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L’Oro di Napoli e le pizzelle ogg’ a otto Le pizzelle fritte, street food napoletano

Questa più che una ricetta è un pretesto per raccontare una storia: vi parlo dello street food napoletano per antonomasia, le pizzelle fritte. Si tratta di una frittura fatta con pasta lievitata, farcita all’interno con ricotta e salame o con i famosi ciccioli, gocce di grasso di maiale fritto.

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Pìcula ad caval per l’Emilia Mon Amour, V parte

Ancora un appuntamento con l’Emilia Mon Amour, lanciato da Cecilia e Micol di Muffin e Dintorni, e ancora una ricetta di cucina emiliana ricca di storia e di tradizione. Per chi non sapesse ancora dell’iniziativa un esercito di foodblogger si è mobilitato nella raccolta di ricette emiliane o con prodotti emiliani, per la creazione di un e-book il cui ricavato sarà devoluto ad un’azienda del territorio emiliano per risollevarsi subito, dopo il terremoto.
Questo piatto, dal nome oscuro per chi non conosce il dialetto emiliano, altro non è che “piccola”, cioè tritata, di cavallo.
E’ una ricetta tipica piacentina e pare che fosse servita come pranzo ai cavallanti, ovvero ai corrieri a cavallo ottocenteschi, come dire “portarsi il lavoro a casa”… 😉
Premetto di non essere un amante della carne di cavallo, per i miei gusti un po’ troppo dolciastra, e invece questo piatto mi ha conquistata! Forse la lunga cottura fa sì che i sapori troppo stridenti vadano via e resti soltanto un piatto perfettamente bilanciato. Il segreto è far sì che la carne non si asciughi in cottura, utilizzando una pentola con il fondo spesso e di dimensioni proporzionate alla quantità di carne. Questo piatto va servito subito, appena è cotto, altrimenti diventa stopposo; non è possibile prepararlo in anticipo e poi riscaldarlo.
La pìcula ad caval si serve tradizionalmente facendo una sorta di buco centrale nella polenta calda appena deposta nel piatto e colmando questo buco con la pìcula stessa.
Visto che io l’ho cucinata in un giorno molto caldo ho rinunciato alla polenta, preparandone pochina solo per la presentazione. Ci siamo mangiati, invece, la pìcula facendo una lunghissima scarpetta con il pane e alla fine ne avremmo voluto ancora.
L’appuntamento del mercoledì con l’Emilia Mon Amour si ferma qui, ma io mi sono riproposta di provare ancora tante altre ricette di questa splendida terra… 
Non spegniamo i riflettori sull’Emilia, anzi li teniamo ben puntati, non solo – come spesso accade – durante l’emergenza, ma finchè la crisi non si sarà risolta!
Teniam bota!!

La ricetta: Pìcula ad caval

600 g circa di carne di cavallo tritata
1 cipolla tritata fine
50 g di lardo a fettine tritato finemente
250 ml di vino bianco secco
4-5 pomodori pelati
1 peperone
sale
pepe
1 rametto di rosmarino
5 foglie di salvia
un ciuffo di prezzemolo
5 foglie grandi di basilico
1 spicchio d’aglio

In un tegame abbastanza piccolo e dal fondo spesso ho messo la cipolla con il lardo tagliuzzato fine e ho fatto appassire per qualche minuto. Poi ho aggiunto la carne e l’ho fatta rosolare mescolandola bene. Dopo averla ben rigirata da ogni parte ho aggiunto tutto insieme il vino a fatto stufare sempre a fuoco bassissimo per circa 50 minuti. E’ importante che la pentola non sia troppo grande, così il vino non evaporerà troppo in fretta. Nel frattempo ho immerso i pomodori in acqua bollente e li ho pelati e poi tagliati a dadini minuti. Ho lavato il peperone, l’ho liberato dai semi e l’ho tagliato a listarelle lunghe e sottili.
Passati i 50 minuti ho aggiunto pomodori e peperone, ho aggiustato di sale e pepe e ho lasciato cuocere ancora per 50 minuti. Verso fine cottura ho preparato il trito con le erbe aromatiche e lo spicchio d’aglio, l’ho versato sulla carne, ho dato una rimescolata e ho spento il fuoco.
La picula va servita subito, con polenta o con il pane.

