Category

ricette tradizionali

ai fornelli, ricette tradizionali

Lisbona e il Caldo Verde


Immaginate una coppia che parte per un viaggio – il primo viaggio che fanno solo in due –  i primi giorni di gennaio alla ricerca di un posto caldo, culturalmente stimolante, dove si mangia bene e non troppo affollato di turisti chiassosi.
il famoso electrico 28

La nostra scelta cade su Lisbona, la temperatura a gennaio oscilla fra i 10 e i 15 gradi, di norma piove, ma il vento del vicino oceano spazza in fretta le nubi e noi amiamo il vento e quel clima variabile e imprevedibile. 

Arriviamo la sera con il buio e la pioggia, un acquazzone incredibile che ci accoglie e ci infradicia e ci fa comprare un ombrellino che ci verrà in soccorso nei quattro giorni seguenti.
Largo di Carmo, Chiado
Lisbona con la pioggia assomiglia alla nostra Torino, dove ci siamo conosciuti e innamorati; è lucida e silenziosa, mentre le sagome scure dei passanti frettolosi compaiono sotto i lampioni e scompaiono subito dopo.
Gironzoliamo per il Barrio Alto, senza una vera meta, godendoci quel luccicare discreto e un’incantevole vista notturna della città dal miradouro de Sao Pedro de Alcantara.
la bianca Torre di Belem in stile manuelino

Il mattino seguente Lisbona brilla, il sole splende incredibilmente, tanto da farci girare con il cappotto aperto, e brilla anche la Torre di Belem, bianchissima e cesellata come se fosse di porcellana finissima.
Dopo un pranzo divino a base di açorda de marisco, una zuppa di pane e pesce, affondiamo i denti nei famosi Pasteis de Belem, tartellette di sfoglia ripiene di crema al latte caramellata, acquistate proprio dove si dice che siano nate, all’Antica Confitaria de Belem e ce le pappiamo ancora tiepide e spolverate di cannella.

il ponte 25 de abril e il Tago

Torniamo verso il centro, al Terreiro do Paço, anche detto
Praça do Comercio, sulle rive del Tago, un superbo ed enorme
quadrilatero che si svela in tutta la sua bellezza e che così si svelava
ai mercanti che approdavano dal Tago. 

L’enorme spianata di Praça do Comercio – Terreiro di Paço

io nella Rua Augusta
Lisbona qui mostra il suo lato regale, ai lati della Rua Augusta, che da qui comincia, si vede la collina di Castelo, con in cima il Castelo de Sao Jorge, dall’altro lato la collina de Sao Pedro de Alcantara e al centro si apre la Baixa, reticolo di strade dritte e ortogonali, fatto costruire in tutta fretta dal marchese di Pombal, ministro del re Joao I, dopo il devastante terremoto del 1755 che aveva lasciato in piedi solo il quartiere arabo dell’Alfama. 
Gli elevadores ci portano nei punti più panoramici di Lisbona, ma ce n’è uno particolare, quello de Santa Justa, che fu progettato da un allievo di Gustave Eiffel (quello della torre). Dalla cima di questa struttura neogotica in metallo che ci porta fin dentro il Chiado, vediamo la Baixa illuminata e tutta la Lisbona vecchia fino al Tago. 
L’elevador de Santa Justa
Affacciati sui tetti dell’Alfama

Il giorno dopo saliamo alla Feira de Ladra, il caratteristico mercato delle pulci del sabato, dove si dice che si possa trovare di tutto e dove bisogna stare attenti ai borseggiatori. L’Alfama invece svela a noi il suo lato più gentile, non sembra affatto rischiosa e il tram 28, un’istituzione per i turisti e i lisboneti, ci porta fino in cima e poi ci lascia al Miradouro di Santa Luzia dove c’è una delle più pittoresche viste dei tetti della Lisbona vecchia. 

l’Alfama dal Miradouro di Santa Luzia

Anche qui un acquazzone memorabile ci coglie di sorpresa e noi ci rifugiamo in un ristorantino dall’aria datata, con gli azulejos alle pareti, le caratteristiche piastrelle che rendono ogni locale vagamente anni ’50. Mangiamo strabene anche qui e, con la pancia piena, ritroviamo una città di nuovo illuminata dal sole. 

Estaçao do Rossio

Ripercorriamo la via Augusta fino alle piazze Dom Pedro IV e Restauradores e scopriamo la splendida Stazione del Rossio, un vero miracolo di arte liberty.
Da qui partiamo il mattino seguente per una gita all’incantevole cittadina di Sintra, che fu una delle residenze estive dei sovrani del Portogallo. Ci rimane impresso nel cuore il suo verde e l’arditezza di certe costruzioni, a volte fin troppo marcate e pesanti, ma che portano agli occhi e all’anima il senso di un popolo così antico e variegato. Influenze arabe e moresche, religiosità cristiana portata all’eccesso e mille altri particolari che sembrano essere un libro di decorativismo medievale a cielo aperto. Visitiamo il Castello dos Mouros e il Palacio de Pena costruito nel 1840, denso di tutti gli stili, dal gotico al manuelino, passando per il rinascimentale e il barocco.

