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600 g circa di carne di cavallo tritata
1 cipolla tritata fine
50 g di lardo a fettine tritato finemente
250 ml di vino bianco secco
4-5 pomodori pelati
1 peperone
sale
pepe
1 rametto di rosmarino
5 foglie di salvia
un ciuffo di prezzemolo
5 foglie grandi di basilico
1 spicchio d’aglio
In un tegame abbastanza piccolo e dal fondo spesso ho messo la cipolla con il lardo tagliuzzato fine e ho fatto appassire per qualche minuto. Poi ho aggiunto la carne e l’ho fatta rosolare mescolandola bene. Dopo averla ben rigirata da ogni parte ho aggiunto tutto insieme il vino a fatto stufare sempre a fuoco bassissimo per circa 50 minuti. E’ importante che la pentola non sia troppo grande, così il vino non evaporerà troppo in fretta. Nel frattempo ho immerso i pomodori in acqua bollente e li ho pelati e poi tagliati a dadini minuti. Ho lavato il peperone, l’ho liberato dai semi e l’ho tagliato a listarelle lunghe e sottili.
Passati i 50 minuti ho aggiunto pomodori e peperone, ho aggiustato di sale e pepe e ho lasciato cuocere ancora per 50 minuti. Verso fine cottura ho preparato il trito con le erbe aromatiche e lo spicchio d’aglio, l’ho versato sulla carne, ho dato una rimescolata e ho spento il fuoco.
La picula va servita subito, con polenta o con il pane.
Questa settimana mi sono dedicata a due prodotti IGP, il riso IGP del Delta del Po e l’asparago verde di Altedo IGP, per due ricette tipiche “alla parmigiana”.
Il riso è una pianta di palude, coltivata anticamente in oriente. L’introduzione in Italia pare avvenne per opera degli arabi, prima nel sud italia.
In un primo momento erano solo i pastori a piantare questa pianta nei terreni che attraversavano, per poi raccoglierne il frutto al loro ritorno.
In seguito fu chiaro come questa coltivazione fosse il primo passo per utilizzare i terreni acquitrinosi bisognosi di bonifica.
Così, intorno al 1400, il riso arrivò nell’estremo lembo est della Pianura Padana. Circa un secolo dopo, ad opera degli Este, se ne cominciò una produzione intensiva e organizzata, proprio per bonificare il territorio, prima che fosse destinato ad altre coltivazioni: quando si dice “due piccioni con una fava”!
In più l’isolamento del territorio evitava il formarsi di patologie e che avrebbero distrutto la pianta e quindi il riso prodotto divenne tanto da essere esportato.
Verso la fine del 700 alcuni patrizi veneziani iniziarono, nei territori del Delta del Po, con metodi sistematici agrari la coltura del riso nei territori appena bonificati, e la crescita continuò nell’800, sempre su più vasta scala finchè, nel 1825, il prezzo del riso superò quello del grano. Il crollo si ebbe solo a fine ‘800 con l’arrivo del riso asiatico sul mercato, che indusse un’inevitabile riduzione degli ettari destinati a coltivazione.
Il riso del Delta del Po, coltivato tra il comune di Rovigo, in Veneto, e il comune di Ferrara, in Emilia Romagna, è da poco diventato IGP. Si tratta di riso di qualità japonica, gruppo superfino delle varietà Carnaroli, Volano, Baldo a Arborio.
L’attribuzione dell’indicazione geografica tipica tutela un prodotto che ha caratteristiche proprie godibilissime: innanzitutto il terreno fortemente salmastro fornisce una sapidità molto piacevole e particolare al chicco. Inoltre le caratteristiche del terreno fanno sì che il prodotto sia abbondante e sano e il chicco risulti particolarmente resistente in cottura.
L’Asparago verde di Altedo IGP può essere prodotto solo nell’ambito di alcuni comuni della provincia di Bologna ed altri della provincia di Ferrara. A Ferrara, in particolare, troviamo le stesse zone del Delta del Po in cui si coltiva il riso e quindi l’abbinamento era inevitabile, ma invece di proporre il risotto agli asparagi ho voluto parlare di due ricette tipiche emiliane: il sontuoso risotto alla parmigiana, che è unn caposaldo della cucina italiana, quasi una base per milioni di altri risotti, e gli asparagi alla parmigiana, semplicissimi perché già buoni da soli, insaporiti ulteriormente da una grattugiata di Parmigiano Reggiano 24 mesi.