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Mercoledi Social: Emilia Mon Amour, IV parte

L’Emilia Mon Amour non è stata una semplice raccolta di ricette, ma piuttosto la nascita di una storia d’amore con la cucina emiliana. Ci sono talmente tante ricette, preparazioni e prodotti particolari e succulenti che non approfondire questa la conoscenza di questa cucina sarebbe un vero e proprio sacrilegio. Per questa ragione mi riprometto, magari quando il caldo comincerà ad abbandonarci, a provare ancora altre ricette, anche quelle già sperimentate dalle mie compagne di avventura, anche il mitico borlengo, di Anna e di Sonia!!

Questa settimana mi sono dedicata a due prodotti IGP, il riso IGP del Delta del Po e l’asparago verde di Altedo IGP, per due ricette tipiche “alla parmigiana”.

Il riso è una pianta di palude, coltivata anticamente in oriente. L’introduzione in Italia pare avvenne per opera degli arabi, prima nel sud italia.
In un primo momento erano solo i pastori a piantare questa pianta nei terreni che attraversavano, per poi raccoglierne il frutto al loro ritorno.
In seguito fu chiaro come questa coltivazione fosse il primo passo per utilizzare i terreni acquitrinosi bisognosi di bonifica.
Così, intorno al 1400, il riso arrivò nell’estremo lembo est della Pianura Padana. Circa un secolo dopo, ad opera degli Este, se ne cominciò una produzione intensiva e organizzata, proprio per bonificare il territorio, prima che fosse destinato ad altre coltivazioni: quando si dice “due piccioni con una fava”!
In più l’isolamento del territorio evitava il formarsi di patologie e che avrebbero distrutto la pianta e quindi il riso prodotto divenne tanto da essere esportato.
Verso la fine del 700 alcuni patrizi veneziani iniziarono, nei territori del Delta del Po, con metodi sistematici agrari la coltura del riso nei territori appena bonificati, e la crescita continuò nell’800, sempre su più vasta scala finchè, nel 1825, il prezzo del riso superò quello del grano. Il crollo si ebbe solo a fine ‘800 con l’arrivo del riso asiatico sul mercato, che indusse un’inevitabile riduzione degli ettari destinati a coltivazione.

Il riso del Delta del Po, coltivato tra il comune di Rovigo, in Veneto, e il comune di Ferrara, in Emilia Romagna, è da poco diventato IGP. Si tratta di riso di  qualità japonica, gruppo superfino delle varietà Carnaroli, Volano, Baldo a Arborio.
L’attribuzione dell’indicazione geografica tipica tutela un prodotto che ha caratteristiche proprie godibilissime: innanzitutto il terreno fortemente salmastro fornisce una sapidità molto piacevole e particolare al chicco. Inoltre le caratteristiche del terreno fanno sì che il prodotto sia abbondante e sano e il chicco risulti particolarmente resistente in cottura.

L’Asparago verde di Altedo IGP può essere prodotto solo nell’ambito di alcuni comuni della provincia di Bologna ed altri della provincia di Ferrara. A Ferrara, in particolare, troviamo le stesse zone del Delta del Po in cui si coltiva il riso e quindi l’abbinamento era inevitabile, ma invece di proporre il risotto agli asparagi ho voluto parlare di due ricette tipiche emiliane: il sontuoso risotto alla parmigiana, che è unn caposaldo della cucina italiana, quasi una base per milioni di altri risotti, e gli asparagi alla parmigiana, semplicissimi perché già buoni da soli, insaporiti ulteriormente da una grattugiata di Parmigiano Reggiano 24 mesi.

