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La via Francigena in Piemonte: itinerari di storia e di gusto

Abbiamo imparato sui libri di scuola quanto gli antichi romani fossero bravi a costruire le loro strade. Avevano saggiamente compreso che un impero così grande poteva essere tenuto insieme solo con ottime vie di comunicazione ed alcuni tratti delle loro vie di collegamento sopravvivono ancor oggi, seppur stratificate da secoli di rimaneggiamenti, mentre, nei sotterranei delle moderne città, si trovano ancora tratti delle antiche strade, rimaste intatte sotto gli strati succedutisi nei secoli.
Nel Medioevo le strade consolari vennero via via abbandonate dal traffico di merci e persone, sia per la mancanza di manutenzione – molti dei lastricati vennero asportati per costituire materiale da edificazione ed ormai rovinate, rupte, diedero origine alla parola che oggi indica i percorsi non precisamente definiti, le rotte, appunto – sia per preferire percorsi secondari in prossimità dell’Appennino, per mettere in collegamento il Regno longobardo di Pavia con il sud Italia, evitando i territori che erano in mano ai bizantini.
L’antica via di Monte Bardone (Mons Longobardorum), originario nome del passo appenninico della Cisa, per il quale la strada passava, divenne un reticolo fittissimo di sentieri e via sterrate, segnate dal passaggio di pellegrini che in alcuni punti si allargavano per lasciar spazio alle mansioni (centri abitati, ospedali e abbazie che offrivano ospitalità per la notte).
Quando i Longobardi vennero soppiantati dai Franchi, la denominazione cambiò e la rete di strade diventò Via Francigena, comprendendo strade in tutti i territori del regno franco, anche in Belgio e nel bacino del Reno. Il sistema viario diventò subito il punto di riferimento non solo per i pellegrini, ma anche per i mercanti e gli eserciti.

I punti focali per i pellegrinaggi dell’epoca erano Gerusalemme e la Terra Santa, Roma e Santiago di Compostela. Alcuni pellegrini percorrevano la Francigena per raggiungere Roma, altri proseguivano verso sud, per imbarcarsi in Puglia, non prima di aver fatto tappa a San Michele al Monte Gargano.

Verso nord, invece, la strada si allungava verso la Sacra di San Michele, in Val Susa, per poi proseguire attraverso terra francese, fino alla terza abbazia benedettina dedicata al culto di San Michele, Mont St. Michel in Normandia, o per proseguire ancora verso Canterbury in Gran Bretagna. Dalla strada francigena italiana si proseguiva da Luni verso i porti francesi e attraverso la via tolosana verso i luoghi di pellegrinaggio di San Giacomo di Compostela in Spagna.
Canterbury invece è legata a uno dei più illustri pellegrini ad aver fatto nell’antichità il percorso fino a Roma, per un totale di 1600 km, in 79 tappe dicirca 20 km giornalieri: l’arcivescovo Sigerico.

Un tratto importante della via francigena passa dal Piemonte e dal 2004 questo tratto è diventato “Grande Itinerario Culturale Europeo”, come il più conosciuto Cammino di Compostela. Conta circa 650 km di strade, con 107 comuni coinvolti, 5 province toccate, 4 parchi naturali attraversati. Turismo Torino e Provincia ha dedicato un sito a questo progetto, sul quale si possono visulizzare i percorsi e progettare il viaggio, anche seguendone soltanto un breve tratto. Gli itinerari sono raccolti in 4 grandi gruppi:
la via Francigena Morenico-Canavesana, incentrata sulla conca morenica attorno ad Ivrea; la via Francigena della Valle di Susa, da sempre di collegamento con i luoghi d’oltralpe grazie ai passi del Monginevro e Moncenisio, passando dalla già citata Sacra di San Michele, fin quasi alle porte di Torino; la via Francigena Torino – Vercelli, attraverso campi aperti e regolari e lo spettacolo delle risaie; la via Francigena verso la Liguria e il mare, che attraversa il Monferrato attraverso le province di Alessandria e Asti.

Vi chiederete cosa c’entra tutto ciò con Ricette di Cultura? Attraverso la promozione di questi itinerari che passano vicino a pievi e attraversano antichi borghi, non poteva mancare una nota di gusto. Gli itinerari non erano percorsi soltanto da pellegrini, ma anche da mercanti, soldati, avventurieri di ogni tipo e queste persone mangiavano e, considerati i chilometri che percorrevano ogni giorno, con grande appetito… quale migliore occasione per riscoprire qualche caratteristica dell’alimentazione del tempo?

Un lavoro magistrale è stato fatto da Barbara Ronchi della Rocca, giornalista ed esperta di gastronomia storica, che ha ricostruito un vero e proprio menù del pellegrino, con piatti semplici e saporiti, tratti dalle abitudini dei consumatori medievali, con piante spontanee ed erbe, legumi e gustodissimi pani integrali, composti da cereali antichi recuperati. 
In ogni territorio toccato dalla via francigena le locande convenzionate (ben 23 ristoranti aderenti al progetto, lungo il percorso) offrono un menù diverso in accordo con le odierne abitudini culinarie del territorio.
Un’idea di menù? C’è il piatto del pellegrino composto da due antipasti, un assaggio di primo, pane della penitenza, meravigliosamente composto da farina integrali e di cereali misti e acqua a partire da 10€.
Alla presentazione delle Via Francigena Piemontese io ho potuto assaggiare una deliziosa zuppa di ceci, uno stufato di maiale con le mele, un dolce dall’aria antica, poco dolce e con ricotta e frutta secca. Gli ingredienti dell’epoca sono rispettati, ma il gusto è tutt’altro che penitenziale: abbiamo gustato piatti saporitissimi e perfettamente equilibrati nella loro rustica semplicità.
Vi confesso che, amando camminare nella natura, mi piacerebbe poter percorrere un tratto della via francigena, scoprendo romaniche pievi di campagna…un’idea per un week end un po’ diverso…adesso è proprio il periodo giusto, prima dell’arrivo del grande caldo!! 😉

Tra le ricette assaggiate alla presentazione degli itinerari piemontesi della via Francigena, vi ripropongo il dolce di ricotta, questa volta in mono porzioni.

