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Torta dei Tetti di Dronero

Ho lungamente cercato qualche informazione sul nome così accattivante di questo dolce, cercando una spiegazione plausibile sul perchè fosse proprio dei Tetti, quando la semplicità di interpretazione ha avuto la meglio.
Tetti è una frazione del comune di Dronero, dove questa torta semplice e rustica ha avuto i natali. Perciò si tratta delle Torta di Tetti e non dei Tetti…ma ovunque si trova indicata con la seconda grafia, suggerendo romantiche leggende.
Come se ce ne fosse bisogno poi… ci troviamo in Val Maira, una delle valli occitane, dove la scarsezza degli ingredienti ha ispirato al contrario ricette ricchissime, semplici ma saporite, con la patata di montagna, il formaggio d’alpeggio, le farine rustiche come quella di segale, adatta alla contivazione in alta quota, solo se mischiata al grano che meglio resiste al vento.

[la foto di Dronero appartiene a www.naturaoccitana.it]

Si tratta di una terra splendida, ricchissima di ispirazioni e, mentre la lista delle ricette da provare si allunga, ecco a voi questa torta campagnola e rustice, poco dolce, che un tempo veniva cotta nei forni a legna, ottenendo un aspetto molto simile al comune pane.
Per correttezza le pere da utilizzare sono le Madernassa, varietà diffusa nel cuneese, in particolare nella zona di Alba. Io ho comunque utilizzato pere piccole e a polpa dura, adatte per esser cotte e cambiando la ricetta originale solo aggiungendo un cucchiaio in più di zucchero nella pasta e riducendo leggermente la quantità di amaretti e cacao.

La ricetta: Torta dei Tetti di Dronero
250 g di farina
1 uovo
3 cucchiai di zucchero
50 g di burro fuso
alcuni cucchiai di latte intero
1 cucchiaino colmo di lievito in polvere

per il ripieno
6 piccole pere da cuocere (Madernassa o Martin Sec)
2 chiodi di garofano
1 cucchiaino colmo di cannella in polvere
vino rosso (in quantità da coprire le pere, Dolcetto o Nebbiolo o Barbera)
160 g di amaretti sbriciolati
2 cucchiai di mandorle tagliate a pezzi grossi
1 cucchiaio colmo di cacao amaro in polvere
1 bicchierino di grappa
3 cucchiai di zucchero

tuorlo d’uovo per spennellare

Sbucciare le pere, tagliarle a pezzetti e metterle in una casseruola con il vino, tanto da coprirle, lo zucchero, i chiodi di garofano e la cannella. Lasciar cuocere finchè non sono morbide, poi schiacciarle con una forchetta.
Nel frattempo preparare la pasta: mescolare gli ingredienti fino a formare un composto lavorabile, aggiungendo gradualmente il latte.
Quando le pere sono pronte mescolarle con gli amaretti, il cacao, la grappa e formare un composto omogeneo.
Dividere in due parti la pasta e ricavarne due cerchi poco più grandi della teglia in cui cuoceremo il dolce (25 cm).
Deporre sul primo cerchio il ripieno, coprirlo con il secondo cerchio di pasta e rimboccare i bordi del primo, sopra il secondo, bucandolo poi con la punta di un coltello.
Spennellare con un tuorlo d’uovo (o un po’ di latte) ed infornare a 170° per circa mezz’ora o finchè il dolce è ben dorato.

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Spaghetti alla Norma, fuori norma

Le ultime melanzane della stagione e le ultime parmigiane e paste alla Norma, che per tornare sui miei fornelli dovranno aspettare la prossima estate.
Ho preparato questo piatto innumerevoli volte con le melanzane nere, con quelle lilla (ma sono molto dolci e acquose e poco adatte alla frittura) e anche con queste deliziose melanzanine di Rotonda.
L’ho preparato con la ricotta salata, come vuole la regola, ma in mancanza anche con una spolverata di parmigiano.
Talvolta l’ho preparato anche con le melanzane cotte in forno e poi passate nel sugo.
L’adattabilità di questo piatto è altissima, si può modulare in base al tempo disponibile, ma la vera ricetta è una sola. Le melanzane vanno fritte e poi passate nel sugo di pomodoro, già insaporito con aglio e olio e fatto cuocere per un po’. Le melanzane vanno aggiunte all’ultimo, perchè devono dare sapore e non ammollarsi troppo.
Molte invece sono le leggende legate al nome di questo piatto. 

Alcuni raccontano che la ricetta vide la luce proprio al ritorno di Vincenzo a Bellini a Catania, dopo il clamoroso fiasco della prima della Norma al Teatro alla Scala di Milano. Il compositore era tornato abbattuto e sfiduciato nella sua città natale, quasi convinto di dover cambiare mestiere, quando gustò il piatto cucinato in suo onore da uno chef catanese. Ispirato, compose l’aria “Casta Diva”, la più celebre di tutta l’opera, decretandone il successo nelle rappresentazioni successive. Quest’ultimo particolare però non trova conferma nella stesura dell’opera in quanto Casta Diva faceva già parte della prima partitura.

Si racconta però che la dicitura Pasta
alla Norma facesse riferimento alla soprano Giuditta Pasta, protagonista
eccellente durante il disastro della prima alla Scala.

Un’altra storia è temporalizzata qualche anno più tardi, quando l’opera di Bellini era già conosciuta ed apprezzata. Pare che il commediografo Nino Martoglio, dopo aver assaggiato questo piatto, esclamasse “Questa è una vera Norma“, ad elogiarne la ricetta saporita ed equilibrata. 
Qualsiasi sia stata l’origine del nome, questo piatto è diventato il simbolo della città di Catania, ad eterna memoria del suo cittadino più illustre, e della Sicilia intera.
[http://it.wikipedia.org/wiki/Norma_%28opera%29
http://www.qtsicilia.it/la-satira-e-la-societa/40-societa/570-leggende-da-foyer-pasta-alla-norma.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Giuditta_Pasta]

Io ho realizzato la ricetta utilizzando i prodotti lucani che mi sono stati inviati per la partecipazione al concorso #IoChef, in
occasione del Convegno Nazionale dei Cuochi Lucani, quindi melanzane di Rotonda e CacioRicotta Lucano. Le melanzane di
Rotonda hanno molti semi, ma sono davvero perfette per essere fritte…se volete saperne qualcosa di più andate a leggere qui.

