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Lussekatter, i panini dorati di Santa Lucia I soffici panini nordici da preparare per il 13 dicembre

 Oggi pubblico una ricetta  di panini talmente buoni che non posso non dare anche a voi la possibilità di farli subito!!
Sono i panini che vengono preparati proprio oggi in Svezia, per essere gustati dopodomani, 13 dicembre, nella festività di Santa Lucia che, nel paese nordico, è il giorno che dà ufficialmente inizio ai preparativi per il Natale.

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ai fornelli, dolci, ricette tradizionali, storia & cultura

Bustrengolo per Halloween…anzi per Ognissanti

Arriviamo ai giorni di festa per Ognissanti e gli italiani, almeno quell’alta percentuale che sono dediti ed appassionati di cucina sono ai fornelli. I piatti più noti e strettamente legati alla festività di Ognissanti sono dolci. Forse questo fatto è strettamente legato al detto “trick or treat” che i bambini anglosassoni recitano durante la loro questua di casa in casa nella notte di Halloween. In origine erano i pellegrini cristiani ad elemosinare il “dolce dell’anima” che altro non era che semplice pane. Ecco la tradizione di tutti i dolci di Ognissanti, spesso a forma di pane, infarciti di frutta secca.
 
Chi ha già sentito parlare del Bustrengolo? È un dolce che mi ha colpito per l’estrema semplicità dei suoi ingredienti. Si tratta di una specie di pasticcio di farina di mais, quasi una polentina dolce, guarnito con frutta secca, tra cui uva sultanina e pinoli e mele a fettine e, talvolta noci e nocciole, normalmente cotto al forno oppure fritto.P { margin-bottom: 0.21cm; }
L’origine e la diffusione è umbra, anche se è noto un Bustrengo marchigiano ed emiliano, che però è molto più simile ad una torta vera e propria, con uova e farina bianca oltre a quella di mais.
 
Impossibile, parlando di dolci umbri, non citare la celebre Fiera dei Morti che si svolge ogni anno a Perugia sin dall’epoca medievale. Si hanno testimonianze scritte sin dal 1260, quando era già un’usanza radicata.
Le fiere godevano di particolari esenzioni dai dazi e la possibilità di commerciare anche per coloro che avevano avuto problemi con la legge per cause civili. Era Festa, non solo per la presenza di giochi, quali la caccia al toro, la corsa dell’anello e la giostra della quintana ed altri più semplici come lotterie e tombole, ma anche perchè prevedeva un grande afflusso in città con conseguente arricchimento della popolazione. Nel periodo autunnale era per di più di grande importanza per il possibile approvvigionamento di varie cibarie prima dell’inverno.
Tutte queste ragioni decretarono la fortuna di questa Fiera che spesso cambiò nome attraverso i secoli, da Fiera di Ognissanti a Fiera dei Defunti, fino a riprendere quello attuale di Fiera dei Morti.
 
E dunque via al più particolare e tipico dolce umbro della Festa di Ognissanti. Io ho seguito la ricetta tipica trovata in rete, sostituendo i pinoli con delle noci che avevo in casa. Per venire un poco più incontro al gusto attuale ho leggermente aumentato la quantità di zucchero nell’impasto e l’ho completato con dello zucchero a velo in superficie e un bicchierino di grappa nell’impasto.
Le dosi sono sufficienti per una teglia rotonda da 24 cm di diametro.
La ricetta: Bustrengolo umbro
175 g di farina di mais
80 gr di zucchero (50 nella ricetta originale)
50 gr di noci
50 g di uva sultanina
1 bicchierino di grappa***
2 cucchiai di olio d’oliva extravergine
1 pizzico di sale
1 mela
 