Le ricette: Risotto alla Parmigiana e Asparagi alla Parmigiana

(dosi per 2 persone)

per il risotto:
1 cipolla piccola
30 g di burro
circa 500 ml di brodo preparato con sedano, carota, cipolla, patata, olio e sale
8 cucchiai colmi di riso Delta del Po IGP, di varietà Carnaroli (ce ne vorrebbero 3 a persona + uno per la pentola)
4 cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato


per gli asparagi:
350 g di asparagi verdi IGP di Altedo
2 cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato
olio
sale

Ho lavato gli asparagi e ho tolto la parte di gambo più legnosa, poi li ho messi a lessare in acqua non salata, finchè non erano morbidi. Li ho scolati e conditi con un pizzico di sale e un filo d’olio extravergine.
Nella stessa acqua, intiepidita, ho preparato il brodo, aggiungendo tutte le verdure lavate, la patata sbucciata, olio e sale.
Mentre il brodo raggiungeva l’ebollizione, ho tritato finemente la cipolla.
In una pentola dal fondo spesso ho messo il burro e la cipolla tritata, attendendo che quest’ultima sfrigolasse bene. Poi ho aggiunto il riso, tutto insieme, facendolo tostare a fuoco vivace e poi sfumando con la prima mestolata di brodo.
Ho aggiunto il brodo man mano, mescolando delicatamente, e facendolo assorbire, fino ad avvenuta cottura del chicco. Poi ho aggiunto il parmigiano grattugiato, mescolando accuratamente e successivamente spegnendo il fuoco e lasciando mantecare in pentola coperta per 5 minuti.
Mentre il riso mantecava, ho disposto sui piatti gli asparagi a raggiera, cospargendoli di parmigiano grattugiato. Infine ho impiattato il risotto con l’aiuto di un cerchio coppapasta, decorando con scaglie di parmigiano e una spolverata leggera leggera di pepe nero.

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Pisarei e fasò per Emilia Mon Amour – parte III

Quando cercavo una ricetta per il mercoledì social di questa settimana ho scorso l’elenco delle ricette emiliane; servivano primi e secondi piatti ed io, tutto sommato sulle minestre vado forte.
Leggo pisarei e fasò e penso: «mmm… i piselli non mi piacciono molto…» poi però cerco questa ricetta per vederne i dettagli e scopro che i pisarei con i piselli non c’entrano per nulla!! 
La parola pisarei deriva da pigiare, in quanto i pezzetti di pasta si schiacciano sulla spianatoia, un incrocio tra tra orecchiette, cavatelli e gnocchetti sardi, con la particolarità di usare il pangrattato insieme alla farina per l’impasto!
E quindi, subitaneamente, ho deciso: che pisarei e fasò sia!!!
Non è esattamente una ricetta estiva, perché si usano i borlotti e un soffritto di lardo o pancetta, ma la soddisfazione per il palato è davvero superlativa. 
E’ una di quelle minestre quasi asciutte che adoro, che sanno di vecchia cascina, di campagna, di luce di candele e di lavoro…perché fagioli e pisarei mica si tirano su in un attimo. 
Che siano di auspicio a chi subito si rimette in gioco, ai tanti che stanno lavorando sodo per tornare alla normalità!!
E anche con questa ricetta, originaria della zona di Piacenza, lo dico e lo ribadisco: Forza Emilia!!!

La ricetta che ho utilizzato è tratta da Il Grande Manuale della Cucina Italiana a cura di Stella Donati, un libro un po’ datato e che, nel mio caso, cade a pezzi. Prima era di mia mamma, ora ce l’ho io, e anche se non so se la ricetta sia filologicamente corretta, vi assicuro che questa versione è una meraviglia.

La ricetta: Pisarei e fasò
(per 2 persone)
Per i pisarei:
150 g di farina
50 g di pangrattato
acqua

Per i fasò:
150 g di fagioli borlotti lessati
1 pezzettino di burro e 3 cucchiai d’olio (nella ricetta originale tutto burro)
30 g di lardo tagliato fine
3 foglie grosse di basilico
1 ciuffetto di prezzemolo
1 grosso spicchio d’aglio
1 carota
1 costa di sedano
½ cipolla piccola
2-3 pomodori pelati

Per prima cosa si preparano i pisarei: in una ciotola capiente ho mescolato insieme la farina e il pangrattato, aggiungendo un pizzico di sale e tanta acqua da formare un impasto lavorabile ed elastico. Ho impastato bene e ho messo a riposare nella pellicola per almeno mezz’ora.
Nel frattempo ho preparato le verdure, carota, sedano e cipolla,  tritandole a cubettini sottili.
A parte ho preparato un trito con il lardo, il basilico e il prezzemolo e l’aglio e l’ho tenuto al fresco.
Passato il tempo di riposo della pasta ho ricavato dei serpentelli di pasta, lunghi e sottili come una grossa matita. Ogni serpentello va tagliato a pezzettini, sulla spianatoia ed ogni pezzettino va schiacciato con il pollice e poi fatto rotolare come per fare un piccolo gnocchetto.