Palacio de Pena
A Brasileira

La sera ci immergiamo nelle suggestioni di una Lisbona malinconica. Il solitario Pessoa di bronzo che, seduto su una panchina davanti al caffé A Brasileira, ci invita per una foto, la magia del fado, una cenetta romantica in un posticino delizioso.
Mangiamo il famoso Caldo Verde, una zuppa semplice e deliziosa, del chourizo affumicato, un saporitissimo formaggetto di capra e annaffiamo il tutto con buon vino e un bicchierino di Porto.

l’ultima sera a Lisbona

L’ultimo giorno vediamo Lisbona dal punto più alto del Parque Eduardo VII.

Parque Eduardo VII

L’urbanistica della città ci è ancora più chiara da quassù. Un ultimo veloce saluto alla Praça de Touros e poi via, con un ricordo di viaggio che ci porteremo dentro per sempre.



La ricetta: Il Caldo Verde di Lisbona 
E’ una zuppa semplicissima, ma veramente saporita. Avevo provato a cucinarla prima di partire, senza aver ben chiaro quale potesse essere il risultato finale… Una volta gustata sul posto, ho provato a rifarla ed è venuta quasi uguale all’originale assaggiato a Lisbona.


Io ho usato per due persone:
250 g di patate già sbucciate
7/8 foglie esterne di una verza
mezza cipolla
uno spicchio d’aglio
olio evo


Ho messo in un pentolino, abbondante acqua per lessare le patate, già sbucciate e tagliate a pezzetti. Ho salato l’acqua e vi ho aggiunto tre cucchiai d’olio, la cipolla e lo spicchio d’aglio spezzato.
Mentre le patate cuocevano ho lavato la verza, l’ho arrotolata su se stessa come un sigaro e l’ho tagliata finemente: deve assomigliare ad erba.
Quando le patate erano morbide, le ho tirate fuori dal brodo e le ho schiacciate ben bene con la forchetta, fino a ridurle in purea. Poi ho versato questa purea di nuovo nel brodo, aggiustando di sale. 
Quando la zuppa riprende bollore, si aggiunge la verza a striscioline. Deve cuocere per circa 10 minuti. L’ho lasciata ammorbidire, ma bisogna stare attenti che tutto il Caldo Verde resti verde e non viri verso il giallo, con una cottura eccessiva.
Questa zuppa si serve aggiungendo un filo d’olio nella scodella e fette di pane di miglio (o integrale, come ho fatto io) e talvolta anche olive nere.
Il fiore all’occhiello sono fettine di chourizo affumicato, circa tre per ogni commensale, aggiunte all’ultimo!

ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

Il Cappon Magro dell’estate

Il Cappon Magro è un piatto di origine antica. 
Le leggende sulla sua nascita sono tante ed ognuna sembra raccontare una parte di verità.
Alcuni dicono che una preparazione simile veniva portata dai marinai sulle navi, l’aceto infatti permette la conservazione dei cibi deperibili.
Altri fanno risalire l’origine del nome alla contrapposizione tra il pesce cappone e il cappone da cortile. Per rispettare le regole alimentari del periodo quaresimale e delle altre vigilie, il cappon magro appagava l’occhio e il gusto, senza essere carne.
Altri ancora parlano della composizione scenografica a strati come di un’invenzione rinascimentale o barocca, quando le tavole imbandite davano lustro ad una casata anche con bizzarre sculture di cibo.
Altri ancora dicono che il cappon magro in origine era un cibo tutt’altro che nobile e che si facesse con gli avanzi dei banchetti recuperati dalla servitù.
Tante diverse spiegazioni per un piatto che affascina, innanzitutto per i suoi colori, per la sua struttura che sfida la gravità e infine per la freschezza datagli dall’aceto. 
Cibo tradizionale della vigilia di Natale, ma anche per il periodo quaresimale, recentemente è riproposto in ristoranti raffinati, con bellissime monoporzioni.
La sua preparazione, un po’ lunga, è facilissima e può essere preparato in casa, in anticipo e sfoderato in un battibaleno.
Io ho fatto una versione con verdure estive, quindi non ci sono broccoletti, cavolfiori e rape rosse, ma altre verdure colorate che si trovano in questo periodo.
La decorazione superficiale può essere fatta con qualsiasi frutto di mare voi abbiate a disposizione. Nelle mie monoporzioni c’era una semplice seppiolina infilzata.