zucchero a velo per la superficie
 
Ho portato ad ebollizione 600 g di acqua con la punta di un cucchiaino di sale.
Ho intanto pesato lo zucchero e messo in ammollo l’uva passa nel bicchierino di grappa, sminuzzato le noci e sbucciato e tagliato a fettine la mela, spruzzandola con qualche goccia di limone.
Quando l’acqua bolliva ho versato a pioggia la farina di mais mescolando ed aggiungendo subito due cucchiai d’olio. Ho mescolato la polenta per circa un quarto d’ora, poi ho aggiunto l’uvetta con la grappa e le noci, lo zucchero  ed infine le fettine di mela, continuando a mescolare.
Ho unto di olio una teglia e vi ho messo il composto, schiacciandolo con il dorso di un cucchiaio.
Ho infornato a 180° per circa 35 minuti, poi cosparso di zucchero a velo e rimesso in forno ancora per 5 minuti.
Il bustrengolo si gusta freddo!***aggiornamento del 4 novembre: Loredana nei commenti mi suggerisce una ricetta in cui al posto della grappa ha trovato il Mistrà, liquore tipico marchigiano e laziale. Allora, siccome la zona di diffusione è esatta, ve lo segnalo perchè possiate fare un bustrengolo più vicino all’originale.

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Tarte salata alle tre farine con cavolo cappuccio, pere e Roquefort. La storia del Roquefort, pregiato formaggio francese e una torta salata

Rocquefort
In lingua occitana è il Rocafort, ma ovunque è conosciuto come Roquefort ed è, a detta di molti, uno dei formaggi più buoni al mondo, proclamato da Diderot come       «le roi des fromages».
 

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Il Roccolo e la carne piemontese a Busca

Il 14 settembre ho avuto la possibilità, grazie all’iniziativa di Terraviva, in occasione della Sagra del Toro allo Spiedo, di visitare Busca e le sue attrattive turistiche.

Si è parlato molto anche di carne di bovino piemontese, povera di colesterolo rispetto ad altre carni bovine, saporita e sana, per lo stile di vita con cui vengono allevati questi maestosi animali. Niente sfruttamento intensivo: il bovino piemontese ha bisogno di spazi piccoli, stalle che sono rimaste immutate dai primi anni del secolo scorso, e di ritmi scanditi in modo naturale dalle stagioni. Il risultato è una carne poco grassa, saporita e perfetta in ogni taglio. 
Avrò modo di parlarne più approfonditamente, ma non voglio perdere l’occasione di far conoscere, a coloro che ancora non ne hanno sentito parlare, un posto favoloso, ricco di fascino e magia, il Castello del Roccolo, che fu abitazione estiva di Roberto Tapparelli d’Azeglio e di Costanza Alfieri di Sostegno, nobili piemontesi di intelligenza e cultura.

Roberto, figlio dell’ambasciatore Cesare d’Azeglio e fratello maggiore del più celebre Massimo, viaggiò fuori dal Piemonte fin dalla tenera età, fin dalla permanenza a Firenze, quando aveva 10 anni, per poi vivere a Parigi, a Roma e nella parte più settentrionale della Germania, per poi tornare a Torino, nel 1813, dove conobbe e sposò Costanza, di soli tre anni più giovane, ed ugualmente colta ed illuminata, tanto da fondare nel capoluogo del Regno di Sardegna un salotto assai famoso e frequentato.

Con il ritorno in Piemonte Roberto si dedicò soprattutto ai suoi studi di storia dell’arte, ma fu coinvolto, anche se in maniera secondaria, nelle vicende politiche che animavano il Piemonte in quegli anni.

Nel 1821 i due coniugi, legati da amicizia anche al principe Carlo Alberto, parteciparono ai moti carbonari; una volta constatato il fallimento dell’insurrezione, pur non avendo responsabilità dirette, decisero di riparare all’estero soggiornando prima a Ginevra e poi a Parigi e qui fermandosi fino al 1826. Con il ritorno in patria suggerì a Carlo Alberto l’idea di creare un’esposizione peremanente dei tesori artistici collezionati nei secoli dalla Casa Reale. Il 2 ottobre 1832, grazie a quest’idea, vide la luce il nucleo originario delle raccolte della Galleria Sabauda di Palazzo Madama.

