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Golosaria tra i castelli del Monferrato

Dopo il tour al Salone del Gusto tra alcuni produttori del Monferrato Astigiano, e il foodblogger tour Monferrato2Taste nella provincia di Alessandria, non poteva mancare, a coronamento del mio appena scoccato colpo di fulmine per questa regione affascinate e ricca di stimoli,  un riferimento a Golosaria Monferrato 2013, che partirà tra pochi giorni, il 1°marzo, per due weekend consecutivi, e che si svolgerà nel territorio monferrino, tra borghi e castelli.
Il territorio del Monferrato ha sempre avuto confini labili, sui quali sono avvenute, nel corso dei secoli, scorribande e razzie, da parte di barbari e saraceni, ma sui quali si è intessuta una storia complicata e ricchissima. I castelli del Monferrato portano, sulla loro “pelle” fatta di pietra e mattoni, questa intricata storia, ed andare per castelli, qui, rappresenta davvero una lezione affascinantissima.
Quando poi la storia si fonde con il buon cibo, il nutrimento della pancia diventa nutrimento anche per la mente e tutti possiamo esserne arricchiti. Forse a questo si deve la scelta azzeccatissima di intrecciare gli eventi di Golosaria con i castelli e i borghi del territorio.
La rassegna di Golosaria si aprirà la sera del 1°marzo con l’Aperitivo alla Marengo. Io ho avuto occasione di assaggiare il Napoleone, delizioso brut Marengo con succo di mela verde presso il Mezzo Litro, ma le rivisitazioni non mancano.
Il 2 e il 3 marzo, la manifestazione proseguirà con le feste nei paesi del Monferrato alessandrino e casalese, con i produttori del Golosario, provenienti da tutta italia, che faranno assaggiare i loro prodotti. 
Nella cornice di questa festa all’insegna del cibo buono e di qualità, sarà possibile fare altre esperienze, ad esempio la visita guidata alle segrete del Castello di Casale Monferrato. Impossibile citare tutti gli eventi legati alla rassegna; ha catturato la mia attenzione la cena con delitto che si svolgerà il 2 al Castello di Camino, le visite guidate al Castello di Gabiano (che è uno fra tanti ad offrire questa possibilità), la presentazione ufficiale della nuova De.Co del comune di Vignale, la fricia, che altro non è che il fritto misto alla maniera monferrina.
Per conoscere tutti gli eventi consultate il programma completo e scaricate l’invito gratuito.
La rassegna proseguirà l’8-9 e 10 marzo nel Monferrato astigiano.
Anche in questo caso, moltissimi eventi in programma, tutti disseminati in questo territorio ricco di storia e di fascino. Solo per citarne alcuni: ad Asti ci sarà la Fiera dei Vini della Luna di Marzo e il Festival delle Sagre Invernali, con i piatti cucinati dalla pro-loco; a Montiglio si svolgerà l’evento parallelo GolosExpo con il convegno “Grandi Donne della Storia del Monferrato” e la cena ad esso legata incentrata sulle Donne del Monferrato; a Murisengo ci sarà la cena a tema “Il cuoco piemontese”.
Il 10 proseguono le degustazioni e le visite guidate; nel paese di Castagnole Monferrato, patria del Ruchè, la mostra di auto e moto d’epoca; a Moncalvo ci sarà l’esposizione degli antichi mestieri; a Montiglio il Banchetto dei Marchesi e nel pomeriggio le danze occitane.
Anche in questo caso bisogna consultare il programma completo per scegliere gli eventi più congeniali a ciascuno, e ce n’è davvero per tutti i gusti.

Qui sotto troverete alcune foto della passata edizione, gentilmente prestatemi da Sarah Scaparone.

Con questo post, spero di avervi incuriositi un po’ e, se non avevate già in programma una gita in Monferrato per Golosaria 2013, fateci un pensierino!!!

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Frittata di Scammaro per i “giorni di magro”

In Italia la religione molto spesso ha condizionato il modo di gustare il cibo. In questo caso faccio riferimento alla Quaresima, ma si può allargare questo concetto a qualsiasi festività religiosa: ogni festa è legata ad un cibo particolare o, al contrario, a un divieto.
Durante la Quaresima si mangia di magro, e la celebrazione ridondante del Carnevale con fritture e carni grasse altro non era che uno sfogo prima del periodo di temperanza. Tolti i poveri che già carne non ne mangiavano neppure in altri periodi liturgici, la gente laica poteva osservare il vincolo solo nei venerdì di quaresima e durante la settimana santa. La gente di chiesa, invece, doveva dare il buon esempio ed evitare il consumo di carne per tutti i quaranta giorni precedenti la Pasqua. In particolar modo, dovevano farlo i monaci, che vivevano tutti insieme, e quando qualcuno di loro, particolarmente anziano e debole non poteva evitare di consumare un poco di carne, lo poteva fare nella propria celletta, per non generare insane acquoline nei suoi compagni.
Da qui la spiegazione del termine napoletano scammaro: mangiare in camera, cammerare, voleva implicitamente dire “mangiare proteine animali”; al contrario mangiare fuori della camera, scammerare, passò per estensione ad indicare il “cibo di magro” consentito in quaresima, fino ad indicare la quaresima stessa.
Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino e discendete dal famoso Guido, amico di Dante, nel 1837 inserisce questa ricetta nel suo libro Cucina Teorico Pratica , una vera e propria enciclopedia della cucina napoletana; evidenti le influenze della cucina francese, ma dalla seconda edizione si arricchisce di un’appendice tutta dedicata alla cucina contadina e delle classi meno abbienti. Tra le ricette proposte anche la frittata di scammaro, che non contiene uova, e che sta insieme per magia…
Marinella Penta de Peppo racconta un’altra leggenda sull’origine di questa frittata, attribuendone l’invenzione ad un famigerato mago Cico.
 

Io vi consiglio di vedere tutto il suo video, anche (e soprattutto!) perchè ci insegna il metodo di cottura delle frittate di pasta. Questo metodo, un po’ lungo, ma che garantisce un risultato perfetto, permette a questo timballo di maccheroni di rapprendere senza che vi siano uova nell’impasto.
Il consueto abbinamento di uva passa e pinoli alla ricetta salata è tra quelli che adoro e quindi ho utilizzato esattamente gli stessi ingredienti, variando leggermente le proporzioni.

