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Nonnevotten, le frittelle dei Paesi Bassi

Dopo la Rijstevlaai, ancora una ricetta della Limburg per la raccolta Abbecedario Culinario dell’Unione Europea, che questo mese si svolge sul blog di Mony, Gata da Plar, dedicato ai Paesi Bassi, e ancora una ricetta dolce.
Archiviate le feste natalizie già si pensa al Carnevale ed arriva il tempo delle frittelle. I dolci fritti sono simili in ogni parte del mondo e queste frittelle olandesi non sono molto diverse dalle zeppole.
Una simpatica curiosità questa volta riguarda il loro nome: letteralmente nonnevot significa “sedere di monaca”; pare che le monache francescane nel tardo ‘800 avessero in effetti un nodo simile sul di dietro del loro saio e questi dolci sono stati chiamati così per questa ragione.
Ho cercato su
google delle immagini per capire come vengono servite: alcune sono
spolverate di zucchero e altre servite al naturale. Secondo me si
possono anche farcire di crema, come i classici krapfen…l’importante è
farle e gustarle quasi subito, quando sono ancora calde.

La ricetta: Nonnevotten

(per 12 pezzi)
275 g farina manitoba
125 g di latte
10 g di lievito di birra
30 g di burro
1 cucchiaio di zucchero
1 pizzico di sale

olio per friggere

Ho sciolto il lievito di birra nel latte tiepido con mezzo cucchiaino di zucchero.
Ho mescolato 200 g di farina con il sale e lo zucchero.
Ho fatto sciogliere il burro.
Ho cominciato ad impastare versando il latte nella farina, fino a formare una pastella densa. Poi ho aggiunto il burro sciolto, ormai tiepido.
Gradualmente ho aggiunto i restanti 75 g di farina, fino ad ottenere un impasto lavorabile,  morbido ma non appiccicoso.
Ho messo a lievitare in un recipiente coperto da pellicola fino al raddoppio.
Ho diviso l’impasto in 12 porzioni ed ho lavorato ciascuna nel seguente modo: l’ho impastata dolcemente per qualche istante, ne ho ricavato un serpentello cicciotto e da questo ho ricavato un nodo.
Ho messo i nodi a lievitare per circa mezz’ora in un luogo caldo, ben distanziati e coperti da pellicola.
Ho fatto scaldare l’olio di semi e vi ho fritto ogni nodo finché non era dorato e poi l’ho fatto asciugare sulla carta assorbente.
Ho rotolato le frittelle nello zucchero semolato e subito servito.

 E anche questa ricetta finisce nell’Abbecedario Culinario dell’Unione Europea!!

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Galette des Rois per l’Epifania Il dolce parigino dell'Epifania per eccellenza

Oggi non poteva mancare un dolce, per di più dal momento che l’Epifania è l’unica occasione dell’anno in cui questa prelibatezza si dovrebbe gustare: la galette des Rois parisienne.

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Cicatielli Irpini con broccoli e pancetta

Eccoci al primo post del 2013 con i buoni propositi per il nuovo anno.
Mi sono chiesta cosa vorrei continuare a scrivere in questo mio spazio e mi sono ritrovata a sfogliare le pagine che più amo con le ricette più riuscite.
Voglio continuare a sperimentare ricette che hanno una storia, cibi che parlano e che raccontano le loro origini; voglio dare nuovamente spazio alla rubrica Tea Time, con nuove idee, e a quella del Panificiocon nuovi esperimenti lievitati; voglio conoscere e condividere le ricette di altri paesi e lo farò grazie alla mia partecipazione all’Abbecedario Culinario; e vorrei imparare ancora molto da tutti voi che passate da queste parti.

Comincio l’anno con una pasta fresca speciale che di storia ne ha tanta.
E’ una pasta del sud, precisamente dell’Irpinia, che è diventata il simbolo di Montecalvo Irpino e che è tradizionalmente preparata con la farina di grano duro di quella zona.
La leggenda narra che sia stata inventata da una moglie che aveva appena scoperto il tradimento del marito. Nel formare questa pasta i pezzetti vengono fatti rotolare sulla spianatoia, comprimendoli con due o tre dita della mano, “ciecandoli” insomma con rabbia e forza. Chi ha già lavorato la pasta di grano duro sa quanta energia ci voglia!!
Pare che la moglie tradita grazie a questo piatto di pasta riuscì a riconquistare il marito infedele… Io, dopo averla assaggiata, vi dico che ne vale la pena anche senza dover sanare incomprensioni domestiche.
Anche il condimento tradizionale si rifà ad una simbologia: c’è il ragù con la braciola, detta braciola della moglie, c’è il sugo di pomodoro insaporito con la ricotta salata, e c’è la variante più adatta a questa stagione: i cicatielli co’ ruoccoli e scardella. I broccoletti, i ruoccoli, sono della varietà napoletana; la scardella è un particolare tipo di pancetta dell’Irpinia.
E se volete sapere cosa significa il detto “chi si magna lu ruoccolo s’adda
sta fermo cu lu paruoccolo
“,
andate a leggere qui.