Le ricette: Risotto alla Parmigiana e Asparagi alla Parmigiana
per il risotto:
1 cipolla piccola
30 g di burro
circa 500 ml di brodo preparato con sedano, carota, cipolla, patata, olio e sale
8 cucchiai colmi di riso Delta del Po IGP, di varietà Carnaroli (ce ne vorrebbero 3 a persona + uno per la pentola)
4 cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato
Ho lavato gli asparagi e ho tolto la parte di gambo più legnosa, poi li ho messi a lessare in acqua non salata, finchè non erano morbidi. Li ho scolati e conditi con un pizzico di sale e un filo d’olio extravergine.
Nella stessa acqua, intiepidita, ho preparato il brodo, aggiungendo tutte le verdure lavate, la patata sbucciata, olio e sale.
Mentre il brodo raggiungeva l’ebollizione, ho tritato finemente la cipolla.
In una pentola dal fondo spesso ho messo il burro e la cipolla tritata, attendendo che quest’ultima sfrigolasse bene. Poi ho aggiunto il riso, tutto insieme, facendolo tostare a fuoco vivace e poi sfumando con la prima mestolata di brodo.
Ho aggiunto il brodo man mano, mescolando delicatamente, e facendolo assorbire, fino ad avvenuta cottura del chicco. Poi ho aggiunto il parmigiano grattugiato, mescolando accuratamente e successivamente spegnendo il fuoco e lasciando mantecare in pentola coperta per 5 minuti.
Mentre il riso mantecava, ho disposto sui piatti gli asparagi a raggiera, cospargendoli di parmigiano grattugiato. Infine ho impiattato il risotto con l’aiuto di un cerchio coppapasta, decorando con scaglie di parmigiano e una spolverata leggera leggera di pepe nero.
La ricetta che ho utilizzato è tratta da Il Grande Manuale della Cucina Italiana a cura di Stella Donati, un libro un po’ datato e che, nel mio caso, cade a pezzi. Prima era di mia mamma, ora ce l’ho io, e anche se non so se la ricetta sia filologicamente corretta, vi assicuro che questa versione è una meraviglia.
Per i fasò:
150 g di fagioli borlotti lessati
1 pezzettino di burro e 3 cucchiai d’olio (nella ricetta originale tutto burro)
30 g di lardo tagliato fine
3 foglie grosse di basilico
1 ciuffetto di prezzemolo
1 grosso spicchio d’aglio
1 carota
1 costa di sedano
½ cipolla piccola
2-3 pomodori pelati
Per prima cosa si preparano i pisarei: in una ciotola capiente ho mescolato insieme la farina e il pangrattato, aggiungendo un pizzico di sale e tanta acqua da formare un impasto lavorabile ed elastico. Ho impastato bene e ho messo a riposare nella pellicola per almeno mezz’ora.
Nel frattempo ho preparato le verdure, carota, sedano e cipolla, tritandole a cubettini sottili.
A parte ho preparato un trito con il lardo, il basilico e il prezzemolo e l’aglio e l’ho tenuto al fresco.
Passato il tempo di riposo della pasta ho ricavato dei serpentelli di pasta, lunghi e sottili come una grossa matita. Ogni serpentello va tagliato a pezzettini, sulla spianatoia ed ogni pezzettino va schiacciato con il pollice e poi fatto rotolare come per fare un piccolo gnocchetto.
La parola mistocchina sembra derivare dal verbo latino miscere, che significa mescolare e fa riferimento al gesto di mischiare insieme acqua e farina, girando con il cucchiaio fino ad ottenere un impasto lavorabile.
Delle mistocchine bolognesi si ha traccia fin dal Seicento, in numerosi bandi e pubblicazioni ufficiali conservate in archivio storico. Talvolta il commercio di queste focaccine venne addirittura proibito, per ragioni ignote, altre volte ne vengono regolamentati i prezzi, diversi dalla città alla campagna.
Le mistocchinaie erano munite di un paravento per proteggere il fuoco dal vento, e di un trespolo su cui era sospesa la piastra per la cottura. Erano vestite tutte di bianco, con un fazoletto attorno al capo e dei manicotti anch’essi bianchi.