La ricetta: Cappon Magro estivo
ingredienti (per 4 monoporzioni – le coppette erano di 10 cm di diametro)
4 rapanelli (più qualcuno per decorare)
una manciata di fagiolini
2 carote
2 patate medie
1 peperone
3 nasellini (piccoli, va bene qualsiasi pesce a carne bianca, quello che trovate o che vi fa più comodo utilizzare; anche avanzato, purchè sia sufficiente per fare un bello strato)
gallette del marinaio (io non sapevo dove andare a pescarle e ho usato delle gallette integrali, vanno bene anche sottili fette di pane raffermo a mollica fitta) 

per intervallare ogni strato: salsa verde alla ligure preparata almeno 24 ore prima
Ho fatto lessare in acqua salata le verdure separatamente, in modo che fossero al dente, le ho affettate e condite in tanti piattini separati con olio e qualche goccia di aceto. Man mano che si raffreddano si possono mettere in frigo, in attesa che tutte le verdure siano pronte.
Ho lessato il pesce e l’ho condito con olio e limone.
Ho rivestito le ciotole con pellicola per alimenti, poi ho cominciato a mettere gli strati di verdurine.
Prima le fettine di ravanello, poi fagiolini, rondelle di carota, fette sottili di patata, listarelle di peperone, uno strato spesso di pesce a filetti. Ogni strato deve essere intervallato dalla salsa verde alla ligure.
Sopra il pesce ho messo la galletta, pressando bene e poi spruzzandola di aceto.
Ho ripiegato i lembi di pellicola sulla galletta, richiudendo il tutto e mettendo le ciotole in frigo.
Io ho lasciato in frigo una notte intera, tutti gli ingredienti si compattano ben bene e si insaporiscono di salsa.
Al momento di servire, ho capovolto le ciotole nel piatto e decorato con una seppiolina sbollentata e portato in tavola con focaccia genovese ancora tiepida fatta con questa ricetta di Vittorio Viarengo.

ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

La mia cena cinese fatta in casa

Ci pensavo già da qualche giorno, da quando avevo visto la ricetta degli involtini primavera sul blog di Vera. Ho pensato che invece di fare il solito pollo alle mandorle potevo abbinare diversi piatti.

Il caso ha voluto che incrociassi anche la foto dei Mantou in una mostra sul pane che c’è alle Ex OGR qui a Torino. Questi famigerati mantou, io non li avevo mai sentiti… Si tratta di pane cinese, un pane lievitato e poi cotto a vapore, che resta sofficioso e bianco e che si trova coniugato in diverse declinazioni anche in Giappone, Corea e Filippine. 
Alcuni li servono anche in versione dolce, facendo bocconcini piccini e bagnandoli in una salsa che assomiglia al latte condensato.
Quindi sono andata alla ricerca della ricetta dettagliata. Ho trovato diverse alternative in rete, ma alla fine ho usato, come al solito, una soluzione mia, mescolanza di tutte le altre…diminuendo un po’ le dosi, per l’esigenza di non riempirmi la casa di panini cinesi, (come Heidi aveva riempito l’armadio di panini bianchi!!! Qualcuno se la ricorda?).

Infine c’era il pollo alle mandorle, che preparo abbastanza spesso, perchè mi piacciono i piccoli pezzettini sugosi e la croccantezza delle mandorle.

Alla fine di un pomeriggio full immersion nella cucina cinese ho pensato che il detto “lavorare come uno schiavo” non era più azzeccato…quindi è stato prontamente sostituito con “lavorare come un cuoco cinese”!!!

Ora metto tutte le ricette e un po’ di foto!!!
Qǐng xiǎngyòng! [Buon appetito!]

Gli involtini primavera.