La ricetta tradizionale prevede tutta farina di grano duro, nella variante campana saraolla, e prodotti del territorio per il condimento. Io ho rivisitato la ricetta con quello che sono riuscita a trovare qua, ottenendo ugualmente un ottimo piatto. Naturalmente, se vi trovaste in quei luoghi sarebbe un sacrilegio non provarli con i prodotti originali, tanto più che l’Irpinia è una terra di ottimi vini!!
La ricetta originale prevede che i cicatielli vengano lessati assieme ai broccoletti e poi saltati insieme in padella con la pancetta, mentre io ho fatto sbollentare i broccoli in precedenza.

La ricetta: Cicatielli con broccoletti e pancetta.
per la pasta: 
150 g di farina di semola di grano duro 
50 g di farina 00
acqua calda
sale

250 g di broccolo fresco
70 g di pancetta a dadini
1 spicchio d’aglio

Ho impastato i due tipi di farina con il sale e l’acqua calda, fino a formare un impasto sodo.
L’ho lasciato riposare per 20 minuti.
Ho preso una porzione di pasta e vi ho ricavato un serpentello lungo del diametro di 1 cm. Ho tagliato il serpentello in pezzetti di 3 cm e poi con tre dita ho schiacciato ogni pezzetto di pasta, facendolo rotolare sulla spianatoia infarinata.
Ho ripetuto fino ad esaurire la pasta.

Ho preparato il condimento, lavando e lessando i broccoli e schiacciandoli leggermente con la forchetta.
In un’ampia padella ho messo lo spicchio d’aglio in due cucchiai di olio evo. L’ho fatto leggermente rosolare ed ho aggiunto la pancetta a dadini, lasciando che si dorasse per bene. Poi ho aggiunto i broccoli e ho fatto proseguire la cottura, aggiungendo all’occorrenza un goccino d’acqua calda. 

Ho lessato i cicatielli in abbondante acqua salata e li ho fatti saltare in padella con il condimento finché erano ben insaporiti.

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# 15 – Calendario dell’Avvento – Speculoos

Gli Speculoos sono biscotti tipici natalizi, ancora una volta del Nord Europa, e suggellano direi in modo definitivo il mio amore per le terre del nord. 

Il loro nome, Speculoos/Speculaas, ha un’assonanza con le spezie con cui sono aromatizzati: un tripudio, di cannella, zenzero e chiodi di garofano, ma anche noce moscata e cardamomo. In realtà però il significato del nome è un altro, deriva dal latino speculum, specchio, poiché i biscotti originali a forma di animali, venivano ricavati con degli stampi di legno incisi per l’appunto specularmente.
Un tempo erano i biscotti del 6 dicembre, preparati in terra fiamminga per festeggiare San Nicola, che lassù al nord viene assimilato a Babbo Natale e porta i doni ai bambini. Oggi vengono naturalmente prodotti tutto l’anno.
Certo che preparali in questa stagione, con il gelo fuori e le finestre ben chiuse, quando la casa si riempie magicamente dell’aroma di terre lontane è tutt’altra faccenda.
Perfetti da confezionare e regalare perché si mantengono a lungo croccanti, sono perfetti da accompagnare ad un tè aromatizzato, magari con erbe e spezie, per far durare di più in bocca questo divino sapore.
La ricetta che ho utilizzato è quella di Sigrid del Cavoletto, con leggere variazioni. Io ho aggiunto un velo di deliziosa glassa alle spezie.
La ricetta: Speculoos
150 g di farina 
1 pizzico di sale
1/2 cucchiaino di lievito
100 g di burro
1/2 uovo sbattuto
125 g di zucchero di canna
1 cucchiaino raso di cannella in polvere
1 punta di cucchiaino di chiodi di garofano macinati
1 pizzico di zenzero
1 pizzico di cardamomo
1 spolverata di pepe bianco
1 grattata di noce moscata
5 cucchiai di zucchero a velo
spezie (cannella, garofano e zenzero)
acqua q.b.
Ho mescolato insieme la farina con lo zucchero, il lievito e le spezie.
Ho fatto sciogliere il burro e quando era tiepido l’ho mescolato alla farina, aggiungendo poi il mezzo uovo, sbattuto con un pizzico di sale.
Ho formato un impasto morbido e l’ho fatto riposare in frigo per 1 ora.
Ho steso una sfoglia alta 3 mm e vi ho ricavato i miei biscotti: i miei erano semplicemente tondi di 4 cm di diametro.
Ho fatto cuocere in forno caldo a 180° per 10 minuti.
Quando erano freddi li ho spennellati con una glassa ottenuta con zucchero a velo, le spezie e tanti cucchiaini d’acqua per ottenere un composto spalmabile ma denso.
Lasciar asciugare e confezionare a piacere: la maggior parte dei biscotti dovrebbero finire nel pacchetto, più che in pancia!!!