La ricetta: Pasta alla Norma
(per 2 persone)
1 melanzana viola con la buccia (nel mio caso 3 melanzanine rosse di Rotonda)
olio per friggere
3-4 pomodori pelati
olio
sale
basilico
spaghetti (più o meno abbondanti a vostro piacimento)
ricotta salata (nel mio caso, cacio ricotta lucano)
Ho inizialmente tagliato a dadini le melanzanine con la buccia. Ho anche fatto qualche fettina sottile per la decorazione. Le ho messe in un colapasta con un po’ di sale grosso per farle spurgare.
Ho messo tre cucchiai d’olio evo in un pentolino. Ho rosolato leggermente uno spicchio d’aglio sbucciato e poi vi ho aggiunto i pomodori, precedentemente sbollentati e pelati, schiacciati con la forchetta. Ho lasciato cuocere aggiungendo all’occorrenza un po’ d’acqua e regolando di sale. 
Ho asciugato le melanzane, le ho infarinate e fritte in olio di semi bollente, mettendole poi ad asciugare dall’olio in eccesso su alcuni fogli di carta assorbente.
Nel frattempo ho messo a bollire l’acqua per la pasta e quando era pronta l’ho salata e vi ho tuffato gli spaghetti. 
A cottura ultimata ho passato gli spaghetti nel sugo per condirli, poi ho aggiunto le melanzane fritte, tenendo da parte le fettine e qualche cucchiaio di quelle a cubetti per la decorazione.
Ho spolverato di cacio ricotta grattuggiato grosso al momento.
 

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Shammali* cipriota per l’Abbecedario Culinario

Per l’Abbecedario Culinario d’Europa, fino al 6 ottobre dedicato a Cipro ed ospitato da Haalo, ho scelto di provare a cucinare un dolce tipico diffuso non solo a Cipro ma anche in Grecia e Turchia. Letta la ricetta, diffusa sul web solo in lingua inglese, ho subito amato la presenza del semolino e la semplicità degli ingredienti.  
Questo dolce, a seconda della zona viene aromatizzato con essenza di mandorle o di rose, oppure, in Grecia, con il masticha, la resina che la cucina greca utilizza in prodotti dolci e salati.
Siccome vi propongo la versione cipriota, ho scelto l’essenza di mandorle, ma credo che anche l’essenza di rosa, reperibile nelle macellerie halal, dia modo di ottenere un risultato delizioso.
Il procedimento è semplicissimo e il risultato è ottimo e molto rustico e “mediterraneo”. Assolutamente essenziale perchè il dolce si insaporisca bene, è il riposo con lo sciroppo, di almeno 5-6 ore.

*Ivy, in un commento qua sotto, mi dà altre informazioni su questo dolce:P { margin-bottom: 0.21cm; } « Shammali è il nome Greco. In Cipro è chiamato “Kalon Prama” (qualcosa
buono). Aggiungiamo anche tahini sul fondo della teglia prima di
aggiungere la miscela.

»P { margin-bottom: 0

La ricetta: Shammali (torta con semolino, yogurt e mandorle)

2 uova piccole (separati gli albumi montati a neve)
70 g di zucchero
250 g di semola
150 g di yogurt di capra intero (oppure yogurt intero)
50 g di olio di semi
2-3 gocce di essenza di mandorle
1 cucchiaino di lievito in polvere
1 manciata di mandorle sminuzzate per la guarnitura

per lo sciroppo:
100 g di zucchero
140 ml di acqua
il succo di mezzo limone
1 cucchiaino di cannella in polvere
 
[fonti: ricetta da http://androulaskitchen.wordpress.com/2012/01/08/shamili/]
Ho mescolato lo zucchero con l’olio; poi ho aggiunto i tuorli, amalgamando bene.
Ho versato a pioggia il semolino, sempre mescolando con un cucchiaio di legno.
Ho aggiunto lo yogurt, l’essenza di mandorla e il lievito per dolci passato al setaccio.
Ho montato a neve gli albumi e li ho aggiunti gradualmente all’impasto senza smontare.
Ho imburrato una tegia del diametro di 21 cm e vi ho versato il composto.
Ho infornato per 5 minuti, poi ho cosparso con le mandorle sminuzzate e rimesso in forno a 180° lasciando cuocere per altri 40 minuti, finchè il dolce è dorato.
Prima di sfornare, controllare la cottura al centro con uno stecchino.
Nel mentre ho preparato lo sciroppo, facendo sciogliere lo zucchero nell’acqua e poi ponendo sul fuoco ed aggiungendo il succo di limone e la cannella. Ho fatto cuocere, finchè lo sciroppo non si è inspessito, poi ho lasciato raffreddare.
Ho bucato con uno stecchino tutta la superficie della torta, ormai tiepida, e l’ho irrorata di sciroppo. 
Lasciar raffreddare completamente, così parte dello sciroppo verrà assorbita.
Poi tagliare a cubetti e servire accompagnando con yogurt non dolcificato. 

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Parmigiana di melanzane o melanzane alla parmigiana?

Nell’approcciarsi a questa ricetta che è senza dubbio ai primi posti (forse al primo) tra le mie preferite, bisogna identificare innanzitutto le questioni fondamentali.
1. spiegare l’origine del suo controverso e oscuro nome
2. svelare la ricetta tradizionale, prima di avventurarsi in estrose varianti
3. scoprire qualche indizio sulla sua regione di origine
 
Premesso che di certo e certificato, come spesso accade in molte ricette tipiche italiane, abbiamo quasi nulla, di sicuroci resta tra le mani una fetta di uno dei piatti cardine della tradizione, forse a parimerito con la lasagna, che lascia colare un po’ di sugo di qua, un po’ di formaggio fuso di là e ci disegna un antipatico rotolino sui fianchi mentre ci regala attimi di pura gioia.
 
Cerchiamo di affrontare un problema alla volta.
 
Partiamo dall’origine del suo nome. Deriva dalla
città di Parma? O dalla parmiciana, che in Sicilia indica la persiana,
che ricorda coi suoi listarelli di legno sovrapposti  il sovrapporsi di
strati di melanzane e condimento? Qualcuno dice addirittura che
melanzane alla parmigiana, si chiamino così perchè fatte con il
parmigiano… 
No, niente parmigiano!
Chi
se ne intende dice che la spiegazione etimologica più probabile sia
“melanzane cucinate all’uso della città di Parma”, dove nel Medioevo
nacquero le torte parmigiane, formate di tanti strati sovrapposti e
farciti. Come questa preparazione sia migrata da Parma fino in Sicilia attraversando secoli e reinventandosi con ingredienti nel medioevo ancora non conosciuti lascia indizi lungo lo stivale che assomigliano alle bricioline di Hansel e Gretel.
 