La ricetta: Frittata di Scammaro

ingredienti (per 4 persone):
280 g di spaghetti
2 spicchi d’aglio
100 g di olive nere tagliate a pezzettini
30 g di capperi
50 g di uva passa
30 g di pinoli
4 filetti di acciuga sott’olio (o due acciughe sottosale, da diliscare e sciacquare sotto l’acqua corrente)
olio d’oliva extravergine

Per prima cosa ho lessato gli spaghetti al dente.
Nel mentre ho rosolato in cinque cucchiai d’olio extravergine d’oliva l’aglio sminuzzato finemente aggiungendo poi capperi e olive e dopo poco uva passa e pinoli. Ho tolto dal fuoco questo sughetto e vi ho aggiunto le acciughe tagliate a pezzettini.
Con questa salsa ho condito gli spaghetti tenendone da parte un paio di cucchiai per aggiungerli al centro della “frittata”.

Ho messo a riscaldare sul fornello una padella ben unta d’olio; quando l’olio era caldo  ho versato gli spaghetti, aggiungendo al centro il condimento che avevo tenuto da parte.
Dopo aver rosolato la frittata per 2-3 minuti a fuoco vivace, ho spostato la padella sul fornellino più piccolo. La frittata di scammaro segue la regola di cottura di tutte le frittate di maccheroni. Occorre infatti tenere il fornello non al centro della padella, ma costantemente sul bordo, ruotando la padella di 90° ogni 3-4 minuti; dal bordo il calore si diffonderà fino al centro, cuocendo tutta la frittata in modo uniforme. Trascorsi i 12-16 minuti, ho girato la frittata con l’aiuto di un piatto piano ed ho fatto cuocere nello stesso modo anche l’altro lato. Dopo quest’altro giro di cottura ho messo la frittata di scammaro su un piatto da portata, tagliando a spicchi direttamente in tavola.

 

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Biscotti con farina di grano saraceno, arachidi e noci

La disputa su cantucci e biscotti di Prato è centenaria.
I primi, i cantucci, deriverebbero da un pane dolce all’anice, poi tagliato a fette e fatto tostare, per farlo conservare più a lungo. Nella forma e nell’aroma ricordano i genovesi biscotti del Lagaccio.
Quelli conosciuti come biscotti di Prato, invece, nella ricetta originale sono fatti con farina, zucchero, uova, mandorle e, talvolta, pinoli, senza alcun tipo di grassi né di lievito. Quindi sono ben croccanti e si prestano ad essere inzuppati nel vin santo, proprio perchè così asciutti ed essenziali.
La confusione legata al loro nome è però bilanciata da una storia antica e documentatissima. 
I biscotti di Prato non sono nati a Prato, è la dura verità, derivano dai bischotelli fiorentini descritti da Francesco Redi, lo scienziato che ebbe il merito di inventare una deliziosa cioccolata al gelsomino per Cosimo de’ Medici nel XVII secolo. 
Nel 1691 arriva la definizione dall’Accademia della Crusca: “biscotto a fette, di fior di farina, con zucchero e chiara d’uovo”, mentre la prima ricetta è effettivamnete custodita nell’archivio storico della città di Prato, risale al XVIII secolo e definisce questi biscotti come “fatti alla genovese”.
Un’altra disputa è legata all’abitudine consolidata di consumare questi biscotti in abbinamento con il vinsanto. I gourmet sostengono invece che in questo modo si danneggiano due prodotti, in primis il vinsanto che viene sporcato dalle briciole; in secondo luogo il biscotto che sembra necessitare dell’aroma del vino per poter essere gustato appieno. 
Il dessert da fine pasto composto da vinsanto e cantucci è però innegabilmente ottimo, e rappresenta una gestualità lenta e antica, che mi ricorda le lunghe permanenze attorno alla tavola, una volta finito il pasto, nei giorni di festa. 
Questi biscotti furono apprezzati da Herman Hesse, che li descrisse come gli unici tanto buoni da fargli tornare il buonumore, mentre Pellegrino Artusi racconta, ne “La Scienza in Cucina e l’Arte di Mangiare Bene”, del suo incontro con lo squisito e gentilissimo pasticcere Antonio Mattei, papà dei biscotti di Prato dal 1858.
La storia di questi biscotti, l’avrete capito, è talmente estesa, documentata, controversa e ricca di colpi di scena da aver ispirato un libro, quello di Marco Ferri, “La vera storia dei cantucci e dei biscotti di Prato” dell’editrice Le Lettere. 
La curiosità più simpatica sul nome di questi biscotti l’ho trovata su coquinaria.it, dove vien detto che il nome “cantuccini” deriva dal fatto che i meno abbienti, pur di gustare questa delizia, si accontentavano delle parti terminali del filone, i cantucci appunto, considerati meno pregiati delle fette centrali. In realtà i linguisti forniscono una spiegazione meno romantica: pare derivare da cantellus che in latino significa pezzo o fetta di pane. 
 
Il punto è che quella dei cantucci-biscotti di Prato è anche una tecnica, tanto geniale, quanto estendibile anche ad impasti leggermente diversi, più ricchi, e si rivela una vera alleata per preparare degli ottimi biscotti senza dedicare molto tempo al taglio della forma.
In più le possibilità di variazione nel gusto sono infinite: canditi, cioccolato a pezzettini, altra frutta secca…
Io li ho preparati con la farina di grano saraceno, ultimamente mia grande alleata in cucina, e con l’aggiunta di noci ed arachidi all’impasto. 

La ricetta: Biscotti con farina di grano saraceno, arachidi e noci
120 g di farina di grano saraceno
80 g di farina bianca tipo 0
120 g di zucchero
80 g di burro
1 uovo
1 pizzico di sale
60 g di gherigli di noci
100 g di arachidi sbucciate
la punta di un cucchiaino di lievito in polvere per dolci 
Ho lavorato il burro con lo zucchero, ho aggiunto l’uovo sbattuto con un pizzico di sale ed ho mescolato bene il tutto.
Ho aggiunto gradualmente le farine e successivamente il lievito in polvere.
Per ultime ho inserito nell’impasto la frutta secca sbriciolata grossolanamente.
Ho lasciato riposare questo impasto per circa mezz’ora al fresco.
Ho composto sulla carta da forno dei filoncini, spessi circa 5 cm, ed ho infornato a 170° per circa 15/20 minuti.
Quando i filoncini erano tiepidi li ho tagliati a fette, leggermente in diagonale, dello spessore dei 1,5 cm.
Ho nuovamente infornato le fette di biscotto finchè non erano leggermente dorate.