E ne approfitto per suggerirvi che i grossi vasi di vetro a chiusura ermetica sono un’idea alternativa alla biscottiera in ceramica o in latta!!

Con questo post vi segnalo che partecipo ad Anarchy Giveaway de La Banda dei Broccoli.

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# 10 – Calendario dell’Avvento – Bejgli Ungherese

 

Oggi arriva un dolce lievitato ungherese tipico del periodo natalizio.
Ancora una volta si tratta di un dolce arrotolato e il suo nome, bejgli, deriva dalla parola tedesca beugen, che significa piegare e curvare. Il ripieno è cospicuo e proposto in due varianti tradizionali: ai semi di papavero e alle noci.
In particolare quello alle noci è una confettura densa, quasi un marzapane di noci, compatto e zuccherino.
Il rotolo a volte è cotto disteso, altre volte piegato a ferro di cavallo, sempre spennellato di uovo sbattuto perché diventi bello dorato! Una volta cotto si serve tagliato a fette di un centimetro.
 
Per la ricetta dell’impasto ho seguito le indicazioni del libro Il Pane Fatto In Casa; per il ripieno alle noci ho trovato ottime indicazioni sul blog La cucina del gatto bianco, omettendo la marmellata.
Il mio bejgli ha gonfiato e quindi ha perso un po’ di compattezza nella fetta. Proverò ad arrotolarlo più stretto, magari con il ripieno di semi di papavero.
 
Il ripieno va preparato con un giorno d’anticipo perché i sapori si amalgamino bene.

La ricetta: Bejgli ungherese alle noci

ripieno:
200 g di noci tritate
180 g di zucchero semolato
8 cucchiai d’acqua
40 g di uva passa ammollata in 2 cucchiai di grappa
cannella
chiodi di garofano

impasto:
350 g di farina tipo 0
1 pizzico di sale
30 g di zucchero
10 g di lievito di birra
120 ml di latte tiepido
1 uovo sbattuto
50 g di burro fuso

Per il ripieno ho seguito le indicazioni de La cucina del gatto bianco, Ho preparato uno sciroppo con acqua e zucchero a cui ho aggiunto le noci tritate, facendo cuocere a bagnomaria per 15 minuti dal momento dell’ebollizione. All’ultimo si aggiungono l’uva sultanina che ho fatto ammorbidire in due cucchiai di grappa e le spezie. Poi si lascia riposare e raffreddare.

Ho mischiato la farina con il sale e lo zucchero.
Ho sciolto il lievito nel latte tiepido e poi l’ho aggiunto gradualmente alla farina cominciando ad impastare, nell’impastatrice.
Successivamente ho aggiunto l’uovo sbattuto e infine il burro fuso tiepido. Ho aspettato che l’imapsto incordasse. è stato necessario aggiungere 1 cucchiaio di farina perchè era troppo molle. Poi l’ho deposto in un recipiente pulito a riposare al caldo, fino al raddoppio.
 
Ho steso la pasta a forma di rettangolo. Ho spalmato su di essa il ripieno a temperatura ambiente. Ho arrotolato il bejgli formando un lungo rotolo e l’ho fatto lievitare fino al raddoppio coperto con pellicola trasparente.
 
Ho spennellato il rotolo con un tuorlo sbattuto e poi ho infornato a 190° per circa 20 minuti.

Il bejgli si serve a fette e si può conservare per un paio di settimane in una scatola di latta ben chiusa.

 

 

 

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# 5 – Calendario dell’Avvento – Carmignanini