La ricetta: Dolcetti di ricotta al forno con miele e frutta secca

200 g di ricotta di pecora
4 cucchiai di miele millefiori
1 uovo
1 manciata di uva passa ammollata
1 pugnetto di mandorle
1 pugnetto di fiocchi di cereali (per me avena e riso soffiato)

Lavorare la ricotta in modo da renderla cremosa e omogenea. Aggiungervi il miele e poi l’uovo sbattuto leggermente. Mescolare al composto anche l’uva passa.
Suddividere questo composto in 6 stampini da muffin. Completare in superficie con fiocchi di cereali e mandorle intere non pelate.
Infornare a 180° per circa 20 minuti, o finchè i dolcetti non si saranno rappresi e dorati.

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Ortinfestival alla Venaria Reale – un evento speciale in una location da sogno

La Venaria Reale è stata scelta per ospitare la prima edizione di una delle manifestazioni più belle della primavera piemontese: Ortinfestival.
Dal 30 maggio al 2 giugno il Potager Royal,
in circa 10 ettari
dedicati alle coltivazioni, ospiterà questa vera e propria full
immersion nel verde. La location è stata scelta per la sua articolazione
e per la stretta correlazione tra la regalità dei palazzi e le attività
agricole che vi si svolgevano dalla sua nascita nel XVII secolo.
A Ortinfestival
ci saranno chef di talento e contadini eccellenti, colture antiche,
oggi recuperate, e nuovi ortaggi, varietà rare delle nostre campagne e
da ogni parte del mondo.

 

Per introdurre questo evento straordinario dovevo raccontarvi qualcosa
di più su questo gioiello piemontese che nel 1997, assieme a tutto il
circuito delle Residenze Reali del Piemonte, è entrata a far parte del patrimonio dell’Unesco. I restauri sono stati ultimati nel 2007 e ad oggi la Reggia è tra 5 siti culturali più visitati in Italia.

Ma diamo uno sguardo alla storia di questo luogo da sogno: correva
l’anno 1659 quando Carlo Emanuele II, duca di Savoia, con una grande
passione per la caccia, identificò i territori di Altessano Superiore,
borgata poco lontana da Torino, come adatti per praticare la disciplina
venatoria alla maniera dei re
: terreni a tratti boschivi, a
tratti aperti, sterminati e ricchi di cacciagione gli fecero concepire
un progetto ambizioso, di aggregazione del piccolo borgo, con i servizi
che forniva a livello di produzione agricola, ad una gigantesco e
magnificente Palazzo, che potesse ospitare tutta la corte, accanto al
sovrano. Carlo Emanuele II cambiò così il nome di Altessano in La Venerìa, oggi Venaria Reale.


La Versailles sabauda?
Assolutamente no! I lavori di ammodernamento per rendere Versailles
quello che divenne tra il XVII e il XVIII secolo, iniziarono solo nel
1661, due anni dopo.
È dunque Versailles ad essere La Venaria francese!

Gli architetti più importanti dell’epoca
si trovarono al servizio di questo colossale progetto partito da una
vera e propria variazione urbanistica del borgo di Altessano, del quale
la facciata della nascente reggia doveva rappresentare la quinta
prospettica da sogno, che si doveva intravedere in avvicinamento al
Palazzo stesso.


Amedeo di Castellamonte
fu il primo a mettere mano ai progetti dal 1659 al 1675: collocò
l’impianto dell’edificio in asse con la Contrada Granda, allora via
Maestra del Borgo di Altessano. A quest’epoca risale la parte più antica della Venaria, la cosiddetta Reggia di Diana,
non a caso dedicata alla dea della caccia, che ospitò negli anni di
Francesca d’Orleans e Maria Giovanna di Savoia Nemours, prima e seconda
moglie del Duca Carlo Emanuele, un corteo di dignitari di corte, cani e
cavalli pronti per la caccia al cervo due volte alla settimana.
Veduta a volo d’uccello – G. T. Borgonio 1670
Il Castello – G. T. Borgonio 1674


Con Vittorio Amedeo II le cose non mutarono. Ormai la sfida con il rivale d’oltralpe Luigi XIV era aperta. Portare migliorie alla Reggia spettò a Michelangelo Garove, tra il 1698 e il 1713. Diversi furono i progetti di ampliamento, ma solo alcuni vennero portati a compimento.

L’anno della svolta fu il 1716. Il ducato di Savoia diventò regno di Sicilia (poi mutato in regno di Sardegna dopo qualche anno e un baratto). Da Messina venne chiamato Filippo Juvarra:
tra i tanti interventi a Torino, compreso Palazzo Madama, c’è anche un
occhio di riguardo per la Venaria diventata Reale a tutti gli
effetti.
I suoi progetti riguardarono la Scuderia Grande, la Citroniera, le
modifiche ai padiglioni del Garove e la Galleria Grande; in più la
particolarissima chiesa di Sant’Uberto.

Tra il 1739 e il 1767 fu la volta di Benedetto Alfieri
che lavorò sulle parti di collegamento per conferire al progetto
unitarietà. Le dimensioni erano ormai davvero ingenti 45.000 mq di cui
20.000 edificati.
Gli ultimi interventi, in epoca
neoclassica, vennero fatti agli appartamenti reali, ma già era Stupinigi
ad essere più alla moda per le battute di caccia.
La Venaria sarà
destinata negli anni successivi ad altre funzioni fino a vivere un lungo
periodo di degrado fino al 1995, quando finalmente iniziano i lavori di
recupero e restauro che l’hanno portata ad essere una delle regge più
belle del mondo.

Dal 20 giugno 2014, il turista o il cittadino che vorà visitare la Venaria (ma anche il Castello di Rivoli) potrà salire a bordo della terza linea dell’autobus turistico City Sightseeing denominata “Residenze Reali” e raggiungere, comodamente seduto a bordo,
la Reggia di Venaria Reale, gli Appartamenti Reali all’interno del
Parco La Mandria e il Castello di Rivoli.
La terza linea del City Sightseeing
“Residenze Reali”, è operativa al venerdì, sabato e domenica con
partenza dal capolinea in piazza Castello angolo via Po
(lato caffè
Baratti & Milano); 4 le corse giornaliere, ogni due ore circa, (09.30 – 11.30 – 13.45 – 15.45) che permetteranno di
raggiungere la Reggia di Venaria Reale e gli Appartamenti Reali
all’interno del Parco La Mandria, scendere e visitare le due Residenze
Reali, per poi riprendere l’autobus alla volta del Castello di Rivoli
per visitare il Museo d’Arte Contemporanea.
Durante i restanti giorni
della settimana, dal lunedì al giovedì, l’autobus turistico può essere
richiesto da parte di gruppi o scolaresche in occasione di eventi
specifici per raggiungere anche le altre Residenze presenti in tutta la
Regione.
Per tutto il 2014 il biglietto per la linea “Residenze
Reali” ha un costo promozionale di 10€ ad adulto (ridotto bambini 5€)
con validità 24 ore
; il biglietto per due linee ha un costo di 20€ per
48 ore, tre linee 25€ per 48 ore.