Eccoli:

Ho continuato così  fino ad esaurire tutta la pasta, poi ho cosparso di farina e ho cominciato a preparare il sugo di fagioli.
In una casseruola con il fondo spesso ho fatto sciogliere il burro e l’olio e vi ho versato il trito di lardo, facendolo rosolare per qualche istante. Poi ho aggiunto le verdure. Ho lasciato cuocere per una decina di minuti, badando che non si attaccasse nulla. Poi ho aggiunto i fagioli. Ho insaporito anche loro per qualche minuti, rigirando spesso ed infine ho aggiunto i pomodori pelati schiacciati con la forchetta. Ho lasciato cuocere, aggiungendo qualche mestolo di brodo vegetale che avevo già pronto per puro caso, ma in mancanza va benissimo anche acqua calda.
Mentre il sugo cuoceva ho messo a bollire l’acqua in una pentola capiente, ho aggiustato di sale sugo e acqua e poi ho versato i pisarei, mescolando con un mestolo per fa sì che non si attaccassero gli uni agli altri. Quando vengono a galla sono cotti. Li ho tirati su con un mestolo forato e deposti in una zuppiera e poi conditi con il sugo di fagioli.
E qui sotto cosparsi con una bella spolverata di Parmigiano!!
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Le Mistocchine per Emilia Mon Amour parte II

Per il mercoledì social di Muffin e Dintorni, anche questa settimana dedicato all’Emilia e agli Emiliani, come la scorsa settimana, avevo il desiderio di proporre una ricetta insolita e poco conosciuta.
Ho vagato alla ricerca di quelle ricette che non sono sulla bocca di tutti ed infine ho scelto le mistocchine o mistochine, con una sola c, che dir si voglia.
Si tratta di un dolce povero, della tradizione popolare, fatto di farina di castagne e poco altro, che in un tempo in cui c’era tanta povertà, rappresentava una vera gioia per i bimbi. Al giorno d’oggi tanto entusiasmo per queste semplici focaccine può far sorridere, ma un tempo i bambini si accalcavano attorno alle mistocchinaie ambulanti che vendevano sia le caldarroste sia le mistocchine, chiedendo se per caso qualcuna di queste ultime si fosse rotta, per farsela regalare.

La parola mistocchina sembra derivare dal verbo latino miscere, che significa mescolare e fa riferimento al gesto di mischiare insieme acqua e farina, girando con il cucchiaio fino ad ottenere un impasto lavorabile.
Delle mistocchine bolognesi si ha traccia fin dal Seicento, in numerosi bandi e pubblicazioni ufficiali conservate in archivio storico. Talvolta il commercio di queste focaccine venne addirittura proibito, per ragioni ignote, altre volte ne vengono regolamentati i prezzi, diversi dalla città alla campagna.
Le mistocchinaie erano munite di un paravento per proteggere il fuoco dal vento, e di un trespolo su cui era sospesa la piastra per la cottura. Erano vestite tutte di bianco, con un fazoletto attorno al capo e dei manicotti anch’essi bianchi.
Una delle piu’ note mistocchinaie aveva il suo laboratorio-negozio a Bologna sotto gli antichi portici di via Marsala all’angolo con via Mentana, dove vi era anche un affresco raffigurante la sua professione, ma già da molto tempo, affresco e mistocchinaia sono solo un ricordo nelle menti dei più anziani.