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Fratelli Carli Day – una visita in azienda

Mi ritrovo finalmente a parlare della mia gita ad Imperia del 22 novembre presso l’azienda dei Fratelli Carli.
C’è stato di mezzo dicembre e il Natale, ma nonostante sia passato del tempo, ci tengo molto a mettere nero su bianco i ricordi di questa esperienza, che consiglio a tutti quanti ne abbiano la possibilità.
Fratelli Carli significa da più di cent’anni olio extravergine d’oliva e, prima dell’avvento dei negozi Carli, a Torino ne abbiamo uno, questo olio arrivava direttamente a casa tramite spedizione. 

E’ giusto fare subito una precisazione: Carli produce una tipologia di olio di sole olive taggiasche, e diverse tipologie di olio che sono blend di oli di qualità superlativa, accuratamente selezionati. 
Vista la mole di vendita non sarebbe possibile produrre solo da olive liguri, poichè esse rappresentano soltanto l’1,7% della produzione italiana; per questa ragione Carli ha cominciato a guardare non tanto alla provenienza degli oli, ma alla loro qualità. Un olio buono e senza difetti, deriva per forza da olive coltivate con tutti i più sani criteri. 
La fase della selezione degli oli, che avviene direttamente in azienda, è importantissima, perchè soltanto oli senza alcun tipo di difetto e che rispondano a determinate caratteristiche possono entrare a far parte del blend Carli.

La visita all’azienda si è articolata durante tutta una giornata su diverse fasi ben coordinate:
– visita ad un uliveto 
– degustazione guidata
– lezione di cucina con pausa pranzo
– visita al museo dell’olivo
– visita all’azienda/comparto produttivo
Le informazioni immagazzinate sono state tante ma interessantissime ed hanno contribuito a darci un quadro molto esauriente di tutto il lavoro utile per produrre un olio di ottima qualità.
Siamo partiti dalla visita ad uno degli uliveti di taggiasche, piantumato nel 2004 con circa 2000 alberi in produzione. Il periodo era perfetto per vedere le olive ancora sugli alberi e pronte per essere raccolte e per capire con quale cura vengono neutralizzate o quantomeno combattute le mosche dell’olivo e come viene effettuata la raccolta. 

Il diserbante utilizzato è idrosolubile e quindi con il lavaggio delle olive viene poi eliminato competamente. Anche lo strumento per scuotere le fronde è stato studiato per non apportare alcun danno alla pianta.

L’oliva è pronta per essere raccolta quando è ancora per metà verde, e deve essere lavorata entro 24-48 ore, pena l’ossidazione del frutto. 

Da ciò si comprende come la raccolta e la lavorazione debba seguire determinati ritmi, che sono poi quelli seguiti da migliaia di anni, anche se le tecniche di lavorazione si affinano e diventano più efficienti. Da 12 kg di olive vengono prodotti circa 2 kg di olio, quindi lo scarto di foglie e noccioli è preponderante.

Dall’uliveto siamo passati alla fase di degustazione: un’esperienza davvero curiosa per un neofita!!
Ci guida Gino De Andreis, uno dei degustatori dell’Azienda Carli, spiegandoci prima i passaggi della lavorazione del frutto, i fattori di influenza sul gusto di un buon olio extravergine di oliva e i sensi coinvolti nella degustazione.
L’oliva e quindi l’olio con essa prodotto è influenzato dal clima, dalla composizione del terreno, dalla gestione dell’uliveto, dallo stoccaggio e dalla lavorazione in frantoio e naturalmente, prima di tutto, dalla varietà di oliva.
Noi assaggiamo diversi tipi di olio evo, alla cieca, cercando di determinarne il grado di fruttato, di amaro e di piccante. Queste note variano a seconda della provenienza dell’olio e sono determinanti per classificare la bontà di un olio. A questa fase arrivano soltanto oli già classificati senza difetti dal punto di vista chimico-analitico. 

Ci districhiamo con eleganza tra olio di sole taggiasche ed eccellente olio del Peloponneso, tra olio siciliano e olio pugliese che sono quelli che nel tempo mantengono di più le caratteristiche organolettiche e scivoliamo verso l’ora di pranzo.
Durante la lezione di cucina sotto la guida dello chef Enrico Calvi del ristorante Salvo Cacciatori di Imperia, cerchiamo di imparare a fare un ottimo pesto ligure: la regola è prima l’aglio con il sale, poi gli altri ingredienti ed infine l’olio che si aggiunge quando il pesto è già stato travasato dal mortaio per non ungerlo e rendere difficoltose le future pestature!!

A pancia piena arriva il momento della visita al Museo dell’Olivo.

Il patriarca della famiglia Carli raccoglie reperti sull’olio e sulla sua storia con grandissima passione da moltissimi anni. La visita, come potete immaginare, mi ha affascinato: l’olio d’oliva può raccontare una storia lunga 7000 anni. Appartiene al passato delle civiltà mediterranee e si fonde alle loro vicende storiche, alla loro arte e al loro vissuto quotidiano, restando attuale fino ad oggi.

La visita all’Azienda è molto meno poetica, ma decisamente interessante: 
dalla separazione delle foglie al passaggio delle olive sotto  le enormi molazze di granito, seguiamo tutti i passaggi attraverso la superficie vetrata che circonda il frantoio a ciclo continuo. Tutte le lavorazioni sono sotto i nostri occhi, non si può dire che la Fratelli Carli non lavori alla luce del sole.

Il reparto imballaggio è impressionante: migliaia di bottiglie marciano inarrestabili verso i loro scatoloni, dove viaggeranno verso i consumatori finali. L’olio è filtrato per allungarne la vita, in questo modo non si ossida e può durare fino a 2 anni.

Concludiamo la visita all’azienda Carli con un salto all’Emporio. Qui scopriamo una vasta gamma di prodotti che si svincola dal solo olio extravergine di oliva, ma che racconta una storia lunga millenni di conservazione e di 1000 altri usi, andando dal tonno in scatola sott’olio ai prodotti per la persona.
Visto che si avvicinava il Natale non ho potuto fare a meno di acquistare un panettone all’olio di oliva che, adesso posso dirvelo, era assolutamente delizioso e di una sofficità incredibile!!

Concludo ringraziando l’Azienda della bella opportunità offerta ed augurandomi che altre visite ad altre aziende siano possibili per noi appassionate di cibo, perchè credo che un vero appassionato possa fare la differenza raccontando il “dietro le quinte” dei marchi storici.
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Galette des Rois per l’Epifania Il dolce parigino dell'Epifania per eccellenza

Oggi non poteva mancare un dolce, per di più dal momento che l’Epifania è l’unica occasione dell’anno in cui questa prelibatezza si dovrebbe gustare: la galette des Rois parisienne.