Ho seguito pari pari la ricetta di Vera che trovate qui.
Per mia comodità metto le dosi che ho utilizzato, con le quali ho confezionato 12 involtini.
per le sfoglie:
150 g di farina (anche farina di riso)
50 g di semola fine
375 g di acqua
1 cucchiaino di sale
per il ripieno:
1/3 di un cavolo cappuccio
1 carota grossa
1/2 porro
2 cucchiai di salsa di soia (io uso quella dolce, così poi regolo di sale alla fine, per non trovarsi con un cibo troppo salato nel piatto)
per friggere:
olio di arachidi
Il procedimento è spiegato molto bene, perciò non aggiungo altro, se non qualche consiglio:
–  non fare la sfoglia troppo spessa, altrimenti è a rischio rottura durante l’arrotolatura; 
–  non fare la sfoglia troppo sottile, altrimenti è a rischio rottura durante la frittura;
– mettere gli involtini pronti, in attesa di essere fritti, in un piatto leggermente unto, altrimenti c’è il rischio rottura;
– friggere bene il primo lato prima di girare l’involtino, altrimenti si è a rischio rottura;
A parte queste accortezze, è abbastanza facile farli, anche se occorre un po’ di pazienza!!!
Io ne ho fritti solo sei, gli altri li ho avvolti in pellicola per alimenti e congelati.
Il ripieno dei miei involtini mi è sembrato più saporito di qualsiasi altro assaggiato in ristorante cinese, ma credo che fosse l’adrenalina per essere riuscita a prepararli!! 🙂
belli dorati
Pollo alle mandorle
(per 2 persone)
circa 250 g di petto di pollo, (peso già privo di scarti)
35 g di mandorle pelate
salsa di soia dolce (da aggiungere a piacere)
mezzo bicchiere di vino bianco
un cucchiaio di farina
sale, olio
Per prepararlo, taglio il pollo, ben pulito, a cubettini di un cm di lato e lo metto a marinare in frigorifero, con il vino bianco e la salsa di soia. Deve marinare un paio d’ore, in modo che si insaporisca bene. Mezz’ora prima di cuocere aggiungo anche le mandorle nella marinatura.
La cottura sarà molto veloce, perchè i pezzettini così piccoli cuoceranno in un attimo, quindi la marinatura è molto importante.
Nell’olio caldo, verso i pezzettini di pollo e le mandorle, facendoli rosolare per qualche istante. Poi aggiungo il liquido di marinatura e lascio cuocere per qualche minuto.
Diluisco la farina con un cucchiaio del brodino di cottura e poi aggiungo il tutto in padella. Servirà per far rassodare il sughetto e renderlo vellutato.
Regolare di sale prima di servire.
il pollo alle mandorle
Mantou (Panini cinesi al vapore)
ingredienti (per 8 mantou, più una parte di impasto che andrà a costituire 6 baozi):
per l’impasto:
200 g di farina
1/4 di bustina di lievito secco (bustina da 7g)
la punta di un cucchiaino di zucchero
80 ml di acqua

Una parte di questi mantou sono diventati baozi, ovvero hanno accolto un po’ di ripieno dell’involtino primavera, oppure un ripieno fatto con la carne tritata di maiale. Così ripieni ci sono piaciuti di più, concettualmente assomigliano ai ravioli al vapore, ma rimangono gonfi perchè lievitati.

per il ripieno dei baozi:
qualche cucchiaiata del ripieno degli involtini primavera
3 cucchiai di carne tritata magra di maiale
due cucchiai di salsa di soia dolce
sale
un pezzetto di cipolla tritata

Ho sciolto il lievito in acqua con la punta di zucchero ed ho aspettato che si formasse la schiumetta in superficie (circa 15 minuti).
Ho cominciato ad aggiungere acqua alla farina e ad impastare con una forchetta e quando la palla si è staccata dai bordi della ciotola ho aggiunto un piccolo pizzico di sale.
Ho impastato a lungo ed energicamente sulla spianatoia, finchè la pasta non è diventata liscia.
Ho messo a lievitare in un luogo riparato.
Dopo un’ora ho ripreso l’impasto, l’ho sgonfiato e rimesso a lievitare per un’altra mezz’ora.
Passato questo tempo ho messo su una pentola piena d’acqua la gratella per cuocere le verdure a vapore. Sarebbe meglio avere i cestini di bambù che utilizzano nei ristoranti cinesi…ma come immaginate non ne ero fornita!! 😀
Ho fatto delle palline grandi come albicocche. In realtà consiglio di farle più piccole, perchè in questo modo il panino cresce meglio e cuoce uniformente; bisogna tener presente che in cottura lieviterà e quindi bisogna lasciargli lo spazio tutto intorno.
Perchè non si attaccassero ho messo una spolverata di semola sul fondo.

i miei mantou sono un po’ grandi…
Con una parte di impasto ho fatto dei baozi. E’ sufficiente prendere una porzione di impasto schiacciarla come se fosse una focaccetta e riempirla con verdure o carne ed infine richiuderla pizzicandone il bordo. Io ho usato una parte del ripieno degli involtini primavera e un altro ripieno fatto con carne tritata di maiale, passata velocemente sul fuoco con cipolla e salsa di soia.
Poi si cuociono a vapore come i mantou.
Questi panini si servono caldi ma, se non avete una cucina professionale con cento fornelli, potete tenerli in un piatto, a portata di calore, mentre si finiscono di preparare gli altri piatti!!! 

Quelli tondi sono baozi con verdure, quelli lunghi baozi con carne…brutti ma buoni
Ecco il ripieno del baozi

Vi lascio con una breve leggenda sulla nascita dei mantou.