Questa volta vi ho raccontato la storia della reggia, ma le sorprese in serbo per quanto riguarda l’evento Ortinfestival sono tante…quindi
vi dò appuntamento a venerdì  con la fittissima articolazione degli appuntamenti ed una ricetta. Vi anticipo pochissimo: le fragole,
che cominciarono ad essere coltivate a partire dal XVIII secolo (prima
erano solo nella varietà selvatica), sono tra le piantine più semplici
da avvicinare per la coltivazione dell’orto sul balcone. Anche i
“pollici neri” come me possono, con pochi accorgimenti, fare un bel
raccolto!

Gli appuntamenti li trovate qui: click!

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#InvasioniDigitali a Torino – Villa della Regina I social per la promozione del panorama culturale italiano

Qualcuno di voi avrà sentito parlare in questi giorni di #InvasioniDigitali.

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Il tartufo bianco d’Alba e i Tajarin Piemontesi per Ville in Italia

Ville in Italia è una società di tour operator nata a Firenze nel 1996 che si occupa di locazioni di breve periodo in residenze di pregio e in villa, su tutto il territorio italiano. Si rivolge ad un pubblico internazionale interessato a soggiornare nel nostro paese in un contesto davvero magico.
Basta sfogliare le proposte per iniziare a sognare fin da subito.
Da qualche tempo a questa parte Ville in Italia è anche un blog che racconta il vivere italiano e le curiosità artistiche, culturali ed enogastronomiche del nostro paese.
Mi è stato chiesto di raccontare qualcosa su uno dei prodotti piemontesi più conosciuti al mondo: il tartufo. 
O si odia o si ama: vi devo dire da che parte sto?
Ecco che, pur fuori stagione, il mio flusso di pensiero mi ha portato ai ricordi della Fiera Internazionale del Tartufo di Alba e a uno dei miei piatti preferiti: i tajarin.
Qui trovate il post in inglese, mentre qua sotto potete leggerlo in italiano.
E al fondo c’è anche la ricetta dei miei tajarin, naturalmente!
Il tartufo è
un tubero che nasce vicino alle radici degli alberi, sviluppandosi come
parassita della pianta stessa. A seconda dell’albero accanto al quale si forma,
cambieranno il colore e gli aromi del tartufo stesso.
Conosciuto
fin dall’antichità, era presente nelle cucine dei sumeri che lo utilizzavano
combinato ad orzo e legumi e, successivamente, dei greci, latini e arabi.
Plinio il
Vecchio ne diede una definizione naturalista: “fra quelle cose che nascono ma non si possono seminare” e
proprio questa caratteristica di casualità determinò la fortuna e il mistero
legato allo strano e imprevedibile tubero
.

cercatore medievale

La sua storia
è segnata da periodi bui – si fu in dubbio, addirittura, se fosse di natura
vegetale o animale – e nel Medioevo, considerato un’escrescenza del terreno
dotata di vita propria, era ritenuto cibo adatto solo alle streghe e ai
diavoli
.

Un tempo era
più facile da trovare, vista la maggior diffusione di boschi e foreste e per il
suo aroma, intenso ma adatto ai palati fini, venne soprannominato “aglio del
ricco
”.

In Piemonte
l’utilizzo diventò particolarmente importante a partire dal XVII secolo, ad
imitazione della cucina francese. Il tartufo nero, più diffuso, veniva usato
nelle farciture, mentre quello bianco più pregiato era usato a profusione nelle
salse e nei condimenti.
Nel ‘700,
ormai vero e proprio prodotto di lusso, veniva cercato dai nobili per
divertimento, in vere e proprie “battute di cerca”
.
Ad opera del
Re Carlo Emanuele di Savoia nel 1751 ci fu anche un tentativo di influenzare il
gusto britannico, diffondendo anche lì il piacere della battuta di cerca e
della grattata di tartufo sulle pietanze ed effettivamente qualche piccolo
tartufo venne trovato anche in terra inglese. 
Apprezzato da
eccellenti personalità, tra cui Lord Byron che lo teneva sulla scrivania al
fine di stimolargli la creatività e Alexandre Dumas
che lo definì il Sancta Sanctorum della tavola, il tartufo
d’Alba come è conosciuto oggi ottiene la sua fortuna in tempi recenti con l’albergatore
e ristoratore albese Giacomo Morra.
Giacomo Morra [immagine da gazzettadalba.it]

Nel 1949
l’intuizione: per risollevare l’economia dopo il secondo conflitto mondiale Giacomo
Morra puntò sul tartufo per farlo diventare un prodotto riconosciuto e il simbolo
di una manifestazione che attirasse l’attenzione di tutto il mondo sulle Langhe
.
Regalò il miglior esemplare raccolto quell’anno all’attrice più amata del
tempo, Rita Hayworth. Da lì ogni anno i tartufi migliori vennero donati a
personalità di rilievo tra cui Churchill, Marilyn Monroe, Sofia Loren,
Hitckcok, Pavarotti e molti altri…ed ebbero il merito di diffondere il mito
di Alba e del suo tartufo bianco nel mondo.

Anche per me
il tartufo è sinonimo di Alba, anche se lo stesso prezioso tubero è raccolto in
diverse zone del Piemonte. È il pretesto che ci spinge ogni anno a compiere
quell’ora di viaggio da Torino per la Fiera Internazionale del Tartufo, per annusare
l’aria profumata, per gustare gli ottimi vini del territorio che con questo
prodotto si sposano ottimamente, e per assaggiare piatti prelibati della
tradizione, insaporiti con il preziosissimo tubero.
Tra questi piatti
spiccano i tajarin, i tradizionali
tagliolini piemontesi, pasta all’uovo già diffusa nel XV secolo. Sottilissima è la sfoglia ed altrettanto sottili vengono “affettati”,
circa 2-3 millimetri.  Vengono conditi per tradizione con il “comodino”, un sughetto
preparato con i fegatini e altre frattaglie di pollo, oppure
semplicemente con burro fuso e profumatissimo tartufo: sono i miei preferiti.