Carlo Goldoni ne L’impresario delle Smirne ce ne ha lasciato una fuggevole immagine in queste poche battute.
«Che vuol dir Mistocchina? Come quella giovane è bolognese, e che a Bologna chiamano mistocchine certe schiacciate fatte di farina di castagne, le hanno dato un soprannome, che conviene alla sua patria ed alla sua abilità.»

Le mistocchine sono immortalate dai versi di questa poesia, che trascrivo pari pari, se vi voleste cimentare con la comprensione del dialetto!! (C’è anche la traduzione in fondo!!)

una mistocchinaia con il tipico fazzoletto bianco in capo
Il Mistuchin

La mistuchinèra l’è tôta biènca:
biènch al fazzulèt ch’la pòrta in cò;
biènch al grimbialò-n ch’l’agh ha adòss;
biènch i calzzêt a mèza gamba;
biènchi il patèl inti pia;
biènchi parssê-n il zzid e i sóvrazzêli.
Un spirai ad ssól al filtra da ‘na sfèssa
fra i tandê-n dla fnèstra e al dvénta ènca lô
biènch par al spulvrazzê-n suspés a mèz’aria.
La zdóra l’è dria impastèr la farina castagna
ch’l’è tènt fina da ssulivèrla ssól a muvrass.
La fa un pastò-n bel ssòd,
e l’in staca di baluchê-n tôt prècis
ch’la pògia, ô.n dria ‘ch’l ètar, ssôl tuliri.
Pù, cul sgnadur pêcul, quèl da pulénta,
la i tira ssutil e tónd tôt intna manira:
il mistuchin igli è bèla chè fati!
L’ali infarina da tôti dó il band,
parchè in’s ataca brisa ala piastra ruvénta
induv ch’ali pògia, tré o quatar par vòlta.
Maninma-n ch’ali prêla, as liva un sbôf’d fôm ch’al spargôia un udór da fèr gnir mêl vôi.
Agh vòl puch, trê-quatar minôt piô ò mè.n,
parchè ch’il môcia al ssu bèl culór caramèla.
Al mucèt ssòt’al tvaiòl al crèss ala svèlta.
Tèndri, musin, prufumèdi, igli è prónti.
Igli è una luvisia.

Le Mistochine

La donna delle mistochine è tutta bianca:
bianco il fazzoletto che porta in testa;
bianco il grembiuleche indossa;
bianche le calze a mezza gamba;
bianche le ciabatte nei piedi;
bianche finanche le ciglia e le sopracciglia.
Un filo di sole penetra da una fessura
fra le tendine della finestra e diventa esso pure
bianco nel pulviscolo sospeso a mezz’aria.
La massaia sta impastando la farina castagna
tanto fine da sollevarsi solo a muoversi.
Ne fa un pastone ben compatto
e ne distacca dei pezzetti tutti uguali, che
appoggia uno accanto all’altro sul tagliere.
Poi, col matterello piccolo, quello da polenta,
li fa sottili e rotondi, tutti allo stesso modo:
le mistochine sono già confezionate!
Le infarina da ambo i lati
perché non si attacchino alla piastra rovente
sulla quale le appoggia, tre-quattro per volta.
Nel rigirarle si alza un sbuffo di vapore

che si disperde con un profumo che fa voglia.
Occorre poco, più o meno tre-quattro minuti,
perchè assumano il loro bel color caramella.
Il cumulo coperto dal tovagliolo cresce presto.
Tenere, mucine, odorose, sono pronte.
Sono una ghiottoneria.

Ormai pare che sopravvivano soltanto nelle sagre di paese, nelle province di Bologna, Modena e Ferrara; nelle città, probabilmente, solo i più anziani le ricordano.
Ed è proprio agli emiliani più anziani che voglio dedicare questo post del ricordo. Sono gli anziani coloro che più soffrono a dover lasciare, anche momentaneamente, la propria casa e le proprie abitudini di una vita intera. Tin bota!!!

Le mistocchine altro non sono che focaccine appena dolci, fatte con farina di castagne, semi di anice e, volendo, buccia di limone. In alcune versioni sono proposte con l’aggiunta di uva passa nell’impasto.
Si accompagnano bene ai passiti e ai vini da meditazione. Io, per enfatizzare il sapore di anice, le ho accompagnate ad uva passa ammollata nella sambuca. E’ un dolce semplice dal sapore veramente antico.