A questo seguirono importanti pubblicazioni, dove si abbandonava, accanto ai commenti di carattere artistico, a lunghissime digressioni sulla storia e le leggende legate alla Casa Savoia.
Nei cosiddetti ritagli di tempo si dedicò alla fondazione di diversi istituti volti all’aiuto delle classi meno abbienti. Durante l’epidemia di colera del 1835 accettò la direzione del lazzaretto, provvedendo personalmente alla cura di alcuni infermi; nello stesso anno fondò anche un asilo femminile in Piazza Gran Madre, seguito poi, in breve tempo, da una scuola per bambini e fanciulli, e dalla fondazione di una “Società per l’istituzione delle scuole infantili e del patrocinio degli alunni”. Il suo spirito, al contrario, ad esempio, di Giulia di Barolo, fu sempre rigorosamente laico e volto al miglioramento della società civile, riscontrabile anche nel tentativo di emancipazione delle comunità ebraiche e valdesi.
Attorno a quegli anni, precisamente nel 1831 Roberto e Costanza acquistarono alcuni ruderi del Castello del Roccolo e riedificarono quasi integralmente la costruzione secondo lo stile neogotico dell’epoca. Il termine roccolo fa riferimento alle reti utilizzate per catturare i piccoli uccelli selvatici. Ma questa abitazione estiva ha un fascino in più. Nelle sue decorazioni sono nascosti innumerevoli simbologie, e in ogni angolo c’è un richiamo più o meno velato ai luoghi dove Costanza e Roberto risiedettero durante il volontario esilio del 1821-1826.
Una porzione della facciata in stile neogotico con particolari dall’aria moresca

Visitare questo posto straordinario, grazie al recupero effettuato negli ultimi anni dall’associazione culturale Marcovaldo, è un viaggio emozionante.
Qui sotto alcune immagini, che spero vi diano un’idea di questo posto affascinante a pochissima distanza da Torino.

[fonti: http://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Taparelli_d%27Azeglio 
http://www.treccani.it/enciclopedia/roberto-taparelli-marchese-d-azeglio_%28Dizionario-Biografico%29/]

L’ascesa al Castello
All’interno lo stemma dei Taparelli-D’Azeglio e il simbolico pavone
Uno dei trompe-l’oeil che, grazie ai giochi di luce, sembra ancora più realistico
La Cappella interna al giardino
I pavimenti, i soffitti stuccati, le pareti dipinte
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Gnocchi di melanzane con mazzancolle e pomodorini