La casellina di oggi del calendario dell’avvento è dedicata a Simona’s Kitchen che ha un blog che amo e che l’anno scorso, più o meno in questa stagione, grazie alla scusa del suo contest, mi ha dato la possibilità di andare a spasso per la mia città a fotografare un monumento che adoro, in una giornata freddissima e assolata come quella di oggi!
Al mio post sono poi arrivati dei premi, dei libri graditissimi, e una bellissima lettera dell’editore Claudio Martini, che mi ha commosso, e che mi ha incoraggiato a continuare la bellissima avventura del blog, regalandomi indirettamente tante altre bellissime soddisfazioni.
Il tempo è passato…ma da uno di quei libri ho voluto recuperare una ricetta adattissima a questo periodo. 
Dovete sapere che nel territorio pratese esiste una Strada dei Biscotti. Noi qui in Piemonte abbiamo la Via Francigena e la Via del Sale… loro hanno la Strada dei Biscotti: un percorso (che mi immagino profumato! ;)), che si snoda attraverso la Val di Bisenzio, i comuni di Prato e Montemurlo e poi i territori di Poggio a Caiano e Carmignano. Ognuno di questi luoghi ha i suoi biscotti tipici che sono stati raccolti, con tutte le varianti, in un libricino distribuito anche dalla Provincia di Prato. 
L’arrivo del Natale e la necessità di comporre dei piccoli doni per le persone care, rende questo librino particolarmente prezioso!!
Per questa occasione ho scelto un biscotto tipico di Carmignano, il Carmignanino.
Carmignano un tempo era detta Carmignan de’ fichi e i suoi fichi secchi, diventati prodotto agroalimentare tipico e presidio SlowFood nel 2001, cominciarono ad essere citati ufficialmente già dal XV secolo dal mercante Francesco Datini. Negli anni ’50 la coltivazione di questo prodotto cadde in disuso, come accadde per molti altri prodotti scarsamente produttivi. Oggi vengono valorizzati e fatti conoscere grazie a Benvenuto Fico Secco, la fiera che si svolge a fine ottobre, anche se un tempo la messa in commercio ufficiale avveniva proprio ai primi giorni di dicembre.
I fichi di Carmignano sono un’eccellenza che bisogna assaggiare almeno una volta nella vita, ma anche se in questo momento non li avete a disposizione, nulla vi vieta di provare a fare (e, se volete, regalare)  i Carmignanini che sono semplicissimi e una vera delizia.
La ricetta: I Carmignanini
100 g di burro
100 g di zucchero
2 tuorli d’uovo
200 g di farina
1 pizzico di sale
la punta di un cucchiaino di lievito per dolci
vaniglia (qualche semino schiacciato o qualche goccia di essenza)
marmellata di fichi
250 g di fichi secchi (1/4 di fico per ogni biscotto)
Ho lavorato insieme burro e zucchero. Ho poi aggiunto i tuorli d’uovo.
Quando si era formata una crema omogenea ho amalgamato all’impasto la farina, il sale, il lievito e la vaniglia.
Ho formato una palla di impasto e l’ho lasciata riposare per circa 1 ora.
Ho ricavato una sfoglia alta 3-4 mm e vi ho ritagliato tanti cerchi del diametro di 4 cm. Su ogni cerchio ho spennellato la marmellata di fichi leggermente diluita e poi li ho accoppiati a due a due con 1/4 di fico secco al centro.
Ho fatto cuocere in forno caldo a 180° per circa 10 minuti.
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La Zuppa di Carote alla Crecy

La battaglia di Crecy fu una delle più importanti della Guerra dei Cent’anni, infatti il 26 agosto 1346 segnò la fine della cavalleria intesa in senso antico. Gli inglesi armati dei famosi longbow, gli archi lunghi, avendo una gittata decisamente superiore alle balestre usate fino a quel momento, evitarono lo scontro diretto, allungando le distanze tra gli eserciti nemici, e al tempo stesso abbatterono molta della cavalleria nobile francese, ancor prima che la battaglia entrasse nel vivo. 
La Francia schierava nelle sue fila tra i 50.000 e i 60.000 uomini, a seconda delle fonti dell’epoca, di cui circa 12.000 erano cavalieri, gli Inglesi erano poco più di 12.000 uomini, ma schierati a forma di cuneo lungo un terreno pianeggiante protetto ai lati da ostacoli naturali.
Ai primi lanci di frecce molti nobili francesi caddero dai cavalli feriti e furono costretti ad avanzare a piedi sotto il peso delle pesanti armature, mentre venivano nuovamente bersagliati dalle frecce nemiche. I balestrieri genovesi, sempre tra le fila francesi, non riuscirono a contrastare la potenza di fuoco.
Si racconta che il re Giovanni I di Boemia, saputo l’esito più probabile della battaglia, seppure ormai anziano e cieco, si fece legare al suo cavallo e si gettò verso l’esercito inglese urlando che prima di morire voleva combattere ancora l’ultima battaglia. Il giovanissimo Edoardo, principe di Galles, appena sedicenne e a capo di una delle sezioni dell’esercito inglese, ne rimase tanto colpito che volle per sé un’armatura uguale a quella del valoroso nemico. Il giovane “principe nero” venne anche immortalato dal pittore Julian Story in questa tela del 1888.
Al di là de La Manica, mangiare una zuppa alla Crecy significa commemorare questa celebre e drammatica battaglia, in Francia invece significa gustare le migliori carote del paese, proprio quelle di Crecy, in Piccardia, cucinate con una gustosa e confortante ricetta. La Potage Crecy viene affrontata anche da Julia Child nel suo Master of Frech Cooking e rappresenta un classico.
La zuppa può essere preparata con l’aggiunta di patate schiacciate  o con il riso per conferire cremosità. Io ho provato con il riso, che non modifica in alcun modo il sapore della zuppa e la rende molto sostanziosa senza alterare in alcun modo il sapore delle carote.
La ricetta: Zuppa di carote alla Crecy

(per 2 persone)
300 g di carote
1 cipolla
2 cucchiai di riso originario o comune da minestra
500 ml di brodo vegetale
olio extravergine di oliva 
sale
pepe bianco
era cipollina 

Ho preparato il brodo vegetale con carota, patata, cipolla, aglio e prezzemolo in acqua con olio e sale.