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Galette des Rois per l’Epifania Il dolce parigino dell'Epifania per eccellenza " class="facebook-share"> Galette des Rois per l’Epifania Il dolce parigino dell'Epifania per eccellenza " class="twitter-share"> Galette des Rois per l’Epifania Il dolce parigino dell'Epifania per eccellenza " class="googleplus-share"> Galette des Rois per l’Epifania Il dolce parigino dell'Epifania per eccellenza " data-image="https://www.ricettedicultura.com/wp-content/uploads/2013/01/galette-des-rois_3.jpg" class="pinterest-share">
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Cicatielli Irpini con broccoli e pancetta

Eccoci al primo post del 2013 con i buoni propositi per il nuovo anno.
Mi sono chiesta cosa vorrei continuare a scrivere in questo mio spazio e mi sono ritrovata a sfogliare le pagine che più amo con le ricette più riuscite.
Voglio continuare a sperimentare ricette che hanno una storia, cibi che parlano e che raccontano le loro origini; voglio dare nuovamente spazio alla rubrica Tea Time, con nuove idee, e a quella del Panificiocon nuovi esperimenti lievitati; voglio conoscere e condividere le ricette di altri paesi e lo farò grazie alla mia partecipazione all’Abbecedario Culinario; e vorrei imparare ancora molto da tutti voi che passate da queste parti.

Comincio l’anno con una pasta fresca speciale che di storia ne ha tanta.
E’ una pasta del sud, precisamente dell’Irpinia, che è diventata il simbolo di Montecalvo Irpino e che è tradizionalmente preparata con la farina di grano duro di quella zona.
La leggenda narra che sia stata inventata da una moglie che aveva appena scoperto il tradimento del marito. Nel formare questa pasta i pezzetti vengono fatti rotolare sulla spianatoia, comprimendoli con due o tre dita della mano, “ciecandoli” insomma con rabbia e forza. Chi ha già lavorato la pasta di grano duro sa quanta energia ci voglia!!
Pare che la moglie tradita grazie a questo piatto di pasta riuscì a riconquistare il marito infedele… Io, dopo averla assaggiata, vi dico che ne vale la pena anche senza dover sanare incomprensioni domestiche.
Anche il condimento tradizionale si rifà ad una simbologia: c’è il ragù con la braciola, detta braciola della moglie, c’è il sugo di pomodoro insaporito con la ricotta salata, e c’è la variante più adatta a questa stagione: i cicatielli co’ ruoccoli e scardella. I broccoletti, i ruoccoli, sono della varietà napoletana; la scardella è un particolare tipo di pancetta dell’Irpinia.
E se volete sapere cosa significa il detto “chi si magna lu ruoccolo s’adda
sta fermo cu lu paruoccolo
“,
andate a leggere qui.

La ricetta tradizionale prevede tutta farina di grano duro, nella variante campana saraolla, e prodotti del territorio per il condimento. Io ho rivisitato la ricetta con quello che sono riuscita a trovare qua, ottenendo ugualmente un ottimo piatto. Naturalmente, se vi trovaste in quei luoghi sarebbe un sacrilegio non provarli con i prodotti originali, tanto più che l’Irpinia è una terra di ottimi vini!!
La ricetta originale prevede che i cicatielli vengano lessati assieme ai broccoletti e poi saltati insieme in padella con la pancetta, mentre io ho fatto sbollentare i broccoli in precedenza.

La ricetta: Cicatielli con broccoletti e pancetta.
per la pasta: 
150 g di farina di semola di grano duro 
50 g di farina 00
acqua calda
sale

250 g di broccolo fresco
70 g di pancetta a dadini
1 spicchio d’aglio

Ho impastato i due tipi di farina con il sale e l’acqua calda, fino a formare un impasto sodo.
L’ho lasciato riposare per 20 minuti.
Ho preso una porzione di pasta e vi ho ricavato un serpentello lungo del diametro di 1 cm. Ho tagliato il serpentello in pezzetti di 3 cm e poi con tre dita ho schiacciato ogni pezzetto di pasta, facendolo rotolare sulla spianatoia infarinata.
Ho ripetuto fino ad esaurire la pasta.

Ho preparato il condimento, lavando e lessando i broccoli e schiacciandoli leggermente con la forchetta.
In un’ampia padella ho messo lo spicchio d’aglio in due cucchiai di olio evo. L’ho fatto leggermente rosolare ed ho aggiunto la pancetta a dadini, lasciando che si dorasse per bene. Poi ho aggiunto i broccoli e ho fatto proseguire la cottura, aggiungendo all’occorrenza un goccino d’acqua calda. 

Ho lessato i cicatielli in abbondante acqua salata e li ho fatti saltare in padella con il condimento finché erano ben insaporiti.

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Monferrato2Taste, un Monferrato da gustare

Ecco giunto il momento di mettere nero su bianco quella che è stata la bellissima avventura del Monferrato2Taste. Un gruppetto di foodblogger, grazie alla Borsa Internazionale del Turismo EnoGastronomico e all’Ente Turistico di Alessandria, accompagnate dal brio energico di Lara Bianchi e dalla dolcezza scoppiettante di Lisa Devincenzi di Alexala, con la compagnia anche di Emanuela Sarti nella giornata di sabato, hanno avuto la possibilità di conoscere meglio zone, prodotti e produttori del Monferrato alessandrino: io ero tra di loro, con Valeria, Anna, Lia e Ale.
All’arrivo ad Alessandria, dopo una breve sosta al nostro hotel, Alli Due Buoi Rossi, antico edificio in pieno centro, siamo partite per la visita alla città con le nostre guide Lisa e Lara.
Alessandria mi ha lasciato la sensazione di una città dall’aria distinta ed elegante. Molti i palazzi signorili che danno un volto compiuto alle sue strade dritte, sebbene le origini della città siano medievali. Le sue vie e le sue piazze sono piene di storia, come tutte le città a cui ho promesso amore incondizionato. Impossibili da dimenticare l’imponente Palazzo Rosso con i suoi tre quadranti e il galletto segnavento, Palazzo Ghilini di Benedetto Alfieri, il campanile art decò del Duomo, il mosaico del futurista Gino Severini sulla facciata della sede delle Poste e Telegrafi, la statua di Andrea Vochieri con la mano sul petto. Peccato non aver potuto fare foto a causa del buio, ma sono tutte cose che dovreste vedere!!! 
Non importa che l’aria sia pungente e gravida di nebbia; passeggiamo tra le strade eleganti e diritte del capoluogo monferrino e, mentre ascoltiamo i racconti di Lisa, ci perdiamo in un limbo senza tempo. <<Alessandria è una comoda poltrona: ti siedi e ti addormenti>>, diceva Umberto Eco, sbocconcellando la più famosa farinata della città.
Non è proprio così, ma l’atmosfera rilassata si sente.