La melanzana è una delle regine (a mio parere si contende il titolo con il peperone) dell’orto estivo. Versatilissima, può essere cucinata in ogni modo e sempre conserva sapore e carattere! 
Già ne avevo raccontato la storia qui: stavolta riporto le parole di Pellegrino Artusi che in “La Scienza in Cucina” ci spiega come a quel tempo ci fosse ancora un poco di diffidenza nei confronti di questi deliziosi globi violetti.
 «399. Petonciani.
Il petonciano o melanzana è un ortaggio da non disprezzarsi per la ragione che non è né ventoso, né indigesto. Si presta molto bene ai contorni ed anche mangiato solo, come piatto d’erbaggi, è tutt’altro che sgradevole, specialmente in quei paesi dove il suo gusto amarognolo non riesce troppo sensibile. Sono da preferirsi i petonciani piccoli e di mezzana grandezza, nel timore che i grossi non siano amari per troppa maturazione. Petonciani e finocchi, quarant’anni or sono, si vedevano appena sul mercato di Firenze; vi erano tenuti a vile come cibo da ebrei, i quali dimostrerebbero in questo, come in altre cose di maggior rilievo, che hanno sempre avuto buon naso più de’ cristiani. I petonciani fritti possono servire di contorno a un piatto di pesce fritto; fatti in umido, al lesso; in gratella, alla bistecca, alle braciole di vitella di latte o a un arrosto qualunque.»
Qualche perplessità mi deriva dall’utilizzo del termine “ventoso”…forse Artusi voleva dire che le melanzane non provocano aerofagia…? O_o’
Senza approfondire ulteriormente, io le apprezzo in tutti i modi esse vengano cucinate…dalla magra e malinconica melanzana grigliata, alla cicciona e sorridente parmigiana (occhio che nei prossimi giorni arriva la versione campana di questo superbo piatto!), e dunque sono capitolata anche davanti alla proposta di Paola, ormai mia paladina dei piatti veloci, tanto che dovrebbe diventare un hashtag: #nastrodirasorecipe. Avevo questa ricetta in serbo da tanto e finalmente l’ho provata. 
Per ottenere un sapore più intenso ho lasciato l’impasto molto morbido e l’ho tuffato nella pentola di acqua bollente a cucchiaiate. Son venuti fuori degli gnocchi dalla forma irregolare ma una volta cotti, perfettamente sodi, dal gusto marcato di melanzana, perfetti, a mio gusto, con i crostacei e pomodorini freschi.
La ricetta: Gnocchi di melanzane con mazzancolle e pomodorini
2 melanzane medio-grandi
farina 
sale
basilico
1 uovo
6-8 mazzancolle 
una manciata di pomodorini
1 spicchio d’aglio
Ho lavato e bucato le melanzane con la forchetta. Poi le ho messe a cuocere in forno, finchè non erano morbide e sgonfie. Io ho ottenuto circa 200 g di polpa strizzata (forse però non l’ho strizzata abbastanza, perchè l’impasto è rimasto comunque molto morbido)
Ho aggiunto gradulamente farina, fino ad arrivare al peso della polpa delle melanzane. Ho mescolato a questo composto un uovo (piccolo) con un pizzico di sale e tre foglie di basilico tritate finemente.
Ho messo l’acqua a bollire e nel frattempo ho preparato il condimento: ho fatto dorare lo spicchio d’aglio in tre cucchiai d’olio, ho aggiunto le mazzancolle e i pomodorini tagliati in quarti.
Quando l’acqua bolliva, l’ho salata e vi ho tuffato dentro l’impasto di melanzane, prevelandone piccole quantità con un cucchiaino. Ho girato bene per non farli attaccare al fondo e li ho scolati dueminuti dopo che erano venuti a galla.
Li ho fatti girare in padella con il sughetto per un minuto ed impiattato.
 
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Acciughe al verde per MyTableBlog

La “Via del Sale” mi ha sempre affascinato… l’idea di un antico percorso, battuto da secoli, al di là delle moderne strade tracciate, che ha visto la nascita di tanti paesi e l’intessersi fitto di relazioni commerciali. La “Via del Sale” in realtà non è una sola, ma sono tante, strade e sentieri, alcuni adatti solo all’inerpicarsi dei muli, che collegavano i paesi sulla costa con le zone dell’interno per traportare il prezioso ingrediente in grado di allungare la conservazione dei cibi, secoli prima del moderno frigorifero.

Dal litorale ligure, diverse vie salivano attraverso l’Appennino verso la Pianura Padana e verso le zone collinari. Ad Alba pare che piazza Savona conservi questo nome proprio in ricordo della via di Savona, che conduceva fino al mare e da cui giungeva il sale. Oltre al sale stesso l’ingrediente che per antonomasia è legato alla “Via del Sale” è l’acciuga. Carichi di acciughe private delle interiora e messe sotto sale viaggiavano anche loro verso i territori dell’entroterra a dorso di mulo.
Le acciughe si trovano in diverse ricette piemontesi, tra cui la famosa bagna caoda.

Io ho preparato la ricetta delle acciughe al verde per MyTableBlog; nell’articolo trovate anche altre curiosità su questo delizioso piatto.
Occorre che vi dica quanto questa salsetta sia goduriosa anche solo sul pane??

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A tavola con le Archeoricette, se siete a Torino, non potete mancare!