In una casseruola ho messo la cipolla tritata finemente, con un giro d’olio e l’ho fatta imbiondire leggermente, poi l’ho stufata con due dita di brodo e l’ho lasciata ammorbidire per 5 minuti.

Da parte ho lavato e pelato le carote e le ho tagliate a rondelle. Le ho aggiunte alla cipolla, le ho fatte insaporire e poi ho aggiunto il riso. Ho proseguito la cottura finchè le carote erano completamente morbide. Ci vorrà circa mezz’ora. Ho tenuto da parte qualche rondella di carota. Poi ho passato tutto il resto con il frullatore ad immersione fino ad ottenere una crema densa. Ho aggiunto ancora un poco di brodo e un filo d’olio in ogni piatto, decorando con una spolverata di erba cipollina, qualcuna delle rondelle di carota lasciate da parte e una macinata di pepe.


Con questa ricetta arancione partecipo alla puntata di novembre di Colors & Food dei blog di Cinzia, Essenza in Cucina, e di Valentina, My Taste For Food.

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Salone del Gusto 2012 – terza puntata

E dopo la seconda puntata eccoci giunti alla terza!

Come anticipato qui, il 25 ottobre grazie all’iniziativa di Francesca Martinengo e al coordinamento di Emanuela Sarti della BITEG sono stata tra le protagoniste, al Salone del Gusto, di un bel tour virtuale alla scoperta di prodotti e produttori eccellenti piemontesi. 
In particolare il mio tour era incentrato sul Monferrato e siamo state accompagnate nel tour da Clio Amerio.

Il territorio è in linea di massima quello compreso nelle province di Alessandria ed Asti e si estende verso sud fino a confinare con le province di Genova e Savona.  Viene suddiviso in quattro zone, l’Alto Monferrato di Acqui, Ovada e Gavi, il Monferrato Casalese, il Basso Monferrato Astigiano e l’Alto Monferrato Astigiano.
Il territorio è intriso di storia, lo testimoniano i suoi tanti castelli ben conservati, alcuni dei quali ricostruiti all’inizio del ‘900 in stile neomedievale.

Il Monferrato nacque come entità politica attorno all’anno Mille, quando l’Imperatore Ottone I di Sassonia beneficiò il marchese Aleramo di un territorio composto da 15 corti.

La leggenda racconta che Aleramo, “cavaliere particolare” e “mescitore di vini” alla corte di Ottone I, si fosse innamorato della figlia di Ottone, Alasia, e che, d’accordo con lei, fossero scappati insieme sfuggendo all’imperatore. Aleramo fece il carbonaio per molti anni, ma poi finì per partecipare e distinguersi per il suo valore durante la battaglia di Brescia. L’imperatore Ottone lo riconobbe, lo perdonò e lo nominò Marchese. Nel gesto di volergli far dono di un territorio, gli diede un cavallo e gli disse che i confini del suo marchesato sarebbero stati quelli che Aleramo sarebbe riuscito a percorrere in tre giorni di cavalcata. Da questa leggenda deriva anche la spiegazione più affascinante del nome Monferrato, che deriverebbe da mun, mattone, e fra, ferrato, in quanto Aleramo sprovvisto di altri strumenti, si ingegnò a ferrare il suo cavallo con l’aiuto di un mattone. Le altre etimologie fano riferimento a mons ferax, monte fertile e mons farratum, monte coltivato a farro.

Dopo secoli di storia, che a un certo punto si fuse con quella del regno di Savoia, attualmente il Monferrato è candidato per essere inserito nel patrimonio mondiale dell’Unesco.  

Al Salone del Gusto di quest’anno il Monferrato ha preso il posto di tutto rispetto che merita! Per questo ha messo in piedi il Monferrato Circus, un vero e proprio tendone circense al di sotto del quale si esibivano naturalmente i cuochi, ma anche trapezisti ed acrobati, facendo di una cena uno spettacolo a 360°.

Gli chef protagonisti di questo evento sono stati Walter Ferretto, del ristorante Il Cascinale Nuovo di Isola d’Asti e Andrea Ribaldone, fino a questa primavera, chef e socio del ristorante La Fermata a Spinetta Marengo.

Walter Ferretto ha avuto anche la bella responsabilità di guidare noi foodblogger 2.0 alla scoperta di prodotti deliziosi, ma talvolta ancora poco conosciuti.