E dunque qual è la ricetta più antica o quella originale? Da quando questo modo di cucinare la melanzana venne chiamato proprio così? Se la ricetta ispiratrice è medievale, d’altro canto il pomodoro ci arriva dall’altra parte del globo solo dopo la scoperta dell’America e la melanzana, che invece veniva anche dall’Africa, conquistò la fiducia dei palati solo nel tardo Settecento. 
Alcuni ipotizzano che le prime “parmigiane” fossero composte di strati di zucche o zucchine e che quindi la ricetta sia nata ben prima, ed abbia in seguito trovato con la melanzana la sua versione meglio riuscita. 
Lo stesso discorso si può fare con i formaggi che vi si trovano. C’è ci suggerisce la mozzarella fiordilatte, ben scolata: questo indicherebbe una diffusione pugliese; c’è chi dice che il piatto si confeziona con la mozzarella di bufala, ma io che adoro il gusto pungente di questo formaggio, non me la sentirei di imprigionarlo tra strati di melanzana e sugo; c’è chi suggerisce la provola affumicata, che secondo me rappresenta un buon compromesso, perchè è un formaggio asciutto ma molto saporito. Qualcuno aggiunge del prosciutto cotto, qualcun altro la salsiccia stagionata di Napoli, salame piccante che quando diventa troppo asciutto trova riutilizzo in diversi piatti cotti, tra cui la parmigiana e il gattò di patate.
Le melanzane, invece, come vanno cotte? Fritte senza dubbio, ma l’infarinatura preliminare consente, invece di appesantire il piatto, di renderlo molto più leggero, perchè in questo modo le melanzane non assorbono molto olio e restano più asciutte e croccanti.
La cottura in padella è sicuramente spiegata dal fatto che i forni di un tempo erano molto differenti da quelli odierni e la cottura su fuoco consentiva un controllo maggiore di un cibo che praticamente era già cotto.
Ma a quale regione si può attribuire la paternità di questo piatto? A seconda di quel
che ci si mette dentro molte regioni di mezza Italia se ne arrogano
l’invenzione. Ed è un po’ vero ogni volta: la melanzana petonciana lunga di Sicilia, la provola affumicata o la Mozzarella di Bufala, il salame di Napoli e qualche fetta di prosciutto cotto e persino una spolverata di Parmigiano, se non avete a disposizione il caciocavallo stagionato. Anche la Puglia e la Calabria ne preparano una loro versione…e, se l’avete assaggiata anche una sola volta nella vita, volete dar loro torto? 
Qualsiasi massaia e qualsiasi regione abbia raggiunto e conquistato, la prima versione per iscritto è quella di Ippolito Cavalcanti in “Cusina casarinola co la lengua napolitana” del 1839:

Melanzane alla parmigiana,

 

« … e le
farai friggere; e poi le disporrai in una teglia a strato a strato con
il formaggio, basilico e brodo di stufato o con salsa di pomodoro; e
coperte le farai stufare.
 »
[Ippolito Cavalcanti, “Cusina casarinola co la lengua napolitana, Cucina casareccia in lingua napolitana]
[fonti: 
http://www.lucianopignataro.it/a/perche-la-parmigiana-si-chiama-parmigiana/13687/
http://www.lucianopignataro.it/a/ricette-cult-la-parmigiana-di-melanzane/13053/
http://it.wikipedia.org/wiki/Parmigiana_di_melanzane]
 
 

Ed io dalla ricetta napoletana parto per la mia versione, dopo aver scartabellato in rete mille alternative…

 

La ricetta: Parmigiana di melanzane
3 melanzane lunghe medie
300 g di pelati
1 pezzo di salsiccia di Napoli
150 g di provola affumicata
2 fette sottili di prosciutto cotto
farina
olio per friggere
olio evo
sale
caciocavallo grattugiato grossolanamente (4-5 cucchiai)
4-5 foglie di basilico

Senza sbucciarle ho tagliato le melanzane a fette di 1 cm. Le ho salate e messe a perdere acqua sotto un peso.
Ho preparato il sugo, rosolando uno spicchio d’aglio in un pentolino con 4 cucchiai d’olio evo. Ho aggiunto i pelati tritati grossolanamente con coltello e forchetta. Ho lasciato cuocere per un po’, aggiungendo anche una foglia di basilico.
Ho asciugato le fette di melanzane con un panno pulito e ho messo l’olio per friggere a scaldare sul fuoco. Quando era caldo ho fritto le fette di melanzana, passando ognuna in un piatto di farina da entrambi i lati. Le ho messe a scolare un po’ d’olio su fogli di carta assorbente.
nelfrattempo ho tagliato il salame a dadini e la provola a fettine sottili.
Ho preso una padella del diametro di 22 cm. Ho unto il fondo e versato qualche cucchiaio di sugo.
Poi ho cominciato con uno strato di melanzane e a seguire gli altri ingredienti alternati, una volta il salame e una volta il prosciutto e uno strato sì e uno no il caciocavallo, riservando per ogni strato, però, sugo e provola. esaurite le melanzane ho coperto il tutto con il restante caciocavallo grattugiato e ho coperto.
A fuoco dolcissimo ho lasciato “pipiare”, ovvero ho lasciato che il coperchio si sollevasse leggermente per il vapore, per una decina di minuti, giusto il tempo che tutto il formaggio si sciogliesse.
Far raffreddare un poco prima di tagliare a fette. Si mangia tiepida (così si distingueranno tutti i sapori,), oppure anche fredda!