Per l’aperitivo approdiamo al Mezzo Litro che, con la frizzante ospitalità di Monique Monica Moccagatta, promotrice del Capodanno Alessandrino che si festeggia alla fine dell’estate, fa da contraltare a questa rilassatezza. Provare il Napoleone, succo di mela e Cortese DOC del Monferrato, è d’obbligo, mentre divoriamo gli stuzzichini messi a disposizione.

Per la cena un altro posto caldo e accogliente ci attende, Il Grappolo dello chef Beppe Sardi, che sarà la nostra guida nella mattinata di sabato e il nostro maestro di cucina nel pomeriggio. 
E sono di nuovo sorrisi e chiacchiere sul cibo e su di noi, in un’atmosfera amichevole che subito si è instaurata anche senza conoscerci da lungo tempo. 
Assaggiamo gli agnolotti di Beppe – più che un assaggio era un piattone – e il bollito misto, un classico piemontese, accompagnato da ben 12 tra salse e sali aromatici. Il dolce ci lascia senza fiato, tanto siamo piene, e subito siamo pronte a ripartire alla volta dell’hotel, salutando Lara che non ci accompagnerà nel resto del tour.

La mattina seguente arriva Emanuela Sarti di BITEG. Insieme incontriamo Beppe Sardi alle 8 in punto, e con lui, e lo chef Mattia, ci avviamo alla volta dei negozi più tipici di Alessandria per fare la spesa per la nostra cena. Dalla Galleria Guerci al corso Lamarmora, Alessandria ha un’anima commerciale davvero spiccata. Tante le botteghe alimentari con prodotti di altissima qualità, tanti i caffè, le pasticcerie, le enoteche. In ogni negozio in cui entriamo Beppe ci illustra le eccellenze del territorio e, dove possiamo, assaggiamo, come il nostro status di foodies-foodblogger ci impone!!

Completata la spesa in Alessandria, con tanto di deliziosi Krumiri Rossi, ci dirigiamo verso il caseificio Adorno, in località Cravarezza, che è anche fattoria didattica. Per gustare al meglio un prodotto bisogna conoscerlo, e sicuramente ora la Robiola di Roccaverano la apprezzeremo ancor di più. Visitiamo l’allevamento di capre e vacche e il caseificio ed assaggiamo i formaggi, anche la toma stagionata un anno e la mostarda d’uva.

A questo punto non ci resta che viaggiare in direzione Crevi per la visita all’Azienda Vinicola delle Sorelle Marenco. L’azienda è condotta ormai dalla 4°generazione dei Marenco, e loro portano con molto orgoglio il titolo di donne del vino. Anche qui abbiamo modo di assaggiare i vini, prodotti con passione e sacrificio, e i cibi messi a disposizione dalla cantina: il filetto baciato è una vera esplosione di sapore: si tratta di filetto a pezzo intero insaccato all’interno di una pasta di salame aromatizzata con sale, pepe, noce moscata, aglio e vino rosso.

La Scuola di Formazione Alberghiera di Acqui Terme ci attende; qui si svolge per noi una vera lezione di cucina, tenuta da Beppe Sardi, per la preparazione della cena della sera stessa. L’Istituto è enorme e l’aula che ci accoglie sembra per noi il paese dei balocchi.

Ecco cosa abbiamo preparato:

Baccalà alla Mediterranea
Insalatina  di petto di tacchino
Risotto al Cortese
Salamino del Mandrogno con cipolla rossa e vino rosso
Zabaione con Krumiri

Sullo zabaione, ormai stanche, è tutto un declamare di versi: 

Evviva i Krumiri
dolcezza squisita
che molce il dolore

e allieta la vita!

L’ultima giornata in giro per il Monferrato è dedicata al relax. Raggiungiamo Camino Monferrato e ci lasciamo coccolare dal Wine Resort & Spa Ca’ San Sebastiano, un agriturismo ricavato da un’antica cascina.

Le immagini parlano da sole e la sensazione provata entrando in questi luoghi è esattamente quella evocata dalle immagini. Un luogo sereno e senza tempo, dove il tepore e la tranquillità la fanno da padroni ed io mi sono immaginata, più che seduta in poltrona, in una cucina come questa a preparare una cenetta degna di un re.

Alla fine ci siamo fatte coccolare davvero: grande vasca idromassaggio con getto d’acqua fatto apposta per massaggiare la cervicale, sauna, e vinoterapia. 
Uscite dalla Spa, siamo andate a mangiare qualcosa…ormai avevamo preso il vizio! Il ristorante di Ca’ San Sebastiano è decisamente all’altezza. I piatti sono particolari e curati, e la menzione solenne va al loro delizioso brasato che letteralmente si scioglie in bocca.

Ormai è giunto il momento dei saluti. Alcune compagne di viaggio partono da lì per il rientro. 
Io, con Anna, ho il tempo di ascoltare ancora un bellissimo brano di Giovanni Goria, scovato da Lisa e perfettamente intonato all’occasione: si parla di convivialità ma non solo. 
Si parla tra le righe anche un po’ di noi che in tre giorni abbiamo conosciuto questo angolo del Piemonte di cui ancora si parla poco ma che è ricco di spunti turistici. E il bello è poter scoprire a tavola che non esiste un solo Piemonte, ma mille altri ancora sconosciuti ai più, basta saper assaggiare! 😉

NB. altre foto le trovate qui.