Siamo partiti da Tonco d’Asti alla scoperta dell’azienda Artuffo, nata ormai 35 anni or sono, dove si pratica l’allevamento del “rurale all’aperto”. Non c’è solo l’allevamento del Tonchese, una qualità avicola pregiata, ma anche la filiera circostante, dal mais al frutteto. Gli animali dell’azienda Artuffo vivono a terra e all’aperto, rientrando al coperto solo di notte. Si parla di gallinella o galletti, e non di polli, poichè raggiungono la maturità sessuale; i galletti ad etichetta blu vivono dai 130 ai 160 130 giorni, quando i polli di comuni allevamenti raggiungono mediamente i 50 giorni di vita e un peso doppio.

E’ bello sentir raccontare di come Artuffo sia partito con l’allevamento in conto terzi, per riuscire dopo molti anni ad avere la propria azienda, e a garantire un prodotto assolutamente naturale; è ancor più bello poter assaggiare la sua gallinella cucinata da Walter Ferretto con verza stufata, castagne lessate e servita con una purea di zucca e mele.

Dopo Artuffo conosciamo Marco Garando, il giovane imprenditore del Caseificio Pepe 1924, di Costigliole d’Asti. Marco è stato cuoco nel ristorante di Walter Ferretto, poi ha deciso di aprire un caseificio, dedicandolo al nonno Giuseppe. Ci racconta come sia difficile in quella zona procurarsi il latte, dovendosi spostare giornalmente di 30 km, ma nonostante ciò Marco crede in quello che fa, lavorando in un laboratorio a vista, dove ogni trasformazione avviene alla luce del sole. 
Assaggiando i suoi formaggi e il suo yogurt capisco quanto grande sia la sua passione.

Ci vengono brevemente presentati anche il Montebore Vallenostra e il Salame Nobile del Giarolo.

Poi viene la volta di conoscere la pasta di Antignano, pasta prodotta con semola di grano duro e farina di mais ottofile. La coltivazione di questo tipo di mais era stata abbandonata durante il XIX secolo, perchè scarsamente produttiva. E’ stata poi riscoperta grazie a Nandino, contadino di Antignano, e riportata in vita. Il mais ottofile di Antignano viene macinato rigorosamente a pietra e da esso si ottiene un’eccellente qualità di polenta e una pasta “da accarezzare”. 

Accanto alla pasta di Antignano, usciamo per qualche istante dalla provincia di Asti, per cogliere l’occasione di assaggiare anche le conserve “come una volta”  della Signora Cuniberto. L’Azienda è situata a Govone, in provincia di Cuneo, e le sue composte e sughi hanno il profumo delle cose antiche, in perfetto stile piemontese.

A questo punto ci spostiamo a Nizza Monferrato dall’Azienda Agricola Colle San Michele,  a conoscere il Cardo Gobbo Nicese, presidio Slow Food, ingrediente irrinunciabile della bagna caoda, e di tante altre ricette piemontesi. Un entusiasta agricoltore ci spiega nei dettagli tutta la faticosa coltivazione di questo ortaggio, che è gobbo, in quanto viene piegato e coperto dalla terra perchè si mantenga bianco e dolce. Ed è dolcissimo davvero, per ripagare i suoi coltivatori della tanta fatica. 

Accanto al Cardo Gobbo, nella stessa Azienda, ci sono Le Delizie di Rosanna, confetture, erbe aromatiche lavorate, salse e mostarde, tutte preparate secondo le ricette della tradizione piemontese; Rosanna ha anche un progetto bello ed ambizioso, dei laboratori pratici per insegnare a giovani studenti l’arte della coltivazione e trasformazione delle erbe aromatiche.

Per ricordare questo viaggio tra le delizie del Monferrato, ho voluto preparare il galletto Tonchese Astigiano secondo una ricetta della provincia di Alessandria. 

Il Pollo alla Marengo si dice sia stato gustato da Napoleone dopo la vittoria della celebre battaglia omonima contro l’esercito austriaco, presso Spinetta Marengo. 
Si combattè per 15 ore, e si può ipotizzare che l’Empereur fosse decisamente affamato. Il suo cuoco di campo gli preparò un sostanzioso piatto con quello che aveva facilmente a disposizione, un pollo o un galletto ruspante, delle uova, dei gamberi di fiume. Difficilmente questo cuoco si mise a cercare dei funghi alle 11 di sera del 14 giugno e assolutamente remote sono le possibilità che li trovasse per caso. Ma la tradizione vuole che la ricetta sia passata alla storia così, con i funghi e tutto il resto, e così l’ho preparata.
Ho sostituito il brodo di pollo con del brodo vegetale e i gamberi di fiume con delle mazzancolle. Naturalmente al posto del pollo ho usato un galletto tonchese, che ben si è prestato a questa cottura in umido.
Regalo questa ricetta alla BITEG, in ringraziamento dell’interessante tour che ha dedicato a noi  foodblogger rappresentanti del Piemonte.