Si narra che il conquistatore Zhuge Liang di ritorno da una delle sue campagne di conquista si trovò davanti un fiume talmente impetuoso che sembrava impossibile guadarlo. Un saggio gli disse che era usanza sacrificare cinquanta uomini per placare gli dei dell’acqua, ma Zhuge Liang era stanco di spargere sangue. Allora fece macellare le bestie che viaggiavano insieme all’esercito e con la loro carne farcì dei panini a forma di testa, tondi sopra e piatti alla base, che fece gettare nel fiume. Dopo che l’attraversamento ebbe successo, ribattezzò questi panini mantou, ovvero testa di barbaro.
in viaggio, ricette tradizionali

Genova e la focaccia di Recco La celebre focaccia al formaggio ligure da gustare calda

L’anno scorso all’inizio dell’estate abbiamo fatto una gita a Genova.
Genova è una città che bisogna esplorare, non basta attraversarla di corsa raggiungendo il porto per capire come è fatta. Certo andarci per visitare l’enorme attrazione dell’Acquario è già un passo, ma questa tentacolare attrazione non vi dirà molto sul carattere dei genovesi.
Per sperare di capirci qualcosina in più bisogna entrare nei suoi vicoli, assaporare i suoi profumi, incrociare gli sguardi del popolo multietnico che da secoli la abita.
Genova è una città di mare, il capoluogo di un grande porto e ha alcune caratteristiche che si possono riscontrare solo in città testimoni di così grandi passaggi di flussi umani. A un primo sguardo può risultare caotica, disordinata, come una donna spettinata, sorpresa nella sua privacy e gelosa di conservare la propria intimità.
In realtà ha bellezze da mostrare a chi si addentra con più attenzione tra le sue strade.
 
Il pretesto per la nostra gita è stato la mostra “Caravaggio e l’arte della fuga. La pittura di paesaggio nelle Ville Doria Pamphilj” che era allestita nella villa cittadina del Principe Doria.
Proprio da lì è partita la nostra visita, tra le arcate a tutto sesto di ritmo chiaramente rinascimentale e il giardino all’italiana, tra compartimenti di fiori e piante, pavoni  e la grande fontana del Nettuno in primo piano sullo sfondo del mare.
Poi il giro è continuato tra strette vie, carrugi, come dicono in Liguria. Il centro storico di Genova sembra una scatola di costruzioni abbandonata dopo il gioco. Le case sono sorte fitte fitte, le une sulle altre, e le sorprese spuntano dietro ad ogni angolo. 
Palazzi splendidi e colorati che sorgono all’improvviso dietro un angolo, e luoghi che rasentano la fatiscenza, chiese sopraelevate quasi volessero turarsi il naso davanti al mercato del pesce, migliaia di bancarelle di libri e dischi usati e ogni sorta di locale mangereccio etnico.
La sosta per la focaccia è di rito e poi ancora un’altra Genova. La Genova più modaiola, con la passeggiata affollata di gente, il sabato pomeriggio, i negozi (ancora librerie) pieni, i palazzi più sfarzosi che si svelano lungo via XX settembre.
A cena siamo andati in una trattoria vicino al porto, un locale non alla moda, ma dove abbiamo potuto mangiare ottimi piatti di pesce.
E poi ancora un giro, prima di tornare verso la stazione.
Un giorno solo non basta a conoscerla, ma già in un giorno Genova ci ha lasciato qualcosa di sè!
 
 
La focaccia con il formaggio è la ricetta tipica di Recco, ma anche a Genova si può trovare appena fatta e buonissima!!! Va mangiata calda, quando il formaggio non si è ancora solidificato, per questo motivo nelle panetterie bisogna acchiapparla, a suon di gomitate, appena la sfornano. E, non si sa come mai, ne sfornano sempre troppo poca alla volta.
Il formaggio NON è la prescinseua, perchè troppo liquido o troppo acido… Nel disciplinare viene indicato “formaggio fresco L.L.T., prodotto con latte ligure tracciato”.
La ricetta è più o meno (per chi volesse qui c’è la ricetta originale!) e qui invece trovate la mia versione.
Genova e la focaccia di Recco La celebre focaccia al formaggio ligure da gustare calda " class="facebook-share"> Genova e la focaccia di Recco La celebre focaccia al formaggio ligure da gustare calda " class="twitter-share"> Genova e la focaccia di Recco La celebre focaccia al formaggio ligure da gustare calda " class="googleplus-share"> Genova e la focaccia di Recco La celebre focaccia al formaggio ligure da gustare calda " data-image="https://www.ricettedicultura.com/wp-content/uploads/2011/07/2011_07_21-Focaccia-Stracchino-e-Genova-%281%29.jpg" class="pinterest-share">
ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