Ecco la
ricetta per farli in casa: Tajarin
(per 4-6
porzioni)
400 g di
farina di grano tenero
3 uova intere
2 tuorli
1 pizzico di
sale
100 g di burro
1 mestolino
di brodo di carne
1 piccolo
tartufo
Disporre la
farina sulla spianatoia creando una fossetta centrale.
Versarvi le
uova intere e i tuorli, con il pizzico di sale, e cominciare ad impastare,
prima con la forchetta e poi con le mani inglobando man mano tutta la farina.
L’impasto deve risultare liscio e sodo, quindi in caso di necessità
aggiungere ancora un poco di farina oppure al contrario lavorarlo con le mani leggermente umide.
Lavorare
l’impasto sulla spianatoia per almeno dieci minuti, finché non è perfettamente liscio ed elastico.
Coprirlo con
un panno pulito inumidito e lasciarlo riposare per un’ora o due.
Riprendere
l’impasto e stenderlo sottilissimo con il mattarello o la macchina per la
pasta.

Cospargere la
sfoglia ottenuta di semola o di farina di mais ed arrotolarla su se stessa. Con
un coltello affilato tagliare i tajarin molto sottili, in fettine di 2-3 mm di larghezza, srotolarli man mano e
disporli in mucchietti.

Quando sono
tutti pronti, lessarli in abbondante acqua salata per 5 minuti.
Pulire il
tartufo con delicatezza, con l’aiuto di uno spazzolino dalle setole morbide e
di un panno.
Nel frattempo
far sciogliere il burro in una padella capiente, stemperandolo con un po’ di
brodo.
Scolare i
tajarin e metterli nella padella, facendoli insaporire con il burro fuso.
Impiattare e
grattugiarvi sopra il tartufo bianco.
…e se non è stagione di tartufi…sono buoni già così! 😉

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Per la Giornata Internazionale della Donna, una donna straordinaria e le ruote della bicicletta. Annie Londonderry , la bicicletta, i bagels.

In occasione della Giornata Internazionale della Donna, e perchè le donne in gamba non si festeggino solo un giorno all’anno, ho deciso di condividere qui l’iniziativa di Momondo.it, motore di ricerca comparativo per voli low cost e hotel. 

 
Momondo ha elaborato questa infografica in cui vengono presentate 10 donne avventurose che con i loro viaggi hanno rivoluzionato la storia femminile e il modo di scoprire il mondo.
 
Non potevo fermarmi a condividere solo l’immagine: ho scelto una di queste personalità, quella che più mi ha colpito, e sono andata a cercare qualche informazione in più sulla sua storia.
 

Le donne avventurose della storia

 
Prima di scoprire di chi si tratta (…più sotto…) date un’occhiata all’infografica di Momondo e, se vi va, condividete le vostre avventure di viaggiatrici su Twitter con l’hashtag #momondoexplorers.
 
 
 

Annie Londonderry

La mia scelta è caduta su Annie Cohen Kopchovsky, soprannominata, in seguito alle sue avventure, Annie Londonderry.

 
 
Annie Cohen era di famiglia ebraica. Nata a Riga, in Lettonia, nel 1870, emigrò negli Stati Uniti a soli 5 anni. Nel 1888 era già sposata con Max Kopchovsky e nei quattro anni seguenti ebbe da lui 3 figli.
 
Fin qui tutto in linea con la società vittoriana in cui era stata educata; poi la svolta che iniziò con una scommessa.
Impazzava la moda dei “giri del mondo” e al club di Boston due ricchi signori ipotizzarono che nessuna donna sarebbe stata in grado di emulare il giro del mondo in bicicletta compiuto alcuni anni prima da Thomas Stevens. Annie accettò la sfida e la società delle Acque Minerali Londonderry le offrì 100$ e una bicicletta per mettere un loro cartello pubblicitario sulla bici e portarlo in giro per il mondo. Ma la scommessa non prevedeva solo il viaggio da compiere in 15 mesi, ma anche guadagnare in rotta 5000$: una donna in balia di sé stessa che doveva ribaltare completamente il modo di pensare dell’epoca e che avrebbe suscitato anche un certo scandalo.
 

Il viaggio

Il 25 giugno 1894 Annie, davanti alla Massachusetts State House di Boston salutò una piccola folla di amici, parenti, sufraggette e curiosi e si allontanò su Beacon Street traballante in sella alla sua bici “42 pound Columbia”, sulla quale aveva imparato ad andare da pochi giorni: il suo bagaglio era un ricambio di abiti, una pistola dall’impugnatura di madreperla e un gruzzoletto di 5cent al giorno per il cibo.
 
Annie abbandonò presto gli abiti femminili (avete presente i rigidi busti
vittoriani?) per una tuta da lavoro da uomo e fece rotta su New York.
 
Giunta a Chicago si accorse che percorrere il viaggio intorno al globo da quel lato sarebbe stata una sfida contro il freddo e quindi tornò a New York e si diresse verso l’Europa. Approdò a Le Havre e percorse la Francia fino a Marsiglia. Poi toccò l’Egitto e poi Gerusalemme e lo Yemen (in molti paesi del Medio Oriente la bici è negata alle donne ancora oggi); poi fece rotta per Singapore, Hong Kong, Shangai, Nagasaki, Kobe, Yokohama prima di imbarcarsi attraverso il Pacifico per tornare in America. A ogni tappa si fece fare una firma dal console degli Stati Uniti, per dimostrare di aver compiuto tutto il viaggio.
 
 
Non le mancò l’iniziativa e la faccia tosta e per guadagnare i 5000$ fece un’abile e sfacciata promozione di se stessa: si fece fotografare a pagamento accanto o in sella alla sua bici, assieme al cartello Londonderry, diventando per tutti “Annie Londonderry” e raccontò da attrice consumata le mirabili avventure successe durante il suo viaggio.
 