La ricetta: Galletto Tonchese alla Marengo

1 galletto Tonchese selezione blu
2/3 pomodori pelati
1 spicchio d’aglio
1/2 cipolla
1/2 bicchiere di vino bianco
brodo vegetale (o di pollo)
6 mazzancolle  (o gamberi di fiume)
300 g di funghi freschi 
2 uova
2 grosse fette di pane casareccio
2 cucchiai di olio extravergine
sale
pepe
prezzemolo
Ho preparato del brodo vegetale con acqua, carota, patata, sedano, cipolla, prezzemolo, olio e sale.
Ho tagliato a pezzi un galletto e l’ho spellato. Ho sciacquato i pezzi e li ho asciugati con cura; poi li ho passati nella farina.
Ho fatto scaldare l’olio in una pentola e poi vi ho rosolato bene i pezzi di galletto, insaporendo con sale e pepe. Li ho tolti e nello stesso olio ho rosolato per qualche istante la cipolla affettata, l’aglio e i pomodori pelati privati dei semi e tagliati a pezzettini. Ho sfumato con il vino bianco.
Ho rimesso in pentola i pezzi di galletto, li ho rigirati nel sughetto ed ho aggiunto un paio di mestoli di brodo. Ho fatto prendere il bollore a fuoco vivace e poi ho coperto per far cuocere, rigirando di tanto in tanto.
Dopo una ventina di minuti ho aggiunto i funghi tagliati a cubi e ho fatto completare la cottura, con una spolverata di prezzemolo tritato.
Ho stufato le mazzancolle in poco vino bianco, regolando di sale e pepe.
Ho rosolato le fette di pane in padella con un filo d’olio e le ho tenute al caldo. 
Ho fritto le uova in una padella unta d’olio.
Ho composto il piatto: da un lato ho adagiato la fetta di pane con sopra l’uovo all’occhio di bue; poi ho messo i pezzi di galletto, ben coperti dal loro sughetto con i funghi, ho contornato con le mazzancolle e servito!

Noi, in tema Monferrato, abbiamo aperto una bottiglia di ottimo Ruchè di Castagnole Monferrato, e il galletto, con questo sugo saporitissimo, ha retto benissimo il colpo!

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Fave dei morti per Halloween Tutta la tradizione della festa di Halloween

 
I telegiornali dicono che Halloween è la festa per bambini importata dagli Stati Uniti, ma non sempre dicono che negli Stati Uniti questa festa è arrivata dall’Europa, grazie agli immigrati irlandesi e scozzesi: All-Hallows-Eve significa infatti Vigilia di Ognissanti in scozzese antico.

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ai fornelli, ricette tradizionali

Tartrà per tutte le stagioni, ai peperoni o alla zucca, per La Svizzera nel Piatto.

Per La Svizzera nel Piatto, il contest organizzato dal Consorzio Formaggi della Svizzera in collaborazione con il blog di Teresa, Peperoni e Patate, bisognava elaborare una ricetta tradizionale italiana e reinterpretarla con l’utilizzo dei formaggi svizzeri più famosi.
Per questa prima ricetta – ma ne arriverà prestissimo un’altra – ho scelto lo Sbrinz, il più antico formaggio svizzero, il cui commerciò è documentato già nel 1530, quando mercanti a dorso di mulo portavano in Italia, attraverso i valichi alpini le enormi forme di Sbrinz scambiandole con sale e vino.
Lo Sbrinz è fatto con latte di vacca, non pastorizzato. La maturazione minima è di 16 mesi, ma diventa ideale a 18 mesi, quando diventa friabile e tenero ma piacevolmente piccantino e aromatico.
Lo Sbrinz possiede il marchio AOC (appellation d’origine controllèe) dal 2002 ed è un componente ideale per i taglieri ma anche il classico formaggio da grattugia.
Per la ricetta da presentare al contest sono andata a scovare una tradizionalissima ricetta piemontese, la tartrà. Si tratta di un budino di latte e panna, insaporito con tante erbe aromatiche dal gusto delizioso che ben si sposano con un formaggio prodotto con latte di mucche che si sono nutrite di grasse erbe alpine. La tartrà è un piatto versatilissimo che a seconda delle stagioni si può reinterpretare con un accompagnamento diverso.
Io ne ho proposte due versioni, una, per il primo autunno, con i peperoni e le acciughe e un’altra, per l’autunno avanzato, con la zucca e la pancetta.
La ricetta: Tartrà piemontese accompagnata da salse di verdura.
Per la tartrà (6 budini):
2 uova + 1 tuorlo
250 ml di latte intero
100 ml di panna da cucina
100 g di Sbrinz AOC grattugiato
1 porro
un trito composto da salvia, timo, rosmarino e alloro
20 g di burro
sale e pepe
Per la salsa al peperone:
1 peperone grande
1 grosso spicchio d’aglio
4 filetti di acciuga
olio d’oliva extravergine
50 ml di vino bianco
Per la crema di zucca:
300 g di zucca già pulita e lessata
½ cipolla piccola
70 g di pancetta affumicata
1 rametto di rosmarino
Ho fatto sciogliere il burro in un pentolino, aggiungendo il trito di erbe aromatiche e il porro tagliato finemente. Ho lasciato ammorbidire il porro per qualche minuto poi ho aggiunto la panna liquida, spegnendo quasi subito la fiamma e continuando a mescolare fino ad intiepidimento. A questo punto molti filtrano il tutto; io ho  invece lasciato le erbe aromatiche e il porro, in modo che il sapore fosse più intenso.
Ho sbattuto le uova con una bella presa di sale e una spolverata di pepe, aggiungendo lo Sbrinz grattugiato e il latte tiepido.
Ho unito i due composti e mescolato con cura; poi ho suddiviso in 6 pirottini da muffin grandi di silicone ed ho messo a cuocere in forno caldo a 190° a bagnomaria; in pratica in una teglia larga ho messo due dita di acqua calda e vi ho deposto tutti i pirottini con la tartrà liquida.
Quando i budini si saranno solidificati saranno pronti, nel caso si scurissero troppo coprirli con un foglio di alluminio.
Per la salsa di peperoni:
Ho tagliato il peperone a pezzettini minuti e l’ho messo a rosolare con l’aglio e un giro d’olio evo. Ho sfumato con il vino proseguendo la cottura Quando era morbido ho aggiunto le acciughe tagliate a pezzettini e le ho fatte sciogliere. Ho passato tutto al frullatore, togliendo l’aglio e regolando di sale.
Per la crema di zucca:
Ho fatto rosolare la cipolla tagliata sottile in un filo d’olio. Ho aggiunto la zucca lessata a cubetti, e insaporito con del rosmarino. Quando il tutto era morbido, ho frullato e regolato di sale. Da parte ho stufato della pancetta a cubetti, con un filo di vino.
Per comporre il piatto è sufficiente liberare la tartrà dal pirottino ed accostarvici la salsa che avete scelto. Per quella di zucca, decorare con i cubetti di pancetta.
Con questa ricetta partecipo al contest La Svizzera nel Piatto del blog Peperoni e Patate in collaborazione con il Consorzio Formaggi della Svizzera.
ai fornelli, ricette tradizionali