Una delle piu’ note mistocchinaie aveva il suo laboratorio-negozio a Bologna sotto gli antichi portici di via Marsala all’angolo con via Mentana, dove vi era anche un affresco raffigurante la sua professione, ma già da molto tempo, affresco e mistocchinaia sono solo un ricordo nelle menti dei più anziani.
Carlo Goldoni ne L’impresario delle Smirne ce ne ha lasciato una fuggevole immagine in queste poche battute.
«Che vuol dir Mistocchina? Come quella giovane è bolognese, e che a Bologna chiamano mistocchine certe schiacciate fatte di farina di castagne, le hanno dato un soprannome, che conviene alla sua patria ed alla sua abilità.»
Le mistocchine sono immortalate dai versi di questa poesia, che trascrivo pari pari, se vi voleste cimentare con la comprensione del dialetto!! (C’è anche la traduzione in fondo!!)
una mistocchinaia con il tipico fazzoletto bianco in capo |
Le Mistochine
La donna delle mistochine è tutta bianca:
bianco il fazzoletto che porta in testa;
bianco il grembiuleche indossa;
bianche le calze a mezza gamba;
bianche le ciabatte nei piedi;
bianche finanche le ciglia e le sopracciglia.
Un filo di sole penetra da una fessura
fra le tendine della finestra e diventa esso pure
bianco nel pulviscolo sospeso a mezz’aria.
La massaia sta impastando la farina castagna
tanto fine da sollevarsi solo a muoversi.
Ne fa un pastone ben compatto
e ne distacca dei pezzetti tutti uguali, che
appoggia uno accanto all’altro sul tagliere.
Poi, col matterello piccolo, quello da polenta,
li fa sottili e rotondi, tutti allo stesso modo:
le mistochine sono già confezionate!
Le infarina da ambo i lati
perché non si attacchino alla piastra rovente
sulla quale le appoggia, tre-quattro per volta.
Nel rigirarle si alza un sbuffo di vapore
Ormai pare che sopravvivano soltanto nelle sagre di paese, nelle province di Bologna, Modena e Ferrara; nelle città, probabilmente, solo i più anziani le ricordano.
Ed è proprio agli emiliani più anziani che voglio dedicare questo post del ricordo. Sono gli anziani coloro che più soffrono a dover lasciare, anche momentaneamente, la propria casa e le proprie abitudini di una vita intera. Tin bota!!!
Le mistocchine altro non sono che focaccine appena dolci, fatte con farina di castagne, semi di anice e, volendo, buccia di limone. In alcune versioni sono proposte con l’aggiunta di uva passa nell’impasto.
Si accompagnano bene ai passiti e ai vini da meditazione. Io, per enfatizzare il sapore di anice, le ho accompagnate ad uva passa ammollata nella sambuca. E’ un dolce semplice dal sapore veramente antico.
Vanno servite calde, ed io le ho accompagnate all’uvetta che nel frattempo si era assorbita tutta la sambuca!!
Il Piemonte, da dove scrivo, non è terra sismica, e non riesco a capacitarmi di cosa significhi vivere in questo momento di precarietà, come si possa dormire la notte, come si possa fare ogni volta la conta dei danni.
L’Emilia nello stereotipo – e nella realtà – è una terra vitale, energica, propositiva e sapere che questo terremoto ha colpito una delle economie regionali più vivide e attive è una dura scossa per tutta l’Italia in questo tempo già di crisi. Ma proprio ora – fin da subito, mentre ancora le scosse si succedono, ed ogni volta ci si augura che sia l’ultima – è importante rilanciare l’economia e la vitalità di questa terra, della quale cibo e turismo sono settori molto significativi. Non si può stare immobili, bisogna ripartire da subito!
Sotto la proposta di Micol e Cecilia del blog Muffin e Dintorni, un gruppo di foodblogger, di cui anch’io faccio parte, ha deciso di dedicare un post, proprio oggi, dedicato ad un prodotto emiliano o a una ricetta di questa regione.
Eugenio Gollini |
Il Vignola |
Le scale elicoidali di Barozzi, nel palazzo di Vignola. |
La ricetta: Torta Barozzi
(circa 12 tortine monoporzione del diametro di 9 cm)
Ingredienti:
300g zucchero
200g arachidi tostate
100g mandorle tostate
100g cacao amaro in polvere
100g burro
6 cucchiaini di caffè macinato
4 uova
1 pizzico di sale
Ho macinato finemente nel mixer le arachidi, le mandorle, il caffè in polvere e lo zucchero. Ho aggiunto il cacao in polvere e mescolato bene fino ad ottenere una polvere omogenea.