Dopo aver toccato Los Angeles, El Paso e Denver, il 24 settembre 1895 era nuovamente a Boston. Nonostante alcune critiche mosse dall’opinione pubblica, per aver usato più di una bicicletta per il suo viaggio, il 20 ottobre 1895, il New York World – il giornale dell’editore Joseph Pulitzer – definì la sua impresa come “the most extraordinary journey ever undertaken by a woman”, il più straordinario viaggio mai compiuto da una donna.
 

Dopo il viaggio Annie si trasferì a New York con tutta la sua famiglia: scrisse per diversi mesi sul New York World nella rubrica New Woman, cominciando a raccontare il suo viaggio attorno al mondo.  

«Sono una giornalista e una donna nuova» scrisse, «e questo termine significa che credo di poter fare qualsiasi cosa che ogni uomo può fare.»
 
La sua fama passò presto ma, riscoperta negli anni ’90, divenne un’icona per le comunità lesbiche americane. 
 
E invece la signora Annie Londonderry è un’icona per tutte le donne.
 
[fonti e credits immagini: http://en.wikipedia.org,  http://annielondonderry.com]
 

I bagels per Annie

Annie era di origine ebraica, per lei ho preparato i bagel, i panini askenaziti con il buco al centro, gonfi e tondi come le ruote di una bicicletta.
 
 
 La ricetta è qui: —-> bagels

 

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Para frittus, le frittelle a forma di frate Golose ciambelle fritte della tradizione sarda

Non potevo far passare il Carnevale di quest’anno senza regalarvi i parafrittus.
 
Erano un paio d’anni che mia madre esprimeva il desiderio di prepararli, prima di farsi prendere da altri propositi più salutisti e ripiegare su dolci al forno.

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ai fornelli, al cucchiaio, dolci, storia & cultura

Pommes meringuées con uvetta e cannella per il mese di marzo in Normandia.

Per il calendario culinario La France à Table oggi viaggiamo fin nel nord della Francia.

La Normandia è considerata la culla dell’Impressionismo, non solo per Claude Monet, che vi soggiornò lungamente e la scelse per più di 40 anni ma perchè moltissimi altri pittori dell’epoca rappresentarono su tela i suoi paesaggi.
 
Gli storici dell’arte mettono agli albori dell’impressionismo il Déjeuner sur l’herbe di Manet, esposto al Salon des Refusée (dove venivano esposti i dipinti rifiutati dal Salon ufficiale) nel 1863.
Il dipinto  venne riproposto con una chiave diversa e con lo
stesso titolo dal giovane Monet nel 1865: il suo Déjeuner sur l’herbe
stacca nettamente dalla
pittura classica, anche se ancora lontano dalle pennellate di colore che
saranno il tratto distintivo della nuova corrente pittorica.
i due “Déjeuner” di Manet e di Monet
 
Claude Monet era nato a Parigi ma già nel 1845, a 5 anni, si era trasferito con la famiglia in un sobborgo di Le Havre, sull’estuario della Senna, in Alta Normandia, dove il padre gestiva una drogheria. 
Quasi subito Monet si sentì predisposto per la pittura di paesaggio en plein air, prima ancora che l’impressionismo venisse codificato. Nel 1859 si era trasferì a Parigi, incontrando tutti gli esponenti del circolo nascente, pittori, poeti e scrittori, che coloreranno almeno quattro radiosi decenni di Francia. Con alcuni, ad alterne vicende, si trovò anche a dividere lo stesso tetto, mentre il suo interesse per la resa della luce e la pittura di paesaggio venne influenzato dalla permanenza in Marocco, durante il servizio militare, e durante i soggiorni a Trouville, ad Argenteuil e a Londra. Qui ebbe anche la possibilità di studiare le opere di Turner e Constable, pittori romantici inglesi di paesaggio.
Nel 1874 era nuovamente a Parigi, quando si inaugurò la mostra del gruppo Societé anonyme des peintres, sculpteurs et graveurs, nello studio del fotografo Nadar, e qui Monet esponne la sua Impression, soleil levant, che diede il nome all’Impressionismo stesso. Pennellate di colore che sono luce, per un quadro dipinto che rappresenta proprio il porto di Le Havre all’alba.

Altri luoghi in Normandia conservano memoria di Monet.
A Giverny egli visse dal 1883 al 1926, in una bellissima casa con giardino che oggi è museo. Fare il confronto tra le fotografie e i suoi dipinti è emozionante:

 

A Rouen, la cittadina di origine medievale che vide la morte sul rogo Giovanna d’Arco, Monet dedicò una serie di sue opere alla cattedrale gotica, fino a produrre più di 30 tele, tra
il 1892 e il 1894
, e nel periodo più produttivo fino a 14 versioni diverse in un solo giorno, seguendo i cambiamenti indotti dal mutare della luce.

Un altro soggetto che incantò Monet, tanto da indurlo a rappresentarlo molte volte e farne oggetto di studio per la luce, furono le scogliere di Etretat.

E qui potete vedere la stessa scogliera in una fotografia recente:

 
La Normandia non è però solo un luogo dai paesaggi incantevoli, ma è tra le regioni francesi la maggiore produttrice di mele. Si conta una stima di 7 milioni di alberi di mele, come uno sterminato frutteto, che tra ottobre e novembre si colorano di frutti. Tra le varietà più note la Belle de Boskoop, la Cox Orange, la Jonagold, la Reine des Reinettes.

La mela è quindi molto utilizzata in cucina, ma è soprattutto la materia prima per la produzione della bevanda più diffusa. La Normandia è l’unica regione di Francia a non avere vigneti, qui si beve il sidro. C’è anche una Route du Cidre, circa 40 km che si snodano tra cantine e frutteti.

E se in Normandia il vino sta al sidro, la grappa sta al Calvados, profumatissimo distillato a base di sidro, che vanta una storia risalente al 28 marzo 1553, la prima citazione scritta del prezioso nettare. Non è leggenda il trou normand, narrato da Maupassant e da Flaubert, ovvero il bicchierino di Calvados da buttar giù tutto d’un fiato a metà dei luculliani pasti per scuotere lo stomaco e far posto ad altre vivande.
La Normandia è anche terra di qualitativamente importanti bovini da latte e di celebri e raffinati formaggi ed è la seconda produttrice francese di ostriche, ma la protagonista della ricetta di questo mese doveva essere la mela. Non in forma di tarte normande, la celebre crostata di mele e calvados, ma più semplicemente una mela meringata, semplicissima da preparare, un finepasto semplice e golosissimo.
 