 
 

 

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Scones ripieni di gelato al pistacchio Pepino

Oggi facciamo un viaggio fin nella Scozia medievale nel piccolo villaggio di Scone. Come era comune all’epoca, l’agglomerato di case era sorto attorno ad una grande abbazia, famosa per custodire una pietra speciale: la pietra rossa su cui Giacobbe ebbe un sogno premonitore e che portava il segno del bastone di Mosè che la colpì con forza per farne scaturire dell’acqua per dissetare gli ebrei in fuga nel deserto.
Di come la pietra si volata dalla terra promessa fino nell’isola britannica non viene data alcuna spiegazione, ma al giorno d’oggi è ormai appurato che si tratta di roccia appartenente al suolo scozzese.
La leggenda racconta che quella pietra, conosciuta anche come Pietra del Destino, avesse il potere di portare prestigio e fortuna ai sovrani che venivano incoronati sopra di essa e dunque di diritto divenne pietra dei re e simbolo del loro potere, dai re Scoti di Dál Riata, il regno che si estendeva dalle coste nord-occidentali della Scozia fino alla contea di Antrim in Irlanda settentrionale, fino ai re storici, come Kenneth I di Scozia.
Nel 1296 Edoardo I d’Inghilterra dopo aver conquistato il Galles, sedò la rivolta degli Scoti e per dare un ulteriore colpo alla loro impudenza si appropriò della preziosa pietra rossa. Il blocco di arenaria venne trasportato fino a Londra, nell’abbazia di Westminster, e venne posta alla base del trono di incoronazione.
Qui rimase fino al 1996, presenziando a tutte le incoronazioni dei Re di Gran Bretagna, dopo aver anche  rischiato di frantumarsi a causa di un attentato nel 1914.
Oggi la si può ammirare al castello di Edimburgo, ma questa famosa pietra è legata anche ad un’altra leggenda: si crede che abbiano dato il nome ai più famosi dolcetti da té del Regno Unito, gli scones.
Si tratta di cubotti tondeggianti che sono a metà tra una pastafrolla e un paninetto. 
Possono essere dolci o salati, talvolta sono punteggiati di uva passa, e vengono tradizionalmente divisi a metà con le mani per essere farciti di burro e marmellata di arance o di ingredienti salati.
Per l’utilizzo di lievito chimico o di bicarbonato e cremor tartaro vengono anche definiti quick-bread o quick-cake e, se sono deliziosi anche da soli, appena fatti, soprattutto tiepidi, sono ancor più adatti all’inzuppo dopo un giorno, quando perdono un poco della loro morbidezza.
Io li ho preparati sostituendo parte del latte con dello yogurt intero, per renderli più soffici.
Adesso che il gelato Pepino è volato a Londra per far da dessert ai panini gourmet de Il Panino Giusto, mi è sembrato naturale affiancarlo a queste “pietre” da Re e ad un tè delle cinque d’eccezione.
La ricetta: Scones con gelato al pistacchio
400 g di farina 0
8 g di lievito per dolci (circa 1/2 bustina)
1 pizzico di sale
100 g di zucchero
50 g di burro
50 g di yogurt greco
160 g latte intero
120 g di uva passa
1 uovo (per spennellare la superficie)
Ho setacciato la farina con il lievito e il pizzico di sale, ho aggiunto anche lo zucchero e poi ho iniziato ad impastare con il burro tagliato a cubetti, come si fa con la pasta frolla; ho gradualmente aggiunto il latte ed infine lo yogurt, fino a formare un impasto lavorabile. Ho aggiunto l’uvetta e l’ho distribuita nell’impasto. Ho raccolto il tutto a panetto e l’ho lasciato riposare 10 minuti. Ho ripreso l’impasto l’ho steso sulla spianatoia infarinata ad un’altezza di 1,5 cme con una formina per biscotti ho ritagliato tanti dischetti di 5 cm di diametro. Ho spennellato ogni dischetto con l’uovo sbattuto con un pizzico di zucchero ed ho infornato a 180° finchè non erano ben dorati.
Quando gli scones sono diventati tiepidi li ho aperti a metà ed ho farcito ognuno con un cucchiaio di gelato Pepino al pistacchio, perfetto da accostare al sapore dell’uva passa. Lasciate che il gelato a contatto con lo scone caldo si ammorbidisca ed inzuppi tutta la pasta e poi…gnamm!!
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La Farinata di ceci su MyTableBlog

Oggi si parla di farinata di ceci, ricetta ligure, ma diffusa con poche varianti anche in altre parti d’Italia.
La ricetta è semplicissima ma ricca di tradizione, a partire dalla teglia in cui viene cotta.
Preparare la farinata nel forno di casa non è semplice, perché essa necessita di una cottura ad alte temperature, però con alcuni accorgimenti si può ottenere un ottimo risultato.
Gli specialisti della farinata impongono di utilizzare un testo, la classica teglia rotonda, di rame stagnato, che deve essere lavato con il detersivo soltanto al primo utilizzo e poi ripulito dagli eventuali resti di farinata solo con acqua tiepida, in modo da non rimuovere lo strato di olio che permette al composto di non attaccarsi. 
Se fate un viaggio a Genova il testo stagnato può rappresentare un utilissimo souvenir da portarsi a casa.
La temperatura del forno deve essere massima al momento di infornare, poi viene abbassata ed infine rialzata poco prima di sfornare la farinata.
La tradizione dice che la farinata canonica dovrebbe essere alta almeno 5mm e meno di 1 cm, ma dato che il forno di casa difficilmente raggiunge i 300°, vi consiglio di fare uno strato leggermente più sottile di impasto, per ottenere una buona consistenza finale.

Per conoscere altre curiosità sulla farinata e la ricetta potete fare un salto sul blog di MyTable.

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Tra brodetto e zuppa di pesce, la mia ricetta e almeno 13 varianti