Ho messo da parte gli albumi e aggiunto gradualmente i tuorli con il pizzico di sale alle polveri, mescolando bene ogni volta. Si formerà un impasto davvero terroso e denso, difficile da lavorare. Mi sono aiutata con le mani per renderlo omogeneo.
Ho montato a neve fermissima gli albumi; ne ho aggiunto un paio di cucchiaiate all’impasto per ammorbidirlo e poi man mano il resto degli albumi mescolando delicatamente dal basso verso l’alto.
Quando il composto era omogeneo l’ho suddiviso in pirottini da muffin, un paio di cucchiaiate per pirottino, ed infornato a 160° per circa 30 minuti.
Per la crema ho mescolato in parti uguali mascarpone e marmellata di ciliegia e ho appoggiato su ogni tortina una cucchiaiata di composto.
La ciliegia è inumidita e velocemente rotolata in zucchero semolato.
Pare che Guido Gozzano (1883-1916) compose questa poesia intitolata “Le Golose” proprio nel suo caffè preferito, lo storico caffè Baratti&Milano di Torino.
Torino, elegante e altezzosa, ha sempre fatto dei caffè, uno dei simboli della città e per il contest di BperBiscotto, Colazione da Zalando, incentrato sull’eleganza non potevo che lasciarmi ispirare dai caffè storici di Torino.
Ce n’è per tutti i gusti.
C’è Al Bicerin, fondato nel 1763, accanto alla chiesa della Consolata, dall’acquacedrataio e confettiere Giuseppe Dentis che nell’Ottocento, approfittando della ristrutturazione dell’edificio, trasformò la sua modesta bottega in locale e cioccolateria. Qui nacque per l’appunto il Bicerin, che significa bicchierino, la bevanda speciale a base di caffè, cioccolata fondente e crema di latte, dove la panna fresca avvolge caffè e cioccolata roventi e nell’impedire di scottarsi la lingua, permette di assaporare tutti e tre i sapori distintamente. L’interno del locale è rimasto come una volta, intimo e d’antan, in penombra, con pochi tavolini tondi e un’aria da antica drogheria: un’eleganza modesta e discreta.
Sotto i portici di via Po si affaccia il caffè Fiorio, nato nel 1780, da sempre il caffè dei politici e degli aristocratici, era detto il caffè dei codini e dei Machiavelli. Il suo frequentatore più celebre era Camillo Benso di Cavour, mentre Carlo Alberto, si informava ogni mattina su cosa si dicesse al Fiorio, proprio perché era una sorta di fucina dell’opinione pubblica. Sebbene dal di fuori mostri ben poco, all’interno i locali sono ancora improntati all’eleganza e allo sfarzo di un tempo. E se oggi il Fiorio è ambito per i gelati, già gustati un tempo da Nietzsche, un tempo, in un’epoca in cui l’informazione su carta stampata aveva dei ragionevoli limiti di diffusione, era il caffè dove venivano portati i giornali di tutta Europa e perciò è facile capire come il Fiorio avesse tra i suoi frequentatori colti politici, aristocratici e borghesi, e un’eleganza severa e conservatrice.
Lasciamo Fiorio per raggiungere piazza Castello. Sotto i portici, dal lato di via Po, c’è il Mulassano, aperto nel 1907, dopo che il suo fondatore ebbe trasferito la propria bottega da via Nizza. È un ambiente piccino, ma perfettamente proporzionato, particolarmente sfarzoso e ricco con i suoi soffitti a cassettoni, decorazioni in cuoio, oro e marmi, frequentato in passato dai membri della Casa Reale e dagli artisti del Teatro Regio. Non fatevi ingannare da chi dice che lo frequentava anche Garibaldi, morto invece nel 1882…probabilmente lo avrebbe fatto con piacere, però!! 😉
La particolarità di questo caffè è una fontanella in stile floreale, posta sopra il bancone, da cui viene servita l’acqua da accompagnare al caffè. Qui, per i fanatici della colazione salata, nacque il primo tramezzino! Proprio qui fu inventato il mini-panino a più strati che ancora oggi è il vanto del locale, con le più curiose farciture, dall’aragosta, alla bagna caoda, al tartufo: eleganza salata.