C’è un progetto in rete che non poteva non attirare la mia attenzione, si parla di storia e di cibo: andate a fare un salto su Archeoricette.com.
Il rigore e la passione di Generoso Urcioli hanno tributato un successo meritatissimo ad Archeoricette, in pochi mesi la pagina facebook ha superato i 5000 like.
Cito testualmente «Se il taglio è
divulgativo, le notizie sono ricavate da un attento vaglio delle fonti.
Archeoricette è un percorso affascinante alla scoperta degli alimenti
che hanno caratterizzato diverse civiltà del passato. Il cibo come
elemento aggregante. Il cibo e le materie prime come elementi
caratterizzanti l’economia e i commerci. Il cibo elemento di sopravvivenza ma anche di distinzione di classe sociale
«In alcuni casi sono ricette vere, tramandate dalle fonti, in altri casi sono delle ricostruzioni realizzate grazie all’analisi del contesto e gli assemblaggi proposti sono verosimili o “filologicamente” accettabili. »
Dopo i numerosi interventi di Generoso in alcuni programmi radiofonici non si poteva non auspicare che Archeoricette divenisse un’esperienza reale, tangibile e che solleticasse le papille gustative (e i neuroni!) dal vivo!!
Nasce così l’idea di A tavola con le Archeoricette, non cene a tema, ma piuttosto percorsi culturali attraverso le varie civiltà dell’antichità, con il filo conduttore del cibo, che unisce e divide, ma sempre fa parlare.
La prima cena si svolgerà il 31 maggio a Torino, al ristorante Sibiriaki di via Bellezia 8g. 
Nella sala inferiore verrà servito il cibo, accompagnato da immagini e dai racconti di Generoso.
Non ci sarà alcuna rievocazione storica, ma ci sarà il piacere di stare a tavola, conoscendo qualcosina di più sulle origini e gli sviluppi della nostra alimentazione, facendo cultura a tavola.
Se l’argomento vi stuzzica, seguite Archeoricette su Facebook e, se siete di Torino, prenotate il vostro posto A Tavola con le Archeoricette, seguendo le indicazioni nell’immagine qua sopra!
Nei prossimi giorni pubblicherò qualche immagine dei piatti che andremo a degustare… 😉
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Tra brodetto e zuppa di pesce, la mia ricetta e almeno 13 varianti