La ricetta: Mele meringate all’uva passa e cannella

(per 4 persone)
2 mele grandi
10 g di burro
1 cucchiaino di zucchero
1 cucchiaino di cannella
4 cucchiaini di marmellata di mele
2 cucchiai di uva passa
1 bicchierino di Calvados (o in assenza brandy)

1 albume
30 g di zucchero

Tagliare le mele a metà, sbucciarle e togliere la parte centrale con i semi. Cospargerle di succo di limone.Mettere a bagno l’uvetta nel bicchierino di Calvados.
Mettere le mezze mele in padella con il burro e la cannella e farle cuocere coperte per 10 minuti, rigirandole spesso.
Scolarlele mele e disporle in una piccola teglia con il buco verso l’alto. Mettere in ogni cavità un cucchiaino di marmellata di mele e l’uva passa, scolata.
Scaldare il forno a 160°C.
Cominciare a montare a neve l’albume e, quando diventa schiumoso, aggiungere i 30 g di zucchero e finire di montare.
Disporre la meringa su ciascuna mezza mela ed infornare subito. Lasciar cuocere finchè la meringa non è soda in superficie (all’interno resterà più morbida).

ai fornelli, storia & cultura

Ketchup fatto in casa

Mi è venuta voglia di fare una piccola cena american style.
L’idea era quella di preparare saporiti hot-dog e concludere con una mini lemon cheesecake (ve le ricordate?!?)
Naturalmente tutto ciò non sarebbe stato opportuno per una foodblogger, se non avessi preparato in casa tutto il preparabile: i panini, naturalmente, soffici-soffici e dolci, e il ketchup.

Veniamo alla ricetta del ketchup, che da molti mi è stata richiesta, dopo aver visto le foto su facebook.
Ho cercato in rete e alla fine mi sono arenata come spesso accade, da Martina, che sembra sempre essere una delle foodblogger più attendibili per ciò che riguarda l’homemade (e anche le preparazioni lievitate!)
Ho trovato il ketchup da lei, ed ho iniziato a pensare di sostituire la cipolla disidratata con quella fresca, ma nella conta degli ingredienti mi sono accorta di non avere abbastanza miele in casa, quindi ho deciso di seguire una strada diversa, tra l’altro utilizzando la passata invece del concentrato di pomodoro, che mi sembra sia sempre “corretto” con dei conservanti.
La ricetta, veramente improvvisata e quasi ad occhio, è riuscita benissimo. Il sapore si avvicina molto al ketchup, dolce e acidulo, ed è senza tutte quelle schifezze che si trovano nelle preparazioni industriali. Si conserva in frigorifero per 5 giorni, abbiate solo l’accortezza di coprire la superficie della salsa, in una bottiglietta o barattolino stretto, con un filo d’olio perchè non si rischi la formazione di muffe. Forse è possibile anche metterlo sottovuoto…io ne ho fatto una piccola quantità e l’abbiamo consumato entro pochi giorni, sebbene non sia una salsa che di norma utilizziamo spesso.
Prima di lasciarvi la ricetta vi lascio un po’ di storia.
La parola ketchup deriva dall’antico malese kecap, che indica una salsa a base di pesce azzurro lasciato fermentare, oppure dal persiano ket-siap, salamoia di pesce.
Proprio da qui si vede che il kechup ha un antenato comune ed illustre con queste salse, il garum, la salsa che gli antichi romani
utilizzavano un po’ su tutto (un po’ come i bambini malati di junk food,
che utilizzano il ketchup pure sugli spaghetti). 

Se volete sapere un po’ di più sul garum, che Apicio, negli scritti che ci sono arrivati, consigliava come completamento di una miriade di ricette, potete sbirciare su archeoricette, dove le informazioni su questa strana salsa sono sempre in aggiornamento. Io vi lascio solo una citazione di Seneca, maestro di temperanza e salutista ante-litteram che in una sua lettera a Lucilio scrive:

«E quella salsa che viene dalle province – è il garum di cui parlava anche Plinio – preziosa poltiglia di pesci guasti, non credi che bruci le viscere col suo piccante marciume?

». P { margin-bottom: 0.21cm; }P { margin-bottom: 0.21c

Dalla fine dell’Impero Romano, il garum sembra sparire in Europa nella conoscenza e nel gusto comune, suppongo soppiantato dai sapori dolci più apprezzati nel Medioevo.
La salsa torna in Europa al seguito degli esploratori olandesi e inglesi in spedizione in Oriente nel XVII secolo: nel 1690 la parola catchup appare in stampa, soppiantata da ketchup nel 1711, ma l’antica salsa a base di pesce fermentato era costosa da importare e gli inglesi cercano un modo per produrla in casa personalizzandola, a seconda dei cibi ai quali si accostava, con ostriche, funghi, noci e limone.
Si ritrova questa salsa nel libro The Compleat Housewife or Accomplished Gentlewoman’s Companion di Eliza Smith, pubblicato nel 1727 in Inghilterra, un manuale per le casalinghe e governanti; si trovano indicazioni per la preparazione con 12-14 acciughe, 10-12 scalogni, vino bianco, aceto bianco, zenzero, chiodi di garofano, pepe, noce moscata, succo di limone, macis e rafano.
Ma furono i funghi la costante in Inghilterra, talvolta con l’aggiunta di
noci. Pare che ci sia una ricetta con funghi e noci nel libro di cucina
di Martha Lloyd, che veniva preparata niente meno che nella famiglia di
Jane Austen
(e che probabilmente le ispirò tutte le visioni d’amore
romantico che caratterizzano i suoi scritti).
La prima ricetta col pomodoro si ha nel 1801, nel libro Sugar House Book, chiamata tomato-ketchup, con l’indicazione affatto velata che il pomodoro all’interno non era ingrediente abituale.