I Cjarsons della Carnia per il contest di Dolci a Gogò

In Carnia – G. Carducci
Su le cime de la Tenca
Per le fate è un bel danzar.
Un tappeto di smeraldo
Sotto al cielo il monte par.
Nel mattin perlato e freddo
De le stelle al muto albor
Snelle vengono le fate
Su moventi nubi d’òr. […]
Così scriveva Giosué Carducci, ispirato dai verdi prati della Carnia, descrivendo nel suo carme la Tenca, il torrente But, la rupe del Moscardo. La sua poesia è pervasa di fantasia, quando parla del danzare delle fate e del loro canto. E questa è la suggestione che ancora pervade l’animo di colui che in Carnia si avventura.
Il Friuli è stato annesso al resto d’Italia solo nel 1866, dopo la terza guerra d’indipendenza, ma nell’antichità tutto il Friuli era definito attraverso il nome di una delle sue odierne regioni, Carnorum Regio, dal nome della popolazione celtica che vi abitava, prima dell’annessione all’impero romano.
Oggi la Carnia è una regione dell’Alto Friuli, in provincia di Udine, situata tra le montagne, tra il Cadore e la Carinzia. Per raggiungerla bisogna addentrarsi nelle Alpi più profonde, in una quiete irreale resa variegata dal susseguirsi di pascoli, malghe, vallate e torrenti. Questo popolo ha vissuto per secoli in uno stato di perfetta conservazione della propria identità. I sapori dei piatti caratteristici conservano un qualcosa di medievale, con il dolce che si fonde con il salato e le spezie. Le preparazioni sono semplici e rituali, i gusti pieni, con alcune punte ispirate ad un qualche carattere mitteleuropeo.
Inoltre la Carnia è la zona d’Europa più ricca di specie botaniche e per secoli i cremar, venditori ambulanti, si sono spostati in Europa e nel nord Italia, con il loro zaino di legno a cassettini, per vendere le erbette e le spezie acquistate dai mercanti veneziani.
Il momento più propizio per gustare le erbe della Carnia all’interno dei cibi è l’estate, quando le erbe sono fresche. Ma per i mesi freddi il popolo della Carnia ha ideato il savors, una sorta di conserva sotto sale di aromi ed erbette, pronto per insaporire i cibi durante tutto l’inverno.
Si dice che le mogli dei cremar festeggiassero il ritorno a casa dei mariti, dopo i lunghi periodi di viaggio, raccogliendo ciò che era rimasto sul fondo dei cassettini, mischiandolo insieme e formando così il ripieno dei cjarsons.
Si tratta di una ricetta che più tradizionale non si può! È una ricetta antica che ogni famiglia prepara con qualche variante, ma che rappresenta l’intera regione.
In effetti il ripieno si crea ad ispirazione, non ci sono dosi precise, e da villaggio a villaggio il gusto varia leggermente.
Così ho scelto questa ricetta per partecipare al contest di Dolci a Gogò, “La perla della cucinaitaliana“. Arrivo quasi alla scadenza del contest, così come il Friuli si è potuto annettere tardi al resto d’Italia.
La ricetta dell’involucro di pasta l’ho presa dal sito della Scuola Alberghiera di Aviano, il ripieno l’ho creato a piacere, usando alcuni degli ingredienti tipici, facendone una versione dolce e una salata.
La ricetta: Cjarsons della Carnia
Con queste dosi verranno circa 36 cjarsons.
Per l’involucro:
300g di patate
250g di farina

1 tuorlo
1 pizzico di sale
Ho fatto lessare le patate, le ho sbucciate e poi passate con lo schiacciapatate. 
Quando erano ancora tiepide, le ho mischiate con la farina, il sale e il tuorlo, fino ad ottenere un impasto compatto ed omogeneo.
Nel frattempo ho preparato i due ripieni.
Il ripieno salato si ottiene mischiando:
150 g di ricotta
3 piccoli mazzettini di melissa, menta e prezzemolo
1 manciata di uva passa ammollata 
la scorza di mezzo limone
cannella a piacere
1 chiodo di garofano sminuzzato
1 presa di sale.
Il ripieno dolce si ottiene mischiando:
1 mela tagliata a pezzettini e fatta ammorbidire nel burro e in due cucchiai di zucchero di canna
2 cucchiai di marmellata
4 biscotti secchi sbriciolati finemente
1 manciata di uva passa ammollata
1 manciata di pinoli
cannella a piacere
Una volta che i ripieni erano pronti ho steso la pasta dello spessore di due millimetri, ricavando dei cerchi con un bicchiere (se avete un apposito coppapasta è ancor meglio!!!)
In ogni cerchio ho deposto un cucchiaino di ripieno (dolce o salato).
Ho rischiuso i cerchi a mezzaluna, schiacciando sul bordo con le dita.
I cjarsons vanno lessati in acqua bollente (salata per i salati!) finche non vengono a galla.
Poi li ho passati in un padellino con burro fuso e cannella abbondante.
Quelli dolci li ho anche rifiniti con una spruzzata di cacao in polvere.
Come detto sopra con questa ricetta partecipo al contest di Imma di Dolci a Gogò, “La Perla della Cucina Italiana
ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

Le galettes di mare con chips di melanzane

Le galettes altro non sono che delle crêpes in versione salata, tipiche della zona della Bretagna.

Conosciute come specialità della tradizione culinaria francese, in realtà la storia le vuole come originarie dell’Italia.