Italia, paese di santi, poeti e navigatori… Navigatori appunto e anche marinai e pescatori, così come cuochi, per diretta conseguenza, che cucinano il pescato. 
Il pesce, lungo le coste del nostro Stivale è cucinato in moltissimi modi diversi, ma un piatto si ritrova ovunque con alcune differenze che rendono l’assaggio una raffinata esperienza sensoriale, la zuppa di pesce.
Documentandomi per scrivere questo post ho scoperto cose che neppure immaginavo, avendo sempre vissuto sulla terraferma!! La cultura della zuppa di pesce è una vera e propria istituzione alle basi della cucina italiana.
Innanzitutto bisogna fare una distinzione tra il brodetto e la zuppa di pesce: il primo è diffuso lungo le coste di tutto l’adriatico, la seconda, con diverse varianti, allieta i palati lungo le coste del Tirreno.
Il piatto, come è semplice dedurre, era preparato per utilizzare l’invenduto dal mercato del pesce; nasce quindi come ricetta povera e di recupero, se di recupero si può parlare quando si tratta di pesce freschissimo. Di fatto ciò che si vendeva di più erano i pesci grossi, più facilmente utilizzabili in presentazioni eleganti alle mense dei nobili e ciò che rimaneva al popolo era la cosiddetta paranza: merluzzetti, triglie, piccole sogliole, crostacei di piccole dimensioni; molte volte a questi venivano aggiunti dei molluschi. 
La preparazione è di solito colorata dal pomodoro, ovviamente ciò non avveniva prima della scoperta dell’America.
È affascinante scoprire le differenze tra i diversi brodetti e zuppe di pesce, viaggiando lungo le coste italiane.
A partire dall’alto Adriatico troviamo innanzitutto il  brodetto alla triestina; secondo la ricetta il pesce va preventivamente fritto, prima di essere passato nel sughetto insaporito con aglio, cipolla e prezzemolo. Poi viene fatto riposare e riscaldato prima di essere portato in tavola.
A Venezia, precisamente nella zona di Caorle, troviamo il broeto ciozoto, tradizionalmente preparato in pentola di coccio su un fornelletto a carbone, direttamente sulle barche da pesca. Pare che al pescato misto, venisse preferito un solo tipo di pesce di laguna, il “go“, il ghiozzo.
Il brudèt ad pès è romagnolo, forse la prima ricetta tra tutte ad aver introdotto il pomodoro; essa prevede che ci sia anche qualche pesce a carne bianca, la gallinella, ad esempio, e consiglia lo Scorfano o il Coda di Rospo o il Pesce San Pietro.
Una menzione merita anche il brodetto di pesce alla fanese, marchigiano, che viene interpretato diversamente da famiglia a famiglia: vino bianco oppure aceto, pepe oppure peperoncino, aglio oppure cipolla, fanno sì che questa ricetta-non ricetta abbia un altissimo grado di personalizzazione.
In Abruzzo, a Pescara, coesistono due preparazioni a base di pesce; nel brodetto pescarese la base è fatta a crudo e man mano vengono aggiunti i pesci, dalle cotture più brevi a quelle più lunghe; nella zuppa il soffritto iniziale viene fatto a base di calamari e seppie e, particolare importante, assieme al pomodoro viene agiunto il peperone rosso tritato, dolce oppure piccante a seconda dei gusti. Anche la sequenza a tavola è diversa: la zuppa di pesce, accompagnata di fette di pane con l’aglio, è considerata un primo piatto, il brodetto può essere un primo oppure soppiantare un secondo.
Scendendo verso la Puglia incontriamo la Quatàra di Porto Cesareo, detta anche quataru ti lu pescatore o uatàra alla cisàrola, recentemente entrata a far parte dei PAT. La quatàra non è altro che il calderone di rame in cui viene preparato il sughetto in cui cuoceranno i pesci. Viene fatto rosolare insieme aglio, cipolla, prezzemolo e pomodorini, in poco olio d’oliva; il tutto si insaporisce in acqua di mare per circa due ore, poi viene aggiunto gradualmente il pesce, fino a 21 specie diverse. Il piatto viene servito con crostoni di pane fritti. La Quatàra è conosciuta anche come zuppa di pesce gallipolitana.
La zuppa di pesce siciliana prevede un’aggiunta di olive nere e di capperi al sughetto; in provincia di Catania, viene aggiunto anche un pugnetto di uva passa precedentemente ammollata. 
In Sardegna il brodino succulento in cui si è cotto il pesce viene usato per lessare la fregola, un tipo di pasta di semola di grano duro che si può assimilare ad un cous cous a grana grossa. Così la fregola in brodo di pesce diventa il primo piatto e il pesce diviene il secondo.
La zuppa di pesce napoletana ha delle indicazioni molto precise riguardo ai pesci da utilizzare: immancabili sono scorfano, tracina e lucerna; si può fare a meno di gallinella o di pescatrice; a scelta possono essere aggiunti grongo oppure murena, piccoli calamari e polpo, molluschi ma sono se freschi e “veraci”. 
Nel Lazio l’unica zuppa di pesce degna di nota è quella civitavecchiese, sfumata con il vino rosso e composta da una moltitudine di piccoli celenterati, crostacei e molluschi e l’aggiunta di scorfano e palombo.
 