Italia, paese di santi, poeti e navigatori… Navigatori appunto e anche marinai e pescatori, così come cuochi, per diretta conseguenza, che cucinano il pescato. 
Il pesce, lungo le coste del nostro Stivale è cucinato in moltissimi modi diversi, ma un piatto si ritrova ovunque con alcune differenze che rendono l’assaggio una raffinata esperienza sensoriale, la zuppa di pesce.
Documentandomi per scrivere questo post ho scoperto cose che neppure immaginavo, avendo sempre vissuto sulla terraferma!! La cultura della zuppa di pesce è una vera e propria istituzione alle basi della cucina italiana.
Innanzitutto bisogna fare una distinzione tra il brodetto e la zuppa di pesce: il primo è diffuso lungo le coste di tutto l’adriatico, la seconda, con diverse varianti, allieta i palati lungo le coste del Tirreno.
Il piatto, come è semplice dedurre, era preparato per utilizzare l’invenduto dal mercato del pesce; nasce quindi come ricetta povera e di recupero, se di recupero si può parlare quando si tratta di pesce freschissimo. Di fatto ciò che si vendeva di più erano i pesci grossi, più facilmente utilizzabili in presentazioni eleganti alle mense dei nobili e ciò che rimaneva al popolo era la cosiddetta paranza: merluzzetti, triglie, piccole sogliole, crostacei di piccole dimensioni; molte volte a questi venivano aggiunti dei molluschi. 
La preparazione è di solito colorata dal pomodoro, ovviamente ciò non avveniva prima della scoperta dell’America.
È affascinante scoprire le differenze tra i diversi brodetti e zuppe di pesce, viaggiando lungo le coste italiane.
A partire dall’alto Adriatico troviamo innanzitutto il  brodetto alla triestina; secondo la ricetta il pesce va preventivamente fritto, prima di essere passato nel sughetto insaporito con aglio, cipolla e prezzemolo. Poi viene fatto riposare e riscaldato prima di essere portato in tavola.
A Venezia, precisamente nella zona di Caorle, troviamo il broeto ciozoto, tradizionalmente preparato in pentola di coccio su un fornelletto a carbone, direttamente sulle barche da pesca. Pare che al pescato misto, venisse preferito un solo tipo di pesce di laguna, il “go“, il ghiozzo.
Il brudèt ad pès è romagnolo, forse la prima ricetta tra tutte ad aver introdotto il pomodoro; essa prevede che ci sia anche qualche pesce a carne bianca, la gallinella, ad esempio, e consiglia lo Scorfano o il Coda di Rospo o il Pesce San Pietro.
Una menzione merita anche il brodetto di pesce alla fanese, marchigiano, che viene interpretato diversamente da famiglia a famiglia: vino bianco oppure aceto, pepe oppure peperoncino, aglio oppure cipolla, fanno sì che questa ricetta-non ricetta abbia un altissimo grado di personalizzazione.
In Abruzzo, a Pescara, coesistono due preparazioni a base di pesce; nel brodetto pescarese la base è fatta a crudo e man mano vengono aggiunti i pesci, dalle cotture più brevi a quelle più lunghe; nella zuppa il soffritto iniziale viene fatto a base di calamari e seppie e, particolare importante, assieme al pomodoro viene agiunto il peperone rosso tritato, dolce oppure piccante a seconda dei gusti. Anche la sequenza a tavola è diversa: la zuppa di pesce, accompagnata di fette di pane con l’aglio, è considerata un primo piatto, il brodetto può essere un primo oppure soppiantare un secondo.
Scendendo verso la Puglia incontriamo la Quatàra di Porto Cesareo, detta anche quataru ti lu pescatore o uatàra alla cisàrola, recentemente entrata a far parte dei PAT. La quatàra non è altro che il calderone di rame in cui viene preparato il sughetto in cui cuoceranno i pesci. Viene fatto rosolare insieme aglio, cipolla, prezzemolo e pomodorini, in poco olio d’oliva; il tutto si insaporisce in acqua di mare per circa due ore, poi viene aggiunto gradualmente il pesce, fino a 21 specie diverse. Il piatto viene servito con crostoni di pane fritti. La Quatàra è conosciuta anche come zuppa di pesce gallipolitana.
La zuppa di pesce siciliana prevede un’aggiunta di olive nere e di capperi al sughetto; in provincia di Catania, viene aggiunto anche un pugnetto di uva passa precedentemente ammollata. 
In Sardegna il brodino succulento in cui si è cotto il pesce viene usato per lessare la fregola, un tipo di pasta di semola di grano duro che si può assimilare ad un cous cous a grana grossa. Così la fregola in brodo di pesce diventa il primo piatto e il pesce diviene il secondo.
La zuppa di pesce napoletana ha delle indicazioni molto precise riguardo ai pesci da utilizzare: immancabili sono scorfano, tracina e lucerna; si può fare a meno di gallinella o di pescatrice; a scelta possono essere aggiunti grongo oppure murena, piccoli calamari e polpo, molluschi ma sono se freschi e “veraci”. 
Nel Lazio l’unica zuppa di pesce degna di nota è quella civitavecchiese, sfumata con il vino rosso e composta da una moltitudine di piccoli celenterati, crostacei e molluschi e l’aggiunta di scorfano e palombo.
 
Un discorso a parte merita il cacciucco livornese, vera e propria allegoria di un popolo. Negli ultimi anni del XVI secolo i Medici decisero di trasformare il piccolo villaggio di Livorno, sorto ai piedi della fortezza di Matilde, in una potenza mercantile. Emanarono le leggi Livornine (1590-1603) con le quali invitavano i
Mercanti di qualsivoglia Nazione, Levantini, Ponentini, Spagnoli,
Portoghesi, Grechi, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni,
Persiani
a stabilirsi a Livorno con la promessa di avere un alloggio o
un magazzino o una bottega dove poter svolgere la propria attività e che
garantivano anche la cancellazione dei debiti, l’esenzione dalle tasse e
l’annullamento delle condanne penali. Da quel momento Livorno divenne ante litteram una città cosmopolita e multirazziale, ben rappresentata dalla mescolanza di pesci che compone il suo piatto più tipico, il cacciucco. Il pesce e il suo sugo vengono deposti su fette di pane abbrustolito ed agliato, che pare rappresenti un must per tutte le zuppe di pesce d’Italia.
Risalendo la penisola arriviamo alla Liguria e non si può concludere questo viaggio saporito, prima di aver assaggiato il ciuppin; il nome deriva da suppin, zuppetta, ma ha un suono bellissimo e onomatopeico che ricorda il pucciare del pane in questo sughetto succulento. Viene preparato in tutta la Liguria ed ogni famiglia ne possiede una ricetta personale.  A Ponente i pomodori pelati sostituiscono i pomodorini freschi ed il soffritto iniziale viene fatto con carota,sedano, aglio e cipolla.
A questo punto vi chiederete che ricetta ho usato io per la mia zuppa. Una ricetta non ce l’ho, ma a guardar bene è un miscuglio di tutte queste usanze. 
Per prepararla armatevi innanzitutto di pazienza, non solo perchè necessita di diversi passaggi, ma fin dal momento in cui andate al mercato per comprare il pesce, perchè “siete solo in due e no, non vi serve un chilo per ciascuna varietà di pesce che avete deciso di utilizzare”!
La mia versione è molto semplificata, in pratica si tratta di pulire le diverse varietà, preparare un fumetto di pesce, preparare il sughetto di pomodoro e infine cuocere il pesce.