La ricetta: Le Mistocchine
(dosi approssimative perchè sono andata ad occhio)
1 tazza di farina di castagne
1 cucchiaio di semini di anice
buccia grattugiata di meno di mezzo limone
zucchero a velo
uva passa
liquore alla sambuca
Ho messo ad ammollare l’uva passa nella sambuca.
Ho fatto bollire un bricchetto d’acqua con un cucchiaio di semini di anice.
Ho poi filtrato e versato l’acqua calda sulla farina, poco per volta, impastando, fino ad ottenere un composto lavorabile e non troppo molle. Ho incorporato la buccia di limone.
Ho ricavato delle palline di pasta come grosse noci, le ho schiacciate fino allo spessore di mezzo cm e le ho messe a cuocere su una padellina antiaderente arroventata, nel mio caso era quella delle crepes.
Dopo pochi minuti la mistochina si può girare e cuocere dall’altro lato. 

Vanno servite calde, ed io le ho accompagnate all’uvetta che nel frattempo si era assorbita tutta la sambuca!!

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Il mercoledì social: Emilia Mon Amour, una Torta Barozzi per gli Emiliani

Quello che sta succedendo in Emilia mi lascia ogni giorno di sasso. Ogni mattina “sfoglio” Twitter per sapere le novità e leggo con attenzione i dati di INGV, con la magnitudo e l’epicentro delle ultime scosse e mi dico: <<Mammamia, un’altra…e un’altra… e un’altra ancora.>>

Il Piemonte, da dove scrivo, non è terra sismica, e non riesco a capacitarmi di cosa significhi vivere in questo momento di precarietà, come si possa dormire la notte, come si possa fare ogni volta la conta dei danni.
L’Emilia nello stereotipo – e nella realtà – è una terra vitale, energica, propositiva e sapere che questo terremoto ha colpito una delle economie regionali più vivide e attive è una dura scossa per tutta l’Italia in questo tempo già di crisi. Ma proprio ora – fin da subito, mentre ancora le scosse si succedono, ed ogni volta ci si augura che sia l’ultima – è importante rilanciare l’economia e la vitalità di questa terra, della quale cibo e turismo sono settori molto significativi. Non si può stare immobili, bisogna ripartire da subito!

Sotto la proposta di Micol e Cecilia del blog Muffin e Dintorni, un gruppo di foodblogger, di cui anch’io faccio parte, ha deciso di dedicare un post, proprio oggi, dedicato ad un prodotto emiliano o a una ricetta di questa regione.

Parlare di cibo ci riesce bene e, anche se non siamo lì, questo è un modo per far sentire al popolo emiliano che li cingiamo di un abbraccio affettuoso e che seguiamo con partecipazione il loro dolore, ma anche che non sarà questa tragedia a spezzare questa regione.
Questo terremoto è piuttosto un triste pretesto per ripartire con più vigore ed energia e fare ancora meglio.

Eugenio Gollini
Io ho scelto di parlarvi di un dolce che è nato in Emilia, precisamente a Vignola, per iniziativa di un pasticcere, Eugenio Gollini, fondatore nel 1887 del caffè pasticceria Gollini.
Questo elegante caffè venne fondato sotto i portici di un antico palazzo, con un arredamento elegante dall’aria retrò e un’atmosfera intima e familiare.
Eugenio Gollini, da buon emiliano, amava sporcarsi le mani, entrare in laboratorio e sperimentare personalmente ricette che perfezionava, giorno dopo giorno, dopo aver sentito i pareri dei suoi clienti. Così nacque anche questa torta, prima detta Torta Nera, poi Pasta Barozzi, ed infine Torta Barozzi, nel 1907, quattrocentenario della nascita del famoso architetto vignolese Jacopo Barozzi. 
Il Vignola
Jacopo Barozzi da Vignola, conosciuto come Il Vignola, fu il più importante architetto del Manierismo, il periodo che segue il Rinascimento.
Nato a Vignola nel 1507, fu attivo per un periodo anche come pittore, studiando le architetture esistenti e disegnandole, diventando un esperto della prospettiva ed un importantissimo trattatista. Applicò la prospettiva in architetture di grande respiro e divenne anche architetto di paesaggio e di giardini, sfruttando una quinta naturale fino a farla diventare cornice per le sue architetture; molto attivo a Roma e nel Lazio, successe a Michelangelo nella direzione dei lavori di San Pietro in Vaticano. Lo si ricorda come architetto della famiglia Farnese, da Villa Giulia al Palazzo di Caprarola, all’incompiuta residenza ducale di Piacenza.
Le scale elicoidali di Barozzi, nel palazzo di Vignola.