Al Baratti, oltre a far colazione, si può anche cenare, così come all’ultimo caffè che vorrei presentarvi.
Per la mia colazione ho scelto dei biscottini ripieni di uvetta, creati in onore di Garibaldi e amati da Cavour; poi gli immancabili biscotti di meliga, ovvero di farina di mais, da bagnare nel caffè; la torta di sole nocciole piemontesi, senza farina, in formato mignon, che di solito Al Bicerin viene servita con cioccolato caldo fuso; infine dei tramezzini che potrebbero essere quelli di Mulassano.
Garibaldini all’uvetta
(non metto le dosi, perché solitamente li preparo quando mi avanza della frolla da una torta)
un panettino di pasta frolla (la ricetta della frolla la trovate qui)
uva passa
grappa
marmellata di albicocche
Ho sciacquato l’uva passa in acqua tiepida, l’ho scolata e messa a mollo, in un bicchiere di grappa.
Ho steso la frolla sottile, l’ho spalmata di un sottile strato di marmellata di albicocca e su metà ho steso le uvette. Poi ho ricoperto la metà con l’uva passa della restante porzione di frolla. Ho schiacciato bene, spennellato di uovo e cosparso di granelli di zucchero di canna. Poi ho tagliato i biscotti a rettangolini, li ho distanzati e messi in forno a 180° per 10 minuti circa, fino a doratura.
Biscotti di meliga
125 g di farina bianca
125 g di farina di mais fioretto
150 g di burro
2 uova
85 g di zucchero
Ho amalgamato il burro morbido con lo zuchero fino a formare una crema.
Ho poi aggiunto le farine mischiate insieme, poi le uova intere, mescolando il tutto fino ad avere un impasto consistente. Ho fatto riposare in frigo per mezz’ora. Ho deposto delle cucchiaiate di impasto sulla teglia coperta di carta forno e infornato per 15 minuti a 180°.
Tortine di nocciole
(per 8 tortine)
130 g di nocciole tritate
65 g zucchero
2 uova
1 cucchiaino raso di lievito in polvere
Ho montato i tuorli con lo zucchero finchè non erano chiari, poi ho unito le nocciole tritate finissime e il lievito.
In un altro recipiente ho montato gli albumi e neve. Ne ho aggiunto un cucchiaio abbondante all’impasto di farina di nocciole mescolando bene per ammorbidirlo, poi ho aggiunto il restante albume montato, mecolando delicatamente dall’alto in basso.
Ho versato il composto in 8 pirottini grandi da muffin ed infornato a 170° per circa 20 minuti.
Tramezzini quasi di Mulassano
Farciti con salmone, asparagi e yogurt intero.
Ma partiamo dalle origini: lo dice chiaramente la radice al- del nome, l’Alfajor non può che avere origini arabe – alfajor deriva da al-hasù, che significa ripieno.
Di cosa fossero ripieni i primi alfajores non si può dire con certezza, molto probabilmente una crema o una marmellata. Durante la dominazione araba della penisola iberica, gli alfajores furono importati in Spagna e ancora oggi, in Andalusia, si utilizza questo tipo di farcitura. Gli Alfajores andalusi sono tipici delle festività natalizie e vengono arricchiti con noci, mandorle e miele; in alcuni casi sono ripieni di pasta di miele.
Pare che il primo dulce de leche venne prodotto accidentalmente quando nel XIX secolo, una mulatta a servizio presso il General Rosas, militare e politico argentino, dimenticò sul fuoco la lechada, latte caldo con zucchero per aromatizzare il matè; passato il punto di cottura il latte con lo zucchero cambiò colore e consistenza, diventando cremoso.
Il dulce de leche, dalla consistenza densa e cremosa, venne subito ritenuto adattissimo per farcire gli alfajores che, proprio con il dulce de leche e una copertura di cioccolato fondente conquistarono tutto il Sud America.
Pare che soltanto in Argentina ne vengano consumati 6 milioni al giorno…un cifra straordinaria. Gli alfajores rappresentano anche il classico souvenir da portare dai luoghi di villeggiatura. I più celebri sono infatti di marca Havanna e Balcarce, nati negli anni ’50 a Mar de la Plata, nota località marittima.