Un discorso a parte merita il cacciucco livornese, vera e propria allegoria di un popolo. Negli ultimi anni del XVI secolo i Medici decisero di trasformare il piccolo villaggio di Livorno, sorto ai piedi della fortezza di Matilde, in una potenza mercantile. Emanarono le leggi Livornine (1590-1603) con le quali invitavano i
Mercanti di qualsivoglia Nazione, Levantini, Ponentini, Spagnoli,
Portoghesi, Grechi, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni,
Persiani
a stabilirsi a Livorno con la promessa di avere un alloggio o
un magazzino o una bottega dove poter svolgere la propria attività e che
garantivano anche la cancellazione dei debiti, l’esenzione dalle tasse e
l’annullamento delle condanne penali. Da quel momento Livorno divenne ante litteram una città cosmopolita e multirazziale, ben rappresentata dalla mescolanza di pesci che compone il suo piatto più tipico, il cacciucco. Il pesce e il suo sugo vengono deposti su fette di pane abbrustolito ed agliato, che pare rappresenti un must per tutte le zuppe di pesce d’Italia.
Risalendo la penisola arriviamo alla Liguria e non si può concludere questo viaggio saporito, prima di aver assaggiato il ciuppin; il nome deriva da suppin, zuppetta, ma ha un suono bellissimo e onomatopeico che ricorda il pucciare del pane in questo sughetto succulento. Viene preparato in tutta la Liguria ed ogni famiglia ne possiede una ricetta personale.  A Ponente i pomodori pelati sostituiscono i pomodorini freschi ed il soffritto iniziale viene fatto con carota,sedano, aglio e cipolla.
A questo punto vi chiederete che ricetta ho usato io per la mia zuppa. Una ricetta non ce l’ho, ma a guardar bene è un miscuglio di tutte queste usanze. 
Per prepararla armatevi innanzitutto di pazienza, non solo perchè necessita di diversi passaggi, ma fin dal momento in cui andate al mercato per comprare il pesce, perchè “siete solo in due e no, non vi serve un chilo per ciascuna varietà di pesce che avete deciso di utilizzare”!
La mia versione è molto semplificata, in pratica si tratta di pulire le diverse varietà, preparare un fumetto di pesce, preparare il sughetto di pomodoro e infine cuocere il pesce.

La ricetta: Zuppa di pesce 
250 g pomodori pelati
uno spicchio d’aglio
un peperoncino secco
vino bianco
300 g tra vongole e cozze
una decina di mazzancolle
3/4 seppioline medie
2 filettini di gallinella
1 nasellino
(di norma 2 piccoli scampi o 2 gamberoni per far scena) 
fette di pane casareccio
aglio
Ho fatto spurgare le vongole immergendole in acqua salata e raschiato il guscio delle cozze. Poi ho fatto aprire entrambe in una grossa padella su fuoco vivace, conservando il fondo di cottura, (filtrandolo dalla sabbia, se occorre).
Ho preparato il fumetto di pesce, mettendo in acqua le teste delle mazzancolle e gli scarti del pesce, coprendoli d’acqua e portandoli a bollore con un rametto di prezzemolo e 1 spicchio d’aglio. Ho lasciato bollire per mezz’ora e poi ho filtrato il tutto ed unito al fondo di cottura dei molluschi.
In una pentola ho rosolato un grosso spicchio d’aglio e il peperoncino in 4 cucchiai d’olio, poi ho aggiunto il pomodoro tagliato a pezzetti. Ho aggiunto un po’ di brodo di pesce e fatto cuocere ed insaporire per circa mezz’ora. Poi ho aggiunto il pesce cominciando dalle seppie, che necessitano di una cottura più lunga, per finire con i crostacei e i molluschi.
Ho regolato di sale e aggiunto il prezzemolo tritato cinque minuti prima di spegnere il fuoco e servire.
Ho accompagnato con fette di pane tostato, strofinato con aglio e bagnato da un filo d’olio crudo.

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#Made in To la visita alla Pastiglie Leone

Se vi chiedessero di tornare bambine per un giorno? Poi se questa occasione vi venisse offerta proprio il giorno della Festa della Donna, chi direbbe di no?

E così ho accolto con grandissimo entusiasmo la possibilità di visitare finalmente la Fabbrica delle Pastiglie Leone
Già dall’anno scorso era possibile partecipare ad alcuni tour guidati alla scoperta delle mitiche pastigliette e di altre aziende del teritorio torinese.
Quest’anno Turismo Torino rilancia ed offre, con Made in Torino, un carnet di scelta sempre più ampio per andare a curiosare nei marchi storici della provincia.
Non si poteva che cominciare in dolcezza ed eccoci dunque in partenza, folta schiera di donne curiose (e golose), alla volta di Collegno, dove in un unico stabilimento prendono vita dolcezze indescrivibili. 