La ricetta: Zuppa di pesce 
250 g pomodori pelati
uno spicchio d’aglio
un peperoncino secco
vino bianco
300 g tra vongole e cozze
una decina di mazzancolle
3/4 seppioline medie
2 filettini di gallinella
1 nasellino
(di norma 2 piccoli scampi o 2 gamberoni per far scena) 
fette di pane casareccio
aglio
Ho fatto spurgare le vongole immergendole in acqua salata e raschiato il guscio delle cozze. Poi ho fatto aprire entrambe in una grossa padella su fuoco vivace, conservando il fondo di cottura, (filtrandolo dalla sabbia, se occorre).
Ho preparato il fumetto di pesce, mettendo in acqua le teste delle mazzancolle e gli scarti del pesce, coprendoli d’acqua e portandoli a bollore con un rametto di prezzemolo e 1 spicchio d’aglio. Ho lasciato bollire per mezz’ora e poi ho filtrato il tutto ed unito al fondo di cottura dei molluschi.
In una pentola ho rosolato un grosso spicchio d’aglio e il peperoncino in 4 cucchiai d’olio, poi ho aggiunto il pomodoro tagliato a pezzetti. Ho aggiunto un po’ di brodo di pesce e fatto cuocere ed insaporire per circa mezz’ora. Poi ho aggiunto il pesce cominciando dalle seppie, che necessitano di una cottura più lunga, per finire con i crostacei e i molluschi.
Ho regolato di sale e aggiunto il prezzemolo tritato cinque minuti prima di spegnere il fuoco e servire.
Ho accompagnato con fette di pane tostato, strofinato con aglio e bagnato da un filo d’olio crudo.

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Frittata di Scammaro per i “giorni di magro”

In Italia la religione molto spesso ha condizionato il modo di gustare il cibo. In questo caso faccio riferimento alla Quaresima, ma si può allargare questo concetto a qualsiasi festività religiosa: ogni festa è legata ad un cibo particolare o, al contrario, a un divieto.
Durante la Quaresima si mangia di magro, e la celebrazione ridondante del Carnevale con fritture e carni grasse altro non era che uno sfogo prima del periodo di temperanza. Tolti i poveri che già carne non ne mangiavano neppure in altri periodi liturgici, la gente laica poteva osservare il vincolo solo nei venerdì di quaresima e durante la settimana santa. La gente di chiesa, invece, doveva dare il buon esempio ed evitare il consumo di carne per tutti i quaranta giorni precedenti la Pasqua. In particolar modo, dovevano farlo i monaci, che vivevano tutti insieme, e quando qualcuno di loro, particolarmente anziano e debole non poteva evitare di consumare un poco di carne, lo poteva fare nella propria celletta, per non generare insane acquoline nei suoi compagni.
Da qui la spiegazione del termine napoletano scammaro: mangiare in camera, cammerare, voleva implicitamente dire “mangiare proteine animali”; al contrario mangiare fuori della camera, scammerare, passò per estensione ad indicare il “cibo di magro” consentito in quaresima, fino ad indicare la quaresima stessa.
Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino e discendete dal famoso Guido, amico di Dante, nel 1837 inserisce questa ricetta nel suo libro Cucina Teorico Pratica , una vera e propria enciclopedia della cucina napoletana; evidenti le influenze della cucina francese, ma dalla seconda edizione si arricchisce di un’appendice tutta dedicata alla cucina contadina e delle classi meno abbienti. Tra le ricette proposte anche la frittata di scammaro, che non contiene uova, e che sta insieme per magia…
Marinella Penta de Peppo racconta un’altra leggenda sull’origine di questa frittata, attribuendone l’invenzione ad un famigerato mago Cico.
 

Io vi consiglio di vedere tutto il suo video, anche (e soprattutto!) perchè ci insegna il metodo di cottura delle frittate di pasta. Questo metodo, un po’ lungo, ma che garantisce un risultato perfetto, permette a questo timballo di maccheroni di rapprendere senza che vi siano uova nell’impasto.
Il consueto abbinamento di uva passa e pinoli alla ricetta salata è tra quelli che adoro e quindi ho utilizzato esattamente gli stessi ingredienti, variando leggermente le proporzioni.

La ricetta: Frittata di Scammaro

ingredienti (per 4 persone):
280 g di spaghetti
2 spicchi d’aglio
100 g di olive nere tagliate a pezzettini
30 g di capperi
50 g di uva passa
30 g di pinoli
4 filetti di acciuga sott’olio (o due acciughe sottosale, da diliscare e sciacquare sotto l’acqua corrente)
olio d’oliva extravergine

Per prima cosa ho lessato gli spaghetti al dente.
Nel mentre ho rosolato in cinque cucchiai d’olio extravergine d’oliva l’aglio sminuzzato finemente aggiungendo poi capperi e olive e dopo poco uva passa e pinoli. Ho tolto dal fuoco questo sughetto e vi ho aggiunto le acciughe tagliate a pezzettini.
Con questa salsa ho condito gli spaghetti tenendone da parte un paio di cucchiai per aggiungerli al centro della “frittata”.

Ho messo a riscaldare sul fornello una padella ben unta d’olio; quando l’olio era caldo  ho versato gli spaghetti, aggiungendo al centro il condimento che avevo tenuto da parte.
Dopo aver rosolato la frittata per 2-3 minuti a fuoco vivace, ho spostato la padella sul fornellino più piccolo. La frittata di scammaro segue la regola di cottura di tutte le frittate di maccheroni. Occorre infatti tenere il fornello non al centro della padella, ma costantemente sul bordo, ruotando la padella di 90° ogni 3-4 minuti; dal bordo il calore si diffonderà fino al centro, cuocendo tutta la frittata in modo uniforme. Trascorsi i 12-16 minuti, ho girato la frittata con l’aiuto di un piatto piano ed ho fatto cuocere nello stesso modo anche l’altro lato. Dopo quest’altro giro di cottura ho messo la frittata di scammaro su un piatto da portata, tagliando a spicchi direttamente in tavola.