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La Zuppa di Carote alla Crecy

La battaglia di Crecy fu una delle più importanti della Guerra dei Cent’anni, infatti il 26 agosto 1346 segnò la fine della cavalleria intesa in senso antico. Gli inglesi armati dei famosi longbow, gli archi lunghi, avendo una gittata decisamente superiore alle balestre usate fino a quel momento, evitarono lo scontro diretto, allungando le distanze tra gli eserciti nemici, e al tempo stesso abbatterono molta della cavalleria nobile francese, ancor prima che la battaglia entrasse nel vivo. 
La Francia schierava nelle sue fila tra i 50.000 e i 60.000 uomini, a seconda delle fonti dell’epoca, di cui circa 12.000 erano cavalieri, gli Inglesi erano poco più di 12.000 uomini, ma schierati a forma di cuneo lungo un terreno pianeggiante protetto ai lati da ostacoli naturali.
Ai primi lanci di frecce molti nobili francesi caddero dai cavalli feriti e furono costretti ad avanzare a piedi sotto il peso delle pesanti armature, mentre venivano nuovamente bersagliati dalle frecce nemiche. I balestrieri genovesi, sempre tra le fila francesi, non riuscirono a contrastare la potenza di fuoco.
Si racconta che il re Giovanni I di Boemia, saputo l’esito più probabile della battaglia, seppure ormai anziano e cieco, si fece legare al suo cavallo e si gettò verso l’esercito inglese urlando che prima di morire voleva combattere ancora l’ultima battaglia. Il giovanissimo Edoardo, principe di Galles, appena sedicenne e a capo di una delle sezioni dell’esercito inglese, ne rimase tanto colpito che volle per sé un’armatura uguale a quella del valoroso nemico. Il giovane “principe nero” venne anche immortalato dal pittore Julian Story in questa tela del 1888.
Al di là de La Manica, mangiare una zuppa alla Crecy significa commemorare questa celebre e drammatica battaglia, in Francia invece significa gustare le migliori carote del paese, proprio quelle di Crecy, in Piccardia, cucinate con una gustosa e confortante ricetta. La Potage Crecy viene affrontata anche da Julia Child nel suo Master of Frech Cooking e rappresenta un classico.
La zuppa può essere preparata con l’aggiunta di patate schiacciate  o con il riso per conferire cremosità. Io ho provato con il riso, che non modifica in alcun modo il sapore della zuppa e la rende molto sostanziosa senza alterare in alcun modo il sapore delle carote.
La ricetta: Zuppa di carote alla Crecy

(per 2 persone)
300 g di carote
1 cipolla
2 cucchiai di riso originario o comune da minestra
500 ml di brodo vegetale
olio extravergine di oliva 
sale
pepe bianco
era cipollina 

Ho preparato il brodo vegetale con carota, patata, cipolla, aglio e prezzemolo in acqua con olio e sale.

In una casseruola ho messo la cipolla tritata finemente, con un giro d’olio e l’ho fatta imbiondire leggermente, poi l’ho stufata con due dita di brodo e l’ho lasciata ammorbidire per 5 minuti.

Da parte ho lavato e pelato le carote e le ho tagliate a rondelle. Le ho aggiunte alla cipolla, le ho fatte insaporire e poi ho aggiunto il riso. Ho proseguito la cottura finchè le carote erano completamente morbide. Ci vorrà circa mezz’ora. Ho tenuto da parte qualche rondella di carota. Poi ho passato tutto il resto con il frullatore ad immersione fino ad ottenere una crema densa. Ho aggiunto ancora un poco di brodo e un filo d’olio in ogni piatto, decorando con una spolverata di erba cipollina, qualcuna delle rondelle di carota lasciate da parte e una macinata di pepe.


Con questa ricetta arancione partecipo alla puntata di novembre di Colors & Food dei blog di Cinzia, Essenza in Cucina, e di Valentina, My Taste For Food.

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Salone del Gusto 2012 – terza puntata

E dopo la seconda puntata eccoci giunti alla terza!

Come anticipato qui, il 25 ottobre grazie all’iniziativa di Francesca Martinengo e al coordinamento di Emanuela Sarti della BITEG sono stata tra le protagoniste, al Salone del Gusto, di un bel tour virtuale alla scoperta di prodotti e produttori eccellenti piemontesi. 
In particolare il mio tour era incentrato sul Monferrato e siamo state accompagnate nel tour da Clio Amerio.

Il territorio è in linea di massima quello compreso nelle province di Alessandria ed Asti e si estende verso sud fino a confinare con le province di Genova e Savona.  Viene suddiviso in quattro zone, l’Alto Monferrato di Acqui, Ovada e Gavi, il Monferrato Casalese, il Basso Monferrato Astigiano e l’Alto Monferrato Astigiano.
Il territorio è intriso di storia, lo testimoniano i suoi tanti castelli ben conservati, alcuni dei quali ricostruiti all’inizio del ‘900 in stile neomedievale.

Il Monferrato nacque come entità politica attorno all’anno Mille, quando l’Imperatore Ottone I di Sassonia beneficiò il marchese Aleramo di un territorio composto da 15 corti.

La leggenda racconta che Aleramo, “cavaliere particolare” e “mescitore di vini” alla corte di Ottone I, si fosse innamorato della figlia di Ottone, Alasia, e che, d’accordo con lei, fossero scappati insieme sfuggendo all’imperatore. Aleramo fece il carbonaio per molti anni, ma poi finì per partecipare e distinguersi per il suo valore durante la battaglia di Brescia. L’imperatore Ottone lo riconobbe, lo perdonò e lo nominò Marchese. Nel gesto di volergli far dono di un territorio, gli diede un cavallo e gli disse che i confini del suo marchesato sarebbero stati quelli che Aleramo sarebbe riuscito a percorrere in tre giorni di cavalcata. Da questa leggenda deriva anche la spiegazione più affascinante del nome Monferrato, che deriverebbe da mun, mattone, e fra, ferrato, in quanto Aleramo sprovvisto di altri strumenti, si ingegnò a ferrare il suo cavallo con l’aiuto di un mattone. Le altre etimologie fano riferimento a mons ferax, monte fertile e mons farratum, monte coltivato a farro.

Dopo secoli di storia, che a un certo punto si fuse con quella del regno di Savoia, attualmente il Monferrato è candidato per essere inserito nel patrimonio mondiale dell’Unesco.  

Al Salone del Gusto di quest’anno il Monferrato ha preso il posto di tutto rispetto che merita! Per questo ha messo in piedi il Monferrato Circus, un vero e proprio tendone circense al di sotto del quale si esibivano naturalmente i cuochi, ma anche trapezisti ed acrobati, facendo di una cena uno spettacolo a 360°.

Gli chef protagonisti di questo evento sono stati Walter Ferretto, del ristorante Il Cascinale Nuovo di Isola d’Asti e Andrea Ribaldone, fino a questa primavera, chef e socio del ristorante La Fermata a Spinetta Marengo.

Walter Ferretto ha avuto anche la bella responsabilità di guidare noi foodblogger 2.0 alla scoperta di prodotti deliziosi, ma talvolta ancora poco conosciuti.