Però la ricetta della salsa che ispirerà il moderno ketchup arriverà in America non dal vecchio continente europeo, bensì dagli immigrati cinesi. Furono essi a portarsi dietro la parola e la salsa, assieme al vino di riso fermentato che oggi fa parte di molte ricette tradizionali americane; ma mentre il vino di riso rimase uguale, il ketchup conservò soltanto il nome e non la composizione.
Nel 1804 ne scrisse James Mease, scienziato ed orticultore di Philadelphia, come una salsa utilizzata dai creoli francesi di Haiti. Nel 1812 pubblicò la prima ricetta conosciuta a base di pomodoro, ma fu un altro americano, H. J. Heinz, a creare e brevettare una ricetta “unica” e naturalmente segreta, nel 1869 in Pennsylvania, creando uno dei primi gusti globali nella storia.

Negli Stati Uniti, oggi, il ketchup è quello Heinz, tutti gli altri sono imitazioni. I gusti riconoscibili sono pomodoro, aceto, zucchero, cipolla, spezie non ben identificate…senza scervellarci, ne possiamo ricreare a casa una versione del tutto priva di conservanti e soddisfacente nel gusto.

Ora la ricetta del mio ketchup home made; per
la ricetta dei panini da hot dog, ci vediamo qui domani
, mentre vi
consiglio due link utilissimi per completare la vostra finta
junk-food-dinner
:
chips di patata al forno di Marina;
crauti marinati di Giulia.
[fonti:
http://www.ilpost.it/2012/06/01/la-storia-del-ketchup/
http://gizmodo.com/5907313/ketchup-used-to-be-made-of-fish-the-crazy-history-of-the-worlds-greatest-condiment
http://it.wikipedia.org/wiki/Ketchup
http://www.essortment.com/brief-history-ketchup-21820.html ]

La ricetta: Ketchup home-made
(per una bottiglietta da 150 g)

230 g di passata di pomodoro densa (o polpa finissima)
60 g di zucchero di canna
60 g di aceto bianco
6 g di sale
1/4 di cipolla
1/4 di cucchiaino di aglio in polvere
In un pentolino mettere la passata di pomodoro con la cipolla tagliata a pezzi grossi e tutti gli altri ingredienti.
Portare ad ebollizione e cuocere a fuoco dolce per 20-25 minuti, lasciando sobbollire e girando di tanto in tanto. La salsa deve ridursi di circa metà. Poi filtrare in modo da eliminare tutti i pezzetti di cipolla. Lasciar raffreddare a temperatura ambiente e poi conservare in frigo. 

Aggiornamento del 26-2:
Betulla, nei commenti qui sotto, mi consiglia di aggiungere alcune spezie, come da lei personalmente verificato:

P { margin-bottom: 0.21cm; }

«faccio cuocere nella passata una foglia di alloro, un chiodo di
garofano, un pizzico di noce moscata e soprattutto un cucchiaino raso di
zenzero in polvere
»
Io non ho ancora provato la sua versione, ma inizio a condividerla qua, per chi si vorrà cimentare.

ai fornelli, dolci, storia & cultura, uova e fritture

Fritole venete, per un… Carnevale di Venezia Le frittelle veneziane con uvetta e pinoli dall'antica storia

Il quadro con cui si apre questo post è La venditrice di fritole di Pietro Longhi, dove una popolana veneziana, vestita di abiti dimessi, vende le frittelle carnevalesche a un signore ben vestito e dall’espressione decisamente poco simpatica, che sventola un grande fazzoletto con il quale, probabilmente, si proteggeva dai terribili miasmi che provenivano dai canali di una Venezia settecentesca.

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ai fornelli, dolci, lievitati, lievitati-dolci, storia & cultura

È l’ora della brioche… quasi francese

Oggi voglio parlare di un personaggio che tutti conoscono: Maria Antonietta, l’ultima regina di Francia che perse la testa durante la rivoluzione del 1789; l’avete sicuramente incontrata sui libri di scuola o, alla peggio, in qualche puntata di Lady Oscar.
Passò un’infanzia felice e relativamente svogliata in Austria, viziata e vezzeggiata anche dalla sua istitutrice, tanto che a 12 anni non sapeva ancora scrivere e non parlava correttamente né il francese, né il tedesco. Conversava però amabilmente in italiano, grazie alla grande ammirazione che aveva per Pietro Metastasio, l’inventore del melodramma, prestigioso ospite alla corte asburgica. La piccola Antoine eccelleva anche in altre arti, come la musica e soprattutto la danza. A due anni aveva contratto il vaiolo, ma ne era guarita e perciò in seguito immune, così ne non ne fu colpita durante la terribile epidemia che colpì anche la famiglia reale nel 1767.
Maria Teresa
Come molte giovani principesse, aveva però una madre ingombrante, che da semplice consorte dell’imperatore Francesco I, era di fatto divenuta la vera e propria imperatrice del gigante asburgico, riconosciuta tra i primi sovrani illuminati ed artefice di una politica articolatissima e moderna. Maria Teresa si era messa in testa, con 16 figli, dei quali ben 10 che arrivarono all’età adulta, di imparentarsi attraverso i matrimoni con i sovrani di tutta Europa. Purtroppo l’epidemia di vaiolo di cui scrivevo sopra ridimensionò i suoi piani. Riuscì a far sposare, prima di Maria Antonietta, Maria Carolina con il re Ferdinando IV di Borbone, detto il Re Lazzarone, che nonostante il soprannome fu un ottimo sovrano per il Regno di Napoli, e Maria Amalia con Ferdinando I di Parma, che non ebbe nomignoli ma fu un pessimo sovrano, complessato e bigotto e si presume pure cornuto.

Ma veniamo alla nostra Maria Antonietta. A 15 anni, molto graziosa, sempre capricciosa e svogliata, ma più educata, partì per la Francia, dopo il matrimonio

Marie Antoinette a 14 anni

avvenuto per procura con il delfino di Francia Luigi, futuro Luigi XVI, goffo, sgraziato e cicciottello. 