Questi biscottini golosissimi mi sembravano abbinarsi bene con il tè nero del Darjeeling di Coccole.
Il termine Darjeeling deriva da dorjie, fulmine, e ling, luogo; significa perciò terra dei fulmini. Il suo clima la rese famosa al tempo dell’impero Britannico in India, quando gli occidentali scappavano dal clima asfissiante delle pianure per rifugiarsi in montagna.
Il Darjeeling è noto principalmente oggi per due cose, il suo straordinario tè nero, detto lo champagne dei tè, e la ferrovia himalayana del Darjeeling, patrimonio mondiale UNESCO.
Con un’infusione corretta si ottiene un tè chiaro, dal gusto dolce e delicatamente tannico.
Questo tè si è sposato ottimamente con i morbidi alfajores, perché tende a temperare l’eccessiva dolcezza del dulche de leche: abbinamento bilanciatissimo e sicuramente da ripetere!
La ricetta: Alfajores de Maicena con dulce de leche
Ingredienti (per circa 20 alfajores):
50 g di zucchero
65 g di burro morbido
37 g di tuorlo (circa 2)
90 g di maizena
60 g di farina 00
1/2 cucchiaino di lievito per dolci
1 punta di cucchiaino di bicarbonato
1 pizzico di sale
Per il dulce de leche trovi la ricetta qui.
Ho montato con la frusta burro morbido e zucchero fino ad ottenere un composto molto omogeneo e spumoso.
Ho aggiunto poco per volta i tuorli con un pizzico di sale.
Ho setacciato insieme farina lievito e bicarbonato e li ho amalgamati delicatamente al composto di burro e tuorlo.
Ottenuta una palla molto morbida, l’ho avvolta in pellicola e l’ho messa a raffreddare in frigo per circa 1 ora.
Ripreso l’impasto l’ho steso in piccole quantità in una sfoglia spessa 4-5 mm. Ho ricavato dei tondi con un bicchiere del diametro di 4 cm e nella metà di questi tondi ho ricavato un buco centrale con un tappo. Ho deposto i biscotti su una teglia coperta di carta forno e infornato a 180° per 10-12 minuti, eventualmente abbassando leggermente se il vostro forno, come il mio, tende ad aumentare di temperatura, senza far prendere colore e procedendo così fino ad esaurimento dei biscotti.
Li ho lasciati raffreddare e poi accoppiati a due a due mettendo al centro del biscotto senza buco un cucchiaino di dulce de leche e coprendolo con un biscotto bucato.
Volendo si possono coprire di un sottilissimo strato di cioccolato fondente fuso, ma io li ho mangiati così!
La tipica teiera marocchina |
La ricetta: Kaab El Ghzl (Corna di gazzella)
(ingredienti per 30 pezzi)
Preparazione :
Ho mescolato la farina con il burro, l’essenza di fiori d’arancio e un po’ d’acqua (potete anche usare l’albume) fino a formare una pasta morbida e lavorabile. Ho lavorato la pasta per 5 minuti e poi l’ho avvolta nella pellicola e fatta riposare per mezz’ora.
Nel frattempo ho preparato il ripieno. Ho tritato finemente le mandorle, le ho mischiate con lo zucchero a velo e il burro sciolto. Ho aggiunto gli altri ingredienti e per ultima un po’ d’acqua per formare un impasto compatto.
Ho steso la pasta sulla spianatoia, fino a renderla sottilissima. Con un coppapasta ho ricavato dei cerchi di 8 cm di diametro. Su ogni cerchio ho deposto un salsicciotto di ripieno. Le corna di gazzella si ricavano piegando la pasta sul ripieno, come un raviolo, e poi arcuando e pizzicando il dolcetto.
I dolcetti vanno fatti cuocere in forno caldo a 160° per circa 15 minuti.
La ricetta: Ghouriba alla cannella
80 g di farina di semola
45 g di farina 00
50 g di olio di semi
35 g di mandorle tritate
65 g di zucchero a velo
½ uovo sbattuto con un pizzico di sale
la buccia grattugiata di mezzo limone
1 cucchiaino di cannella in polvere
1 cucchiaino di lievito per dolci
zucchero a velo per rifinire
Preparazione
Ho lavorato insieme le due farine e l’olio fino a farli sabbiare. Ho aggiunto poi lo zucchero a velo, le mandorle tritate, il lievito, la buccia di limone e la cannella. Ho aggiunto il mezzo uovo sbattuto, fino a formare una pasta lavorabile. Ho lasciato riposare per un quarto d’ora.