Siamo partiti da Tonco d’Asti alla scoperta dell’azienda Artuffo, nata ormai 35 anni or sono, dove si pratica l’allevamento del “rurale all’aperto”. Non c’è solo l’allevamento del Tonchese, una qualità avicola pregiata, ma anche la filiera circostante, dal mais al frutteto. Gli animali dell’azienda Artuffo vivono a terra e all’aperto, rientrando al coperto solo di notte. Si parla di gallinella o galletti, e non di polli, poichè raggiungono la maturità sessuale; i galletti ad etichetta blu vivono dai 130 ai 160 130 giorni, quando i polli di comuni allevamenti raggiungono mediamente i 50 giorni di vita e un peso doppio.

E’ bello sentir raccontare di come Artuffo sia partito con l’allevamento in conto terzi, per riuscire dopo molti anni ad avere la propria azienda, e a garantire un prodotto assolutamente naturale; è ancor più bello poter assaggiare la sua gallinella cucinata da Walter Ferretto con verza stufata, castagne lessate e servita con una purea di zucca e mele.

Dopo Artuffo conosciamo Marco Garando, il giovane imprenditore del Caseificio Pepe 1924, di Costigliole d’Asti. Marco è stato cuoco nel ristorante di Walter Ferretto, poi ha deciso di aprire un caseificio, dedicandolo al nonno Giuseppe. Ci racconta come sia difficile in quella zona procurarsi il latte, dovendosi spostare giornalmente di 30 km, ma nonostante ciò Marco crede in quello che fa, lavorando in un laboratorio a vista, dove ogni trasformazione avviene alla luce del sole. 
Assaggiando i suoi formaggi e il suo yogurt capisco quanto grande sia la sua passione.

Ci vengono brevemente presentati anche il Montebore Vallenostra e il Salame Nobile del Giarolo.

Poi viene la volta di conoscere la pasta di Antignano, pasta prodotta con semola di grano duro e farina di mais ottofile. La coltivazione di questo tipo di mais era stata abbandonata durante il XIX secolo, perchè scarsamente produttiva. E’ stata poi riscoperta grazie a Nandino, contadino di Antignano, e riportata in vita. Il mais ottofile di Antignano viene macinato rigorosamente a pietra e da esso si ottiene un’eccellente qualità di polenta e una pasta “da accarezzare”. 

Accanto alla pasta di Antignano, usciamo per qualche istante dalla provincia di Asti, per cogliere l’occasione di assaggiare anche le conserve “come una volta”  della Signora Cuniberto. L’Azienda è situata a Govone, in provincia di Cuneo, e le sue composte e sughi hanno il profumo delle cose antiche, in perfetto stile piemontese.

A questo punto ci spostiamo a Nizza Monferrato dall’Azienda Agricola Colle San Michele,  a conoscere il Cardo Gobbo Nicese, presidio Slow Food, ingrediente irrinunciabile della bagna caoda, e di tante altre ricette piemontesi. Un entusiasta agricoltore ci spiega nei dettagli tutta la faticosa coltivazione di questo ortaggio, che è gobbo, in quanto viene piegato e coperto dalla terra perchè si mantenga bianco e dolce. Ed è dolcissimo davvero, per ripagare i suoi coltivatori della tanta fatica. 

Accanto al Cardo Gobbo, nella stessa Azienda, ci sono Le Delizie di Rosanna, confetture, erbe aromatiche lavorate, salse e mostarde, tutte preparate secondo le ricette della tradizione piemontese; Rosanna ha anche un progetto bello ed ambizioso, dei laboratori pratici per insegnare a giovani studenti l’arte della coltivazione e trasformazione delle erbe aromatiche.

Per ricordare questo viaggio tra le delizie del Monferrato, ho voluto preparare il galletto Tonchese Astigiano secondo una ricetta della provincia di Alessandria. 

Il Pollo alla Marengo si dice sia stato gustato da Napoleone dopo la vittoria della celebre battaglia omonima contro l’esercito austriaco, presso Spinetta Marengo. 
Si combattè per 15 ore, e si può ipotizzare che l’Empereur fosse decisamente affamato. Il suo cuoco di campo gli preparò un sostanzioso piatto con quello che aveva facilmente a disposizione, un pollo o un galletto ruspante, delle uova, dei gamberi di fiume. Difficilmente questo cuoco si mise a cercare dei funghi alle 11 di sera del 14 giugno e assolutamente remote sono le possibilità che li trovasse per caso. Ma la tradizione vuole che la ricetta sia passata alla storia così, con i funghi e tutto il resto, e così l’ho preparata.
Ho sostituito il brodo di pollo con del brodo vegetale e i gamberi di fiume con delle mazzancolle. Naturalmente al posto del pollo ho usato un galletto tonchese, che ben si è prestato a questa cottura in umido.
Regalo questa ricetta alla BITEG, in ringraziamento dell’interessante tour che ha dedicato a noi  foodblogger rappresentanti del Piemonte.

La ricetta: Galletto Tonchese alla Marengo

1 galletto Tonchese selezione blu
2/3 pomodori pelati
1 spicchio d’aglio
1/2 cipolla
1/2 bicchiere di vino bianco
brodo vegetale (o di pollo)
6 mazzancolle  (o gamberi di fiume)
300 g di funghi freschi 
2 uova
2 grosse fette di pane casareccio
2 cucchiai di olio extravergine
sale
pepe
prezzemolo
Ho preparato del brodo vegetale con acqua, carota, patata, sedano, cipolla, prezzemolo, olio e sale.
Ho tagliato a pezzi un galletto e l’ho spellato. Ho sciacquato i pezzi e li ho asciugati con cura; poi li ho passati nella farina.
Ho fatto scaldare l’olio in una pentola e poi vi ho rosolato bene i pezzi di galletto, insaporendo con sale e pepe. Li ho tolti e nello stesso olio ho rosolato per qualche istante la cipolla affettata, l’aglio e i pomodori pelati privati dei semi e tagliati a pezzettini. Ho sfumato con il vino bianco.
Ho rimesso in pentola i pezzi di galletto, li ho rigirati nel sughetto ed ho aggiunto un paio di mestoli di brodo. Ho fatto prendere il bollore a fuoco vivace e poi ho coperto per far cuocere, rigirando di tanto in tanto.
Dopo una ventina di minuti ho aggiunto i funghi tagliati a cubi e ho fatto completare la cottura, con una spolverata di prezzemolo tritato.
Ho stufato le mazzancolle in poco vino bianco, regolando di sale e pepe.
Ho rosolato le fette di pane in padella con un filo d’olio e le ho tenute al caldo. 
Ho fritto le uova in una padella unta d’olio.
Ho composto il piatto: da un lato ho adagiato la fetta di pane con sopra l’uovo all’occhio di bue; poi ho messo i pezzi di galletto, ben coperti dal loro sughetto con i funghi, ho contornato con le mazzancolle e servito!