 

ai fornelli, ricette tradizionali

I Lekvar Pirohi, ravioli dolci dalla Slovacchia

Per l’Abbecedario Culinario della Comunità Europea questo mese si sta in Slovacchia con Crumpets & Co. e la ricetta che ho voluto sperimentare sono i Lekvar Pirohi (o Pirogi!).
E’ una ricetta, come molte altre slovacche, che si trova preparata con poche varianti anche nei paesi limitrofi, ad esempio in Polonia.
Di fatto sono dei ravioli con un ripieno dolce che vengono sbollentati e poi passati in padella con burro e cipolla. L’unione di dolce e salato me li ha subito fatti amare. Inoltre mi ricordano i cjarsons o cjalsons, i ravioli dolci di Carnia, che a loro volta sono fortemente ispirati dalle cucine mitteleuropee.
Il ripieno di questi ravioli è il Lekvar, letteralmente tradotto come burro di prugne. Il mio contributor linguista Alberto mi dice che il termine deriva dal latino electuarium, ovvero «miscela medicamentosa che si scioglie in bocca». Il dizionario Treccani indica: «Preparato farmaceutico semidenso formato da miscugli di farmaci
impastati con miele o sciroppi, con cui si curava anticamente un gran
numero di malattie». Questa definizione ci dà un’importante indicazione: il lekvar deve essere denso e pastoso
Altre interpretazioni si rifanno al greco, arrivando alla formulazione di electuario=lassativo. Anche qui abbiamo un indizio: la correlazione con il latte e con le prugne, uno tra i frutti considerati lassativi. 
Un’altra spiegazione dell’uso del lekvar lo si trova datato 1330 e lo indica utile a coprire il gusto di medicine sgradevoli ai bambini capricciosi.
Dunque per farcire i pirohi alla moda slovacca si può scegliere di usare una marmellata di prugne particolarmente densa o di preparare il lekvar in casa, seguendo questa ricetta:
Qui sotto la trovate tradotta:
200 g di zucchero di canna
250 g di prune secche
236 g di acqua
1 cucchiaio da té d buccia di limone grattata
3 cucchiai di succo di succo di limoni
Mescolare tutti gli ingredienti e cuocere finchè le prugne non sono ammorbidite. Passare il tutto al passaverdura per ottenere un composto denso e liscio e far asciugare in pentola ancora per un po’. Imbarattolare caldo in vasi sterilizzati e mettere a testa in giù per ottenere il sottovuoto.

Io non ho preparato il lekvar in casa, ma ho farcito i miei pirohi con della marmellata di prugne. Invece di ritagliare dei quadrati e ripiegarli a triangolo, ho fatto i ravioli partendo da dei cerchi di 8 cm di diametro.
La ricetta: Lekvar Pirohi della Slovacchia
100 g di farina 00
100 g di semola di grano duro
2 uova
sale
marmellata di prugne
1 cucchiaio di succo di limone 
1 cipolla rossa medio grande
50 g di burro 
Ho preparato la pasta mettendo la farina a fontana in una ciotola capiente, rompendo al centro le uova con un pizzico di sale e cominciando ad impastare e ad inglobare gradualmente tutta la farina.
Ho lavorato l’impasto per qualche minuto e poi l’ho lasciato riposare per circa mezz’ora.
Ho steso una sfoglia sottile circa 1,5-2 mm e ricavato dei cerchi di 8 cm di diametro. Al centro di ogni cerchio ho deposto un cucchiaino di marmellata di prugna, aromatizzata con qualche goccia di succo di limone. Ho ben richiuso i pirohi, schiacciando i bordi con i rebbi di una forchetta.
Ho messo l’acqua necessaria per bollirli a scaldare e nel frattempo ho preparato il condimento, tagliando finemente la cipolla e facendola soffriggere per alcuni minuti nel burro caldo.
Ho fatto bollire i pirohi per cinque minuti e poi li ho scolati e fatti passare in padella con le cipolle e il burro fuso.
Nell’impiattare ho completato con una spolverata di zucchero semolato. 

 

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Biscotti con farina di grano saraceno, arachidi e noci

La disputa su cantucci e biscotti di Prato è centenaria.
I primi, i cantucci, deriverebbero da un pane dolce all’anice, poi tagliato a fette e fatto tostare, per farlo conservare più a lungo. Nella forma e nell’aroma ricordano i genovesi biscotti del Lagaccio.
Quelli conosciuti come biscotti di Prato, invece, nella ricetta originale sono fatti con farina, zucchero, uova, mandorle e, talvolta, pinoli, senza alcun tipo di grassi né di lievito. Quindi sono ben croccanti e si prestano ad essere inzuppati nel vin santo, proprio perchè così asciutti ed essenziali.
La confusione legata al loro nome è però bilanciata da una storia antica e documentatissima. 
I biscotti di Prato non sono nati a Prato, è la dura verità, derivano dai bischotelli fiorentini descritti da Francesco Redi, lo scienziato che ebbe il merito di inventare una deliziosa cioccolata al gelsomino per Cosimo de’ Medici nel XVII secolo. 
Nel 1691 arriva la definizione dall’Accademia della Crusca: “biscotto a fette, di fior di farina, con zucchero e chiara d’uovo”, mentre la prima ricetta è effettivamnete custodita nell’archivio storico della città di Prato, risale al XVIII secolo e definisce questi biscotti come “fatti alla genovese”.
Un’altra disputa è legata all’abitudine consolidata di consumare questi biscotti in abbinamento con il vinsanto. I gourmet sostengono invece che in questo modo si danneggiano due prodotti, in primis il vinsanto che viene sporcato dalle briciole; in secondo luogo il biscotto che sembra necessitare dell’aroma del vino per poter essere gustato appieno. 
Il dessert da fine pasto composto da vinsanto e cantucci è però innegabilmente ottimo, e rappresenta una gestualità lenta e antica, che mi ricorda le lunghe permanenze attorno alla tavola, una volta finito il pasto, nei giorni di festa. 
Questi biscotti furono apprezzati da Herman Hesse, che li descrisse come gli unici tanto buoni da fargli tornare il buonumore, mentre Pellegrino Artusi racconta, ne “La Scienza in Cucina e l’Arte di Mangiare Bene”, del suo incontro con lo squisito e gentilissimo pasticcere Antonio Mattei, papà dei biscotti di Prato dal 1858.
La storia di questi biscotti, l’avrete capito, è talmente estesa, documentata, controversa e ricca di colpi di scena da aver ispirato un libro, quello di Marco Ferri, “La vera storia dei cantucci e dei biscotti di Prato” dell’editrice Le Lettere. 
La curiosità più simpatica sul nome di questi biscotti l’ho trovata su coquinaria.it, dove vien detto che il nome “cantuccini” deriva dal fatto che i meno abbienti, pur di gustare questa delizia, si accontentavano delle parti terminali del filone, i cantucci appunto, considerati meno pregiati delle fette centrali. In realtà i linguisti forniscono una spiegazione meno romantica: pare derivare da cantellus che in latino significa pezzo o fetta di pane. 
 