Il 7° World Bread Day e il Pane Polacco al Cumino

Oggi è la Giornata Mondiale dell’Alimentazione ed è anche il 7° World Bread Day, la giornata mondiale del pane, che rappresenta l’essenza più arcaica dell’alimentazione umana.
Il pane è nutrimento e simbolo e così non mi lascio sfuggire l’occasione di panificare proprio per questa giornata, giunta ormai alla settima edizione.
Sul blog di Zorra troverete un archivio delle ricette che da ormai 7 anni sono state preparate dalle foodbloggers di tutto il mondo. D’obbligo fare un salto anche sul blog di Cindy che si fa promotrice dell’iniziativa per l’Italia.
Anch’io ho dato il mio contributo, l’anno scorso, con il treccione di pane, e quest’anno con un pane scuro profumato di cumino, che è perfetto, nella stagione invernale, con gli stufati ricchi delle regioni dell’Europa del Nord, ma che resta morbido ed ottimo anche per una ricca colazione dolce.
Rispetto alla ricetta originale che ho trovato sul libro Il Pane fatto in casa di Christine Ingram e Jemmie Shapter, ho dimezzato la quantità di lievito, aumentando il tempo di lievitazione ed ottenendo un pane più leggero e che si mantiene morbido più a lungo.
Buon World Bread Day a tutti!! 

La ricetta: Pane polacco di segale al cumino
225 g di farina di segale per pane nero
225 g di farina bianca tipo 0
1 cucchiaio di semini di cumino
1 cucchiaino colmo di sale
10 g di lievito di birra fresco
140 ml di latte tiepido
1 cucchiaino di miele
120 ml di acqua.
Ho mischiato le farine con il sale e i semini di cumino.
Ho sciolto il lievito in parte del latte intiepidito e vi ho mischiato il miele, mescolando bene fino a sciogliere tutti i grumi.
Ho iniziato a versare al centro della farina questa mistura di latte e lievito, impastando con una forchetta. Ho aggiunto gradualmente il latte restante e poi l’acqua, fino a formare un impasto morbido.
Ho rovesciato tutto sulla spianatoia ed ho iniziato ad impastare, lavorando bene la palla per dieci minuti.
Ho messo il tutto a lievitare in un luogo ben riparato, in una ciotola unta, coperta di pellicola oliata.
Quando era raddoppiato, dopo circa 3 ore, ho diviso l’impasto in tre pezzi. Li ho lavorati brevemente ed ho formato tre ovali di pane, rimettendoli a lievitare al riparo, fino al completo raddoppio.
Ho poi informato le pagnotte a 220° per 20 minuti. Se sono cotte suonano vuote.
Appena sformate saranno molto croccanti, ma poi diventeranno morbidissime e si conserveranno bene per 3 giorni.
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