Noi, in tema Monferrato, abbiamo aperto una bottiglia di ottimo Ruchè di Castagnole Monferrato, e il galletto, con questo sugo saporitissimo, ha retto benissimo il colpo!

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Fave dei morti per Halloween Tutta la tradizione della festa di Halloween

 
I telegiornali dicono che Halloween è la festa per bambini importata dagli Stati Uniti, ma non sempre dicono che negli Stati Uniti questa festa è arrivata dall’Europa, grazie agli immigrati irlandesi e scozzesi: All-Hallows-Eve significa infatti Vigilia di Ognissanti in scozzese antico.

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Il Tuffo del Pinguino – Pepino is on MyTable

Domani 11 ottobre sarò, insieme ad alcuni chef di ristoranti torinesi del circuito MyTable.it ed alcune foodblogger, Un Tocco di Zenzero, Cucina Precaria e Cucina e Cantina, in piazza Carignano a Torino a festeggiare un super gelato torinese.
Protagonista della festa sarà il Pinguino Pepino, il primo gelato da passeggio su stecco, che domani verrà proposto anche come dessert da fine pasto.
Ma per introdurre questa storia tutta torinese, occorre fare un passo indietro nel tempo, anzi un bel balzo, perché arriviamo fino al 1884, quando Domenico Pepino gelataio napoletano arrivò a Torino ed aprì una gelateria in piazza Carignano, la stessa che potete vedere ancora oggi.
Nel 1916 egli cedette per la somma di 10.000 lire la sua attività al Commendator Giuseppe Feletti, che già si occupava di cioccolato, e a suo genero Giuseppe Cavagnino. I rilevatori dell’impresa danno un nuovo impulso commerciale alla gelateria Pepino, adottando il ghiaccio secco per facilitare il trasporto dei gelati, così il gelato Pepino arrivò ovunque.
La gelateria venne insignita negli anni di numerosi riconoscimenti diventando anche fornitrice della Real Casa.
Nel 1939, dopo anni di studio e di ricerca a riguardo, venne “inventato” il gelato da passeggio su stecco: il gelato Pepino alla vaniglia venne immerso in una colata di cioccolato fuso e divenne il Pinguino, conoscendo nuova celebrità e successo.
All’epoca costava una lira e quindi con 2 lire si poteva andare al cinema e prendere un Pinguino.
Negli anni vennero messi sul mercato nuovi gusti di Pinguino, oggi sono sei: crema, gianduja, nocciola, viola, menta e caffé. Cambiò soltanto il packaging del prodotto, adeguandosi ai tempi, ma conservando sempre quell’aria d’antan, delle cose buone di un tempo.
Domani il Pinguino, dopo 73 anni di successo, diventerà anche un dessert. Noi foodblogger insieme agli chef torinesi siamo chiamati a reinterpretare il Pinguino Pepino come un dessert da fine pasto e una giuria di giornalisti assaggerà le nostre opere golose.
Per la mia rivisitazione ho cercato un prodotto che, proprio come il Pinguino, potesse raccontare una storia. 
È il caso dei Nocciolini di Chivasso.
Intorno al 1850 un pasticcere chivassese, Giovanni Podio, creò i primi Nocciolini, con albume, zucchero e Nocciole Tonde Gentili del Piemonte, li chiamò Noasèt, o Noisettes per i clienti d’oltralpe. Nel 1900 suo genero Ernesto Nazzaro portò i Noasèt all’Esposizione Universale di Parigi e nel 1911 a quella di Torino, riscuotendo un enorme successo e facendo sì che il suocero ricevesse un brevetto per questa sua creazione. Poco dopo Podio fu insignito del titolo di “fornitore della Real Casa” da Vittorio Emanuele III, per i Noasèt, proprio come era accaduto con i gelati Pepino.
Il loro nome venne italianizzato in Nocciolini durante il fascismo, e tale restò anche in seguito.
A Chivasso due pasticcerie si contendono il primato per i preziosi bottoncini alle nocciole, la Bonfante, pasticceria storica del 1922, un piccolo gioiello in stile liberty, e la pasticceria Fontana del 1965. 
Dall’incontro di questi due dolci golosi del territorio nasce un dessert davvero principesco.
Ho abbinato una crema al cioccolato fondente con il Pinguino al gianduja, l’ho completata con la croccantezza dei Nocciolini di Chivasso e con una morbida meringa svizzera con yogurt bianco. Per completare qualche scaglia di fondente e naturalmente il Pinguino al gusto gianduja!
Il Tuffo del Pinguino nel bicchiere
La ricetta: Il Tuffo del Pinguino
(per 4 coppe)
per la meringa svizzera con yogurt:
75 g di albume (circa 2 albumi)
150 g di zucchero
3 gocce di limone
100 g di yogurt bianco intero
per la crema al cioccolato:
100 g di mascarpone
50 g di cioccolato fondente
1 Pinguino Pepino al gusto gianduja
80 g di Nocciolini di Chivasso 
per decorare 4 coppe: 4 Pinguini al gianduja
Procedimento:
Preparare la meringa svizzera: mettere in una ciotola, o in un pentolino che vada a bagnomaria, gli albumi con un cucchiaio di zucchero e ¾ gocce di limone; mettere questa ciotola dentro quella piena d’acqua sul fornello acceso e cominciare a montare aumentando man mano la velocità, quando gli albumi sono bianchi aggiungere lo zucchero restante e continuare a montare finchè la meringa non diventa bella lucida. L’operazione dovrebbe essere svolta a 60°, con l’aiuto di un termometro da cucina, riducendo eventualmente il bollore dell’acqua sottostante. 
Una volta che la meringa è ben montata mettere da parte.
Preparare la crema al cioccolato fondente: sciogliere a bagnomaria il cioccolato fondente precedentemente sminuzzato. Farlo intiepidire e mescolarlo al mascarpone e alla crema di un Pinguino al gianduja ammorbidito a temperatura ambiente. Porre in frigo per un quarto d’ora. 
Mescolare la meringa allo yogurt bianco e comporre il dolce.
Sul fondo delle coppe mettere uno strato di crema al mascarpone e cioccolato. Sulla superficie adagiare i Nocciolini di Chivasso, sopra questi mettere una cucchiaiata di meringa svizzera con yogurt. 
Decorare con qualche scaglietta di fondente e “tuffare” un Pinguino al gianduja.
Il Tuffo del Pinguino ancora nel bicchiere
Il Tuffo del Pinguino presentato in coppetta

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