Il punto è che quella dei cantucci-biscotti di Prato è anche una tecnica, tanto geniale, quanto estendibile anche ad impasti leggermente diversi, più ricchi, e si rivela una vera alleata per preparare degli ottimi biscotti senza dedicare molto tempo al taglio della forma.
In più le possibilità di variazione nel gusto sono infinite: canditi, cioccolato a pezzettini, altra frutta secca…
Io li ho preparati con la farina di grano saraceno, ultimamente mia grande alleata in cucina, e con l’aggiunta di noci ed arachidi all’impasto. 

La ricetta: Biscotti con farina di grano saraceno, arachidi e noci
120 g di farina di grano saraceno
80 g di farina bianca tipo 0
120 g di zucchero
80 g di burro
1 uovo
1 pizzico di sale
60 g di gherigli di noci
100 g di arachidi sbucciate
la punta di un cucchiaino di lievito in polvere per dolci 
Ho lavorato il burro con lo zucchero, ho aggiunto l’uovo sbattuto con un pizzico di sale ed ho mescolato bene il tutto.
Ho aggiunto gradualmente le farine e successivamente il lievito in polvere.
Per ultime ho inserito nell’impasto la frutta secca sbriciolata grossolanamente.
Ho lasciato riposare questo impasto per circa mezz’ora al fresco.
Ho composto sulla carta da forno dei filoncini, spessi circa 5 cm, ed ho infornato a 170° per circa 15/20 minuti.
Quando i filoncini erano tiepidi li ho tagliati a fette, leggermente in diagonale, dello spessore dei 1,5 cm.
Ho nuovamente infornato le fette di biscotto finchè non erano leggermente dorate.

ai fornelli, ricette tradizionali

Cubetti di polenta farciti con Cögnà all’albese

In estremo ritardo (scade tra 27 ore!!) partecipo anch’io alla seconda raccolta di Valentina di Cucina & Cantina con i prodotti di Mariangela Prunotto.
Questa volta la raccolta era incentrata sulle ricette del Natale, con la libertà di scegliere un qualsiasi prodotto Prunotto e una qualsiasi categoria di ricetta. 
Io ho scelto la cögnà all’albese e, con la scusa, ne parlo a chi non la conosce. 
Si tratta di una salsa, a volte viene definita mostarda, ma non è del tutto esatto; io, da profana, la definirei più simile ad una marmellata.
Comunque la si voglia catalogare è una specialità unica che, manco a dirlo, ha una lunghissima storia. Ho letto che un paio di generazioni fa gli albesi non sapevano neppure cosa fosse la cögnà dei loro antenati…la ricetta si era quasi perduta. Poi qualcuno l’ha riportata in auge ed ora viene sempre proposta tra le salse per i bolliti di carne e tra le confetture d’accompagnamento ai formaggi.
La ricetta non è unica, anzi varia da cascina a cascina, ma il componente principale è sempre il mosto d’uva, di solito uve raccolte tardivamente. 
Al mosto, passato al setaccio per togliere i vinaccioli, venivano aggiunti quei frutti che facilmente si trovavano nelle cascine nel periodo di preparazione della cögnà: mele, mele cotogne e pere; qualche ricetta prevede l’aggiunta di fichi. Il tutto viene fatto cuocere per 14/16 ore a fuoco lento. L’aggiunta di zucchero non è necessaria, perchè il mosto fa da conservante naturale per la frutta. A fine cottura vengono aggiunte anche le noci e le nocciole, che rendono questa conserva ancora più golosa. 
Tradizionalmemte veniva conservata nelle tupine, dei grandi vasi di coccio, tenuti al fresco nelle cantine e coperti semplicemente da un piatto.
La cögnà, come potete immaginare non è molto dolce, ma è una vera sorpresa dal punto di vista dei tanti sapori diversi che ne emergono.
Se oggi è servita coi formaggi e le carni, un tempo rappresentava un insaporitore per la polenta.
Io ho voluto seguire la tradizione e farne un simpatico finger food. I cubetti di polenta sono di per sè già saporiti, ma il contrasto con il dolce delicato della cögnà è sorprendente.
Questa storia di abbinamenti è perfetta per introdurre i pranzi dei giorni di festa.
La ricetta: Cubetti di polenta farciti con Cögnà all’albese di Mariangela Prunotto.
(per 6 cuboni)
75 g di farina di mais precotta per polenta
250 ml d’acqua
1/2 cucchiaino di sale
parmigiano grattugiato 
50 g di gorgonzola
1 cucchiaino di burro
In un pentolino ho portato ad ebollizione l’acqua. L’ho salata e vi ho versato a pioggia la farina di mais, sempre mescolando. Ho continuato a mescolare finchè tutta l’acqua era assorbita, poi ho versato il gorgonzola tagliato a cubetti e il parmigiano grattugiato. Ho inumidito un recipiente quadrato con acqua fredda e vi ho versato la polenta, livellandola con il dorso di un cucchiaio bagnato.
Ho lasciato raffreddare per almeno un’ora, meglio di più.
Ho sformato il parallelepipedo di polenta su una teglia da forno, foderata di carta forno e l’ho tagliato in 6 cubi. Con uno scavino da melone ho scavato i cubi, tenendo da parte la prima semisfera e poi rendendo il buco più profondo, fin quasi in fondo al cubetto. Poi ho riscaldato tutto in forno per qualche minuto.
In ogni cubo ho deposto 2 cucchiaini di cögna Mariangela Prunotto. Ho completato con la calottina tenuta da parte ed ho servito su cavolo rosso affettato finissimamente.
 Come detto sopra con questa ricetta partecipo alla raccolta di Valentina del blog Cucina e Cantina, in collaborazione con Mariangela Prunotto “Raccolta di Natale”.

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