Ho aggiunto la gelatina alla purea di fragole e ho mescolato bene.
Ho riempito il fondo di sei bicchieri.
Dopo averli fatti intiepidire li ho messi in frigo, fino a solidificazione, almeno 2 ore.
Step. 2 – Pannacotta
Ho usato un preparato per pannacotta, aggiungendo 200 ml di panna fresca e 300 ml di latte.
Una volta intiepidita l’ho suddivisa sulla gelatina di fragole precedentemente solidificata.
Ho rimesso il tutto in frigo lasciandolo tutta la notte.
Step. 3 – Gelatina di basilico
Circa 30 grosse foglie di basilico
Ghiaccio
Zucchero (a piacere, basta assaggiare)
Un filo d’olio
Qualche granelllo di sale grosso
½ foglio di gelatina
Ho messo nel bicchiere del frullatore le foglie di basilico spezzettate, con un filo d’olio e qualche cubetto di ghiaccio pestato. Ho frullato ad intermittenza, senza far scaldare la salsa, aggiungendo lo zucchero e qualche granello di sale per bilanciare.
Intanto ho ammollato ½ foglio di gelatina in acqua fredda, poi l’ho strizzato e fatto sciogliere in un cucchiaio d’acqua calda ed infine aggiunto alla salsa di basilico preparata in precedenza.
Anche questa volta ho suddiviso la salsa in uno strato sottile nei sei bicchieri, dove c’era già la gelatina di fragole e la pannacotta solidificata.
Ho lasciato rassodare in frigo anche questa volta, almeno due ore.
Ho servito con una fogliolina di basilico come guarnizione.
(Volendo si può fare il terzo strato con la salsa al basilico, senza farla gelificare, ma così l’aspetto è più scenografico, e mentre si mangia, non si perde d’occhio la bandiera, fino all’ultima cucchiaiata!!!)

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