Ho poi ricavato delle palline come piccole noci (che cresceranno in cottura), le ho passate nello zucchero a velo e le ho deposte distanziate sulla carta da forno.
Ho informato a 160° per 13 minuti circa.
Cerco di raccogliere in un elenco le regole del gioco:
– per partecipare bisognerà postare da oggi 22 aprile fino al 17 giugno 24 giugno (fino alle 23,59) una ricetta che sia ispirata a un personaggio storico, più o meno noto. Ad esempio avete la piena libertà di ispirarvi al sindaco di un paesello sperduto o a un cuoco celebre del passato o a un re, papa, generale o condottiero, se ne conoscete la storia e la raccontate, spiegando perché personaggio e ricetta sono in collegamento. L’importante è che il personaggio sia realmente esistito e che abbia un legame con la ricetta, vero o di ispirazione. Con “legame vero o di ispirazione” intendo che o il personaggio mangiava davvero quel dato cibo o per qualche ragione pensate che la ricetta avrebbe potuto piacergli.
– potete partecipare con una sola ricetta, di qualunque genere.
– dovete inserire nel post e in angolino della vostra pagina il banner del contest
– la ricetta deve essere corredata di fotografia del piatto finito, cucinato da voi.
– per partecipare bisognerà lasciare un commento a questo post con il link del vostro post ed io man mano aggiornerò l’elenco delle ricette partecipanti.
– se non avete un blog potete inviare una mail con storia, ricetta e foto del piatto finito all’indirizzo ricettedicultura@gmail.com ed io la pubblicherò in un post sul mio blog.
– se avete un account facebook potete pubblicare storia, ricetta e foto in una nota e poi segnalarmi il link.
– se volete diventare followers del mio blog fatelo, ma non è obbligatorio! Se volete diventare fans della mia pagina facebook potete cliccare “mi piace” qui: https://www.facebook.com/RicetteDiCultura , ma non è obbligatorio.
– le ricette e i post partecipanti verranno giudicati insindacabilmente 😉 dalla sottoscritta sulla base di:
# aderenza alla richiesta del contest, personaggio storico-ricetta
# originalità dell’abbinamento e della ricetta
# presentazione (non occorre essere dei fotografi, ma la foto deve essere leggibile e un po’ grande perché poi vorrei raccogliere il tutto in un pdf)
Verranno premiate 2 persone
1. la ricetta a mio giudizio più rigorosamente rispondente alla richiesta del contest con il libro:
2. il post a mio giudizio più originale, simpatico e creativo, (quindi arrampicatevi pure sugli specchi), con il libro:
Grazie a tutti voi che commenterete!!! 😀
Visto che è cambiato il termine ultimo, aggiungerò anche un terzo premio, che però devo ancora scegliere e su cui avrete presto aggiornamenti!!
FUORI CONCORSO:
Arrosto di manzo alla senape inglese di Giuseppe del blog Il Riccio e la Volpe, con la partecipazione di Immanuel Kant.
A Napule regnava Ferdinando
Ca passava e’ jurnate zompettiando;
Mentr’ invece a’ mugliera, ‘Onna Teresa,
Steva sempe arraggiata. A’ faccia appesa
O’ musso luongo, nun redeva maje,
Comm’avess passate tanta guaje.
Nù bellu juorno Amelia, a’ cammeriera
Le dicette: “Maestà, chest’è a’ Pastiera.
Piace e’ femmene, all’uommene e e’creature:
Uova, ricotta, grano, e acqua re ciure,
‘Mpastata insieme o’ zucchero e a’ farina
A può purtà nnanz o’Rre: e pur’ a Rigina”.
Maria Teresa facett a’ faccia brutta:
Mastecanno, riceva: “E’ o’Paraviso!”
E le scappava pure o’ pizz’a riso.
Allora o’ Rre dicette: “E che marina!
Pe fa ridere a tte, ce vò a Pastiera?
Moglie mia, vien’accà, damme n’abbraccio!
Chistu dolce te piace? E mò c’o saccio
Ordino al cuoco che, a partir d’adesso,
Stà Pastiera la faccia un pò più spesso.
Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;
pe te fà ridere adda passà n’at’ anno!”