Avete presente quei ragazzetti che tutte abbiamo incontrato alle medie, o il primo anno delle superiori? Ragazzetti ancora né carne né pesce, ma che al momento ci sembrano il fascino personificato? Noi lì a sospirare e questi, ancora adolescenti sgraziati e pure presuntuosi, non ci filano neppure per sbaglio, presi da affari molto importanti (vedi calcio, basket, tiro del giavellotto o, nell’ipotesi più rosea, dallo studio). E quasi sicuramente, a rincontrarli oggi hanno subito un tremendo tracollo, grassi e completamente calvi…
Ecco, il futuro Luigi XVI era così, a dire il vero educato da anni di odio nei confronti dell’Austria e degli Asburgo non aveva nessuna voglia di sposare l’Austriaca, così come il popolo soprannominò Maria Antonietta, anch’esso fiaccato da anni di guerre contro l’Austria. Anzi le cronache di corte narrano di una vera e propria repulsione fisica (o paura) nei confronti della giovane principessa, prologo di un matrimonio che non venne consumato se non sette anni dopo.
Nel frattempo parliamo delle condizioni contingenti: una Francia allo stremo, anni di guerre e soprattutto di tasse ingentissime avevano fiaccato la popolazione che non sapeva più con chi prendersela
Con il giovane Re era ancora presto, anche se sappiamo tutti come è andata a finire nel 1789, e pur sempre di un re si trattava…
Chi poteva incarnare quel lusso decadente meglio della bella e viziata Regina, che dava sfarzose feste a Versailles, per consolarsi della disattenzione dello sposo che in realtà era pure bruttino, ben diverso dai ritratti che le avevano inviato in Austria?
Così Maria Antonietta divenne il capro espiatorio di tutte le maldicenze sulla nobiltà di nascita.
E, secondo le nostre maestre delle elementari, fu lei, durante una rivolta di popolani stremati dalla fame, a pronunciare la famosa frase: «S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche», «Se non hanno più pane, che mangino brioche».
 
E invece anche questa fu una diceria messa in giro per screditare la sfortunata regina. E le maestre elementari ci sono cascate come pere cotte.
Jean Jacques Rousseau racconta nel IV libro delle sue Confessioni che nel 1741 si trovava presso una ricca dama e, parecchio affamato, aveva intenzione di comprarsi del pane. Ora fatemi immaginare questo Rousseau che, ospite da una gran dama, patisce la fame… ma erano tutti spilorci ‘sti nobili?
Ad ogni modo, dice Jean Jacques che essendo vestito di abiti sfarzosi, entrare in una comune panetteria gli sembrava azzardato ed imbarazzante.
Dunque, cito testualmente: «Allora mi ricordai il suggerimento di una grande principessa a
cui avevano detto che i contadini non avevano più pane e che rispose:
che mangino delle brioches. Perciò mi comprai una brioche
Rousseau sorvola sul fatto che comprare brioche presuppone entrare in un altro negozio, ma noi facciamo finta di sapere che una pasticceria dell’epoca era ben più raffinata di una panetteria e proseguiamo oltre.
Maria Antonietta è nata nel 1755, quindi nel 1741 non poteva già aver pronunciato la frase incriminata e dunque Rousseau fa sicuramente riferimento ad un’altra principessa, forse Maria Teresa d’Austria, moglie di Luigi XIV.
 
E quindi, giunti a questo punto, possiamo assolvere Maria Antonietta alla quale forse la sfortunata frase venne appioppata sul groppone da quei francesi intolleranti nei confronti dell’Austriaca.
 
Ma vediamola finalmente questa brioche francese che è una cosa spettacolare ed è pure semplicissima da produrre. Nel formato originale è cotta in un unico stampo, con ingenti quantità di burro e uova, spugnosa e sofficissima, con una morbida crosticina dorata, lontana parente del nostro pandoro.
 
Io ho seguito la ricetta delle brioches intrecciate di Ida, Briciole in cucina, riducendo un pochino la quantità di burro ed usando solo la vaniglia per aromatizzare.
Con queste dosi ho ottenuto 6 brioches grandine, che vi fanno arrivare all’ora di pranzo senza un buco allo stomaco. In realtà credo che se ne possano tranquillamente ricavare 8 un poco più piccole. Ho adottato anche l’espediente della lievitazione in frigo per una notte. Vi consente di utilizzare poco lievito ed avere una massa spugnosa e sofficissima!
Naturalmente se riesco a procurarmi uno stampo, proverò ad utilizzare la stessa ricetta anche per il classico brioche-one francese in un unico pezzo.
 
 
La ricetta: Brioches quasi francesi
 (6-8 pezzi)
200 g di farina manitoba
50 g di zucchero a velo
10 g di lievito di birra fresco 
2 uova medie
80g di burro a temperatura ambiente
i semini di mezza stecca di vaniglia
1 pizzichino di sale
 
Per la rifinitura un pochino di latte e granelli di zucchero di canna
 
Ho sciolto il lievito di birra in un goccino di latte.
Ho messo farina e zucchero a velo nella ciotola dell’impastatrice, aggiungendo prima il lievito sciolto e poi gradualmente le due uova con il pizzichino di sale, fino ad ottenere una bella massa. Ho lasciato andare l’impastatrice per un bel po’, almeno un quarto d’ora. Quando la pasta si staccava bene dai bordi ho aggiunto la vaniglia e gradualmente il burro tagliato a cubettini: è importante aggiungere burro solo quando il precedente è stato ben assorbito dall’impasto. Una volta assorbito tutto continuare ad impastare con il gancio per altri cinque minuti. 
Ho deposto l’impasto in una ciotola per la lievitazione, lasciato lievitare fin quasi al raddoppio, poi sgonfiato e deposto in frigo per tutta la notte.
Al mattino ho tirato fuori dal frigo e  portato a temperatura ambiente; ho sgonfiato, ripiegando l’impasto su se stesso, ma senza impastare violentemente.
Poi l’ho suddiviso in 6 pezzi (ma anche 8 possono andar bene); per ogni pezzo ho ricavato 4 palline e le ho messe vicine-vicine in stampi da muffin (quelli di silicone). Ho lasciato lievitare fino al raddoppio e poi infornato.
Ida consiglia di portare la temperatura del forno ventilato a 200°C, mentre le brioches lievitano ancora per una mezz’ora, poi spennellarle con latte e zucchero e metterle in forno abbassando la temperatura a 180°C per circa quindici minuti.
Il modo migliore è controllare costantemente  il grado di cottura e doratura, a seconda del vostro forno.
Ho farcito con crema inglese alla vaniglia. E congelato. E una volta riportate a temperatura ambiente, restano davvero perfette. Fatele! 🙂
 
 
 
 
 

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ai fornelli, Natale, primi piatti, ricette tradizionali, storia & cultura

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