 
Fin da subito quel che più balza agli occhi – e al cuore – è l’attaccamento all’azienda e la difesa di una storia di famiglia, in cui Daniela Monero, che ci accompagna nella visita, è la protagonista assieme al suo defilato, ma attentissimo, papà.
Così tra antiche scatole di latta, passate in chissà quali mani di golosi del secolo scorso, Daniela ci racconta la storia delle Pastiglie Leone che comincia ad Alba ad opera di Luigi Leone. Quasi subito l’azienda viene spostata a Torino perchè possa diventare fornitrice della Real Casa. Così accade, e famosa è la storia che vede un pensieroso Cavour prendere le più importanti decisioni politiche gustando la caramella gommosa Leone alla violetta.

Prima di diventare capitale d’Italia, Torino diventa capitale della pasticceria e confetteria, e conserva questo titolo ben più a lungo.
La famiglia Leone, però, dopo alcuni anni di successi, decide, nel 1934, di prendere altre strade e di vendere l’azienda. Chi subentra nella proprietà e nella gestione è Giselda Balla Monero, una delle prime imprenditrici italiane, la nonna di Daniela, detta anche La Leonessa. La Fabbrica delle Pastiglie Leone, nell’antica sede di corso Regina, raggiunge subito un più fulgido splendore e lo mantiene; il merito va a scelte oculate ma ardite, come i primi investimenti in pubblicità e in fidelizzazione della clientela.

Dalla storia alla cura di oggi c’è stato solo un salto temporale. La fabbrica è stata spostata a Collegno per far spazio al sogno del signor Monero di ricominciare la produzione del cioccolato. Il sogno si è realizzato e nella più alta espressione possibile.

Oggi, come all’inizio della storia di questa fabbrica delle meraviglie, vengono utilizzati ingredienti di primissima scelta. Solo gomma arabica e gomma adragante per le pastiglie, tanto zucchero, oli essenziali, estratti direttamente dai frutti e piante, e coloranti naturali.

Il cioccolato viene fatto con il cacao migliore, che viene lavorato a partire dalla fava, proveniente dal Centro America e da Sao Tomé; viene utilizzato solo zucchero di canna e vaniglia proveniente dal Messico. E per il cioccolato al latte si usa il latte fresco, non quello in polvere, e all’assaggio questa scelta, per certi versi faticosa perchè complica la lavorazione, si sente e si gusta!

Vestite di impermeabili di carta bianca, con cuffia e calzari, abbiamo religiosamente sfilato davanti a tutte le macchine in produzione. Daniela ci ha spiegato per filo e per segno ogni momento di ogni diversa produzione. 

Siamo state avvolte dal profumo del ribes e dell’arancia e potuto assaggiare l’impasto ancora caldo delle pastigliette e delle drops. 

Abbiamo visto fare colorate gelatine di frutta con il vero succo di frutta, abbiamo visto nuvole di amido che danno forma ai golosi fondant. 

Abbiamo assaggiato la fava di cacao e ci siamo affacciate nelle macchine per il concaggio, che rendono il cioccolato dolce e aromatico con pochissima aggiunta di burro di cacao, semplicemente cullandolo per più di 60 ore.

Abbiamo guardato con ammirazione le mani di tante donne, che lavorano alla Fabbrica delle Pastiglie Leone, che scelgono, selezionano ed incartano, intimidite dai nostri occhietti curiosi e dalle tante macchine fotografiche.

Siamo uscite con le borse cariche di acquisti, un po’ più felici, ed io ancora più orgogliosa di far da ambasciatrice all’eccellenza torinese.

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La mia #MerendaReale a Palazzo Chiablese

Lo scorso sabato pomeriggio ho avuto l’occasione e l’onore di partecipare ad una sfarzosa merenda a Palazzo Chiablese.
 
Non tutti conoscono questo Palazzo nel centro di Torino, che si affaccia sulla piazza del Duomo ma che risulta di fatto un po’ defilato rispetto a Palazzo Reale, Palazzo Madama e Palazzo Carignano, fulcro della vita della capitale del regno dei Savoia a partire dagli sfarzi seicenteschi.

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