La leggenda narra che nel V secolo alcuni pellegrini francesi giunsero a Roma stanchi e affamati, per la festa della Candelora,  e che il Papa Gelasio, per rifocillarli, ordinò di preparare un cibo a base di farina e uova. 

I pellegrini, una volta tornati in Francia diffusero queste frittatine increspate con il nome di crêpes, dal latino crispus.
Per tutto il Medioevo furono sempre preparate con farina di vari cereali o di grano saraceno (e non farina bianca di frumento) e con acqua o vino al posto del latte, che venne introdotto solo successivamente.

Secondo la tradizione i mezzadri le preparavano e le portavano in dono ai loro padroni come simbolo di alleanza e amicizia.
Le crêpes dolci (o le galettes salate) in Francia sono rimaste il piatto tipico della Candelora, ma di fatto si preparano in tutte le stagioni, per la loro caratteristica di cibo prêt à porter, preparate non in padella ma sulla tradizionale piastra.
Val la pena di prepararle anche alla Candelora, che si sia superstizioni o no. Infatti si narra che il giorno della festa le crêpes debbano essere girate tenendo una moneta in mano; se le crêpes girano bene allora fortuna e ricchezza vi accompagneranno durante tutto l’anno. 
[fonti:
http://www.taccuinistorici.it
http://it.wikipedia.org
http://www.pilloleculinarie.it
http://buoneforchette.canalblog.com]
Per preparare queste galettes ho messo insieme alcune suggestioni: il fatto che venissero preparate originariamente con grano saraceno e che in Bretagna vengano spesso farcite con crostacei.
Io ho usato della farina di 5 cereali, un ripieno di gamberi e vongole con una leggera besciamella senza burro e ho aggiunto delle sottilissime melanzane fritte ben asciugate dall’olio; il tutto viene velocemente passato in forno.
Sebbene il tempo di preparazione sia un po’ lungo, il piatto è delizioso e può essere preparato in anticipo, lasciando alla fine solo un veloce passaggio in forno.

La ricetta: Galettes ai gamberi e vongole con chips di melanzane

Per prima cosa ho messo le fette di una mezza melanzana a scolare; le fette già salate, vanno messe sotto un peso, poi strizzate e asciugate, prima di essere fritte in olio di arachidi.

Per le galettes, (con il mio padellone da crêpes da 28 cm di diametro, ne vengono 4; se si servono come antipasto, è meglio prepararle con un padellino piccolo, ottenendone il doppio):

100g farina (50g bianca e 50 g ai 5 cereali)
15g olio d’oliva
250 ml di liquido (così suddiviso: 125 ml di latte e 125 ml d’acqua)
1 uovo
1 pizzico di sale
Si mescola la farina con l’uovo sbattuto con un pizzico di sale; ottenuta una pastella densa, ho aggiunto a poco a poco il liquido (latte + acqua) e l’olio.
Ho lasciato riposare per circa 40 minuti l’impasto.
Se dopo il riposo dovesse essere eccessivamente denso, è più difficile ottenere delle galettes sottili, quindi aggiungere ancora un goccino di latte.
Deporre a cucchiaiate l’impasto nel padellino ben oliato e farlo scorrere fino a distribuirlo su tutta la superficie. Quando la sfoglia comincia a staccarsi dai bordi è pronta per essere sollevata con una paletta e rigirata.

Cuocere tutte le galettes prima di farcirle, è più comodo!

Per il ripieno:

una quindicina di gamberetti, sbollentati e sgusciati
40 g di vongole già lessate e sgocciolate

besciamella senza burro (250ml latte, 1 cucchiaio colmo di farina, sale, pepe)

Ho messo in un pentolino il latte; mentre scaldava l’ho aggiunto a cucchiaiate alla farina, fino a formare una pastella. Ho aggiustato di sale e pepe la pastella e l’ho rimessa sul fuoco per addensarsi. Dopo pochi minuti la besciamella è pronta. A piacere si può insaporire ulteriormente con formaggio grattugiato e noce moscata, io l’ho preferita neutra dovendo aggiungerla al pesce.
Intanto ho fatto rosolare uno spicchio d’aglio in padella con due cucchiai di olio, poi ho aggiunto le vongole e i gamberetti, già sbollentati e sgusciati. Ho fatto rosolare per pochi minuti, aggiungendo anche un goccino di vino bianco.
Infine ho aggiustato di sale e poi aggiunto alla besciamella già preparata.

Ho usato questo ripieno per farcire le galettes, completandole con fettine di melanzana fritte ben scolate.
Ho arrotolato e messo in forno a 170° per 10 minuti, basta solo che si riscadino uniformemente.
Le ho poi disposte nel piatto, tagliate a metà, e completate con alcune fettine di melanzana che erano avanzate dal ripieno.

ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

Il Clafoutis di Ciliegie del Limousin e la mietitura nella Crau

Si avvicina il 24 giugno, San Giovanni, normalmente considerato il limite massimo per gustare le ciliegie senza il rischio di incorrere nel giuanin, il vermicello, che proprio dal Santo prende il nome. In realtà quest’anno, visto l’anticipo di stagione per le ciliegie, era previsto l’arrivo del vermetto un po’ prima del solito…ma, confidando nelle medicazioni che oggigiorno vengono fatte, direi che si possa rischiare un po’ meno di incapparvi.

La regione del Limousin
La stagione delle ciliegie più belle e succose coincide con quella della mietitura del grano e nella regione del Limousin, in Francia, un caratteristico dolce di ciliegie veniva in origine preparato proprio per essere portato nei campi e gustato durante una pausa dal duro lavoro.
Così è passato alla storia, come il dolce tipico dei contadini, poco dolce e poco elaborato da preparare, ma con una caratteristica unica: infatti le ciliegie vengono disposte nella teglia con il nocciolo e il picciolo, perché pare che proprio queste componenti trasmettano un gusto più persistente e particolare all’impasto.
Il nome clafoutis ha un’etimologia controversa; secondo alcuni la parola deriva dal dialettale clafir, che significa guarnire, riempire; per altri l’origine del nome si fa risalire al latino clavum figere, ovvero conficcare un chiodo, con riferimento alle ciliegie che vengono “piantate” nell’impasto.
Arles sulla mappa della Francia
Trovo molto poetica l’immagine dei contadini che a metà giornata, stremati, potessero contare su questa succulenta e dolce pietanza per rinfrancarsi all’ombra di un albero.
Sarebbe andata bene a Vincent van Gogh se per immortalare le fasi della mietitura fosse andato nel Limousin, dove certamente avrebbe rimediato una fetta di clafoutis.
Invece caso volle che il pittore olandese si recasse nei dintorni di Arles, in Provenza, precisamente nella piana della Crau, proprio per riuscire a dipingere dal vero i colori indescrivibili dei campi di grano. Questa pianura era una sconfinata distesa pianeggiante, che Van Gogh stesso descrisse all’amico Émile Bernard come una «piatta campagna dove non c’era niente se non… immensità… eternità».
Van Gogh era profondamente interessato a riprodurre nel modo più verosimile possibile l’atmosfera quasi estiva di giugno inoltrato, il «contrasto del blu contro l’elemento arancione del bronzo dorato del grano», impresa che gli riuscì magistralmente in questo piccolo dipinto, considerato un capolavoro del maestro e da lui stesso considerato il più riuscito, «fa passare tutto il resto in secondo piano».
Per dipingere la serie dei campi di grano l’artista lavorò nella Crau dal 12 al 20 giugno del 1888, en plein air, sotto il sole cocente, finché un’inaspettata tempesta distrusse il raccolto.
Sbocconcellando una fetta del mio clafoutis, mi godo questa incantevole opera.
Vincent Van Gogh – Paysage de Moisson – Arles 1888
La ricetta: il mio Clafoutis alle Ciliegie
per uno stampo piccolo da 20 cm di diametro ho utilizzato:
2 uova
90 g di zucchero (la ricetta originale ne prevede la metà)
70 g di farina
una manciatona di ciliegie (da riempire quasi completamente il fondo della teglia, io ne avevo un po’ meno)
Ho sbattuto le uova con lo zucchero, facendole montare un po’.
Ho aggiunto la farina setacciata, mescolando bene.
Ho disposto sulla teglia ben imburrata le ciliegie lavate accuratamente, senza togliere nocciolo e picciolo.
Ho versato sulle ciliegie, delicatamente, l’impasto di uova e farina.
Ho infornato a 170° per 30 minuti o poco più.
Quando la torta era fredda l’ho cosparsa con abbondante zucchero a velo.

al cucchiaio, dolci, ricette tradizionali, storia & cultura

Il Tiramisù Il dolce al cucchiaio italiano più celebre e amato nel mondo

Il Tiramisù è davvero il dolce italiano, almeno tra quellli al cucchiaio, più amato al mondo, forse per la scarsa presenza fuori dai confini nazionali del mascarpone che gli conferisce il giusto sapore. Come nasce? Dove nasce? il dibattito è sempre aperto.

Read more

Il Tiramisù Il dolce al cucchiaio italiano più celebre e amato nel mondo" class="facebook-share"> Il Tiramisù Il dolce al cucchiaio italiano più celebre e amato nel mondo" class="twitter-share"> Il Tiramisù Il dolce al cucchiaio italiano più celebre e amato nel mondo" class="googleplus-share"> Il Tiramisù Il dolce al cucchiaio italiano più celebre e amato nel mondo" data-image="https://www.ricettedicultura.com/wp-content/uploads/2011/04/tiramisù1.jpg" class="pinterest-share">
error

Enjoy this blog? Please spread the word :)