La torta che Eugenio Gollini gli dedica è sorretta anch’essa da un’architettura imponente e robusta. La ricetta, dal lontano 1907, è assolutamente segreta. 
Michele Serra assaggiando la Barozzi della pasticceria Gollini l’ha descritta così:
«
…Si presenta come una piccola zolla di terra e come una zolla si
sbriciola… È un incantevole mistero fatto di mille aromi che
confondono il palato in una sinfonia di dolcezza… »
Molti hanno tentato di decifrarne gli ingredienti e molte sono le versioni che si rincorrono in rete e nelle famiglie vignolesi. Non per nulla questa torta, che bisogna assaggiare nella sua versione originale proprio alla pasticceria Gollini, ora gestita dalle pronipoti di Eugenio, è anche la più riprodotta tra le famiglie del circondario ed ognuno sostiene che la propria versione sia la più vicina all’originale.


Per questo mercoledì social ho voluto far parte degli imitatori per un giorno: ho consultato ricette, ho studiato la mia versione e sono giunta a proporvi questa che vedete.

Anche la mia Barozzi è intensa, scura, terrosa e come zolla si sbriciola. Perfetta già così, ho aggiunto solo una nota di colore e di dolcezza con una crema di mascarpone e marmellata di ciliegie. Se volete far di più metteteci in cima una maestosa ciliegia fresca: di Vignola, ovviamente! 🙂
Ah, dimenticavo… la torta Barozzi, quella vera, potete gustarla solo a Vignola, alla pasticceria Gollini. Il borgo di Vignola e la sua rocca non hanno subìto danni ingenti, visitatela al più presto!!!

La ricetta: Torta Barozzi
(circa 12 tortine monoporzione del diametro di 9 cm)
Ingredienti:
300g zucchero
200g arachidi tostate
100g mandorle tostate
100g cacao amaro in polvere
100g burro
6 cucchiaini di caffè macinato
4 uova
1 pizzico di sale
Ho macinato finemente nel mixer le arachidi, le mandorle, il caffè in polvere e lo zucchero. Ho aggiunto il cacao in polvere e mescolato bene fino ad ottenere una polvere omogenea.
Ho messo da parte gli albumi e aggiunto gradualmente i tuorli con il pizzico di sale alle polveri, mescolando bene ogni volta. Si formerà un impasto davvero terroso e denso, difficile da lavorare. Mi sono aiutata con le mani per renderlo omogeneo.
Ho montato a neve fermissima gli albumi; ne ho aggiunto un paio di cucchiaiate all’impasto per ammorbidirlo e poi man mano il resto degli albumi mescolando delicatamente dal basso verso l’alto.
Quando il composto era omogeneo l’ho suddiviso in pirottini da muffin, un paio di cucchiaiate per pirottino, ed infornato a 160° per circa 30 minuti.

Per la crema ho mescolato in parti uguali mascarpone e marmellata di ciliegia e ho appoggiato su ogni tortina una cucchiaiata di composto.
La ciliegia è inumidita e velocemente rotolata in zucchero semolato.

Qua di seguito la lista degli altri blog partecipanti all’iniziativa:
ai fornelli, storia & cultura

Eleganza a Colazione per il contest di B per Biscotto

“Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.

Signore e signorine-
le dita senza guanto-
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché niun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.

Fra quegli aromi acuti,
strani commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,
di essenze parigine,
di mammole, di chiome:
oh le signore come
ritornano bambine!

Perché non m’è concesso-
o legge inopportuna!-
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,
o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?

Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.”

Pare che Guido Gozzano (1883-1916) compose questa poesia intitolata “Le Golose” proprio nel suo caffè preferito, lo storico caffè Baratti&Milano di Torino.
Torino, elegante e altezzosa, ha sempre fatto dei caffè, uno dei simboli della città e per il contest di BperBiscotto, Colazione da Zalando, incentrato sull’eleganza non potevo che lasciarmi ispirare dai caffè storici di Torino.
Ce n’è per tutti i gusti.

C’è Al Bicerin, fondato nel 1763, accanto alla chiesa della Consolata, dall’acquacedrataio e  confettiere Giuseppe Dentis che nell’Ottocento, approfittando della ristrutturazione dell’edificio, trasformò la sua modesta bottega in locale e cioccolateria. Qui nacque per l’appunto il Bicerin, che significa bicchierino, la bevanda speciale a base di caffè, cioccolata fondente e crema di latte, dove la panna fresca avvolge caffè e cioccolata roventi e nell’impedire di scottarsi la lingua, permette di assaporare tutti e tre i sapori distintamente. L’interno del locale è rimasto come una volta, intimo e d’antan, in penombra, con pochi tavolini tondi e un’aria da antica drogheria: un’eleganza modesta e discreta.

Sotto i portici di via Po si affaccia il caffè Fiorio, nato nel 1780, da sempre il caffè dei politici e degli aristocratici, era detto il caffè dei codini e dei Machiavelli. Il suo frequentatore più celebre era Camillo Benso di Cavour, mentre Carlo Alberto, si informava ogni mattina su cosa si dicesse al Fiorio, proprio perché era una sorta di fucina dell’opinione pubblica. Sebbene dal di fuori mostri ben poco, all’interno i locali sono ancora improntati all’eleganza e allo sfarzo di un tempo. E se oggi il Fiorio è ambito per i gelati, già gustati un tempo da Nietzsche, un tempo, in un’epoca in cui l’informazione su carta stampata aveva dei ragionevoli limiti di diffusione, era il caffè dove venivano portati i giornali di tutta Europa e perciò è facile capire come il Fiorio avesse tra i suoi frequentatori colti politici, aristocratici e borghesi, e un’eleganza severa e conservatrice.

Lasciamo Fiorio per raggiungere piazza Castello. Sotto i portici, dal lato di via Po, c’è il Mulassano, aperto nel 1907, dopo che il suo fondatore ebbe trasferito la propria bottega da via Nizza. È un ambiente piccino, ma perfettamente proporzionato, particolarmente sfarzoso e ricco con i suoi soffitti a cassettoni, decorazioni in cuoio, oro e marmi, frequentato in passato dai membri della Casa Reale e dagli artisti del Teatro Regio. Non fatevi ingannare da chi dice che lo frequentava anche Garibaldi, morto invece nel 1882…probabilmente lo avrebbe fatto con piacere, però!! 😉
La particolarità di questo caffè è una fontanella in stile floreale, posta sopra il bancone, da cui viene servita l’acqua da accompagnare al caffè. Qui, per i fanatici della colazione salata, nacque il primo tramezzino! Proprio qui fu inventato il mini-panino a più strati che ancora oggi è il vanto del locale, con le più curiose farciture, dall’aragosta, alla bagna caoda, al tartufo: eleganza salata.

Sulla piazza Castello, venti metri più avanti, si apre una deliziosa galleria urbana, la Galleria Subalpina, da sempre un salottino di Torino, e proprio all’imbocco della galleria troviamo il tempio del dolce: Baratti & Milano, fondato nel 1875 da Ferdinando Baratti e Eduardo Milano, era frequentato dal fior fiore dell’aristocrazia torinese, dell’esercito e della magistratura ma, come abbiamo visto all’inizio, vi passava intere mattinate anche il poeta Guido Gozzano, incantato dalle belle signore eleganti che facevano da Baratti&Milano una colazione golosa. Fin da subito Baratti&Milano si potè fregiare del titolo di Fornitore della Real Casa. Dall’esterno le vetrine sembrano quelle di una gioielleria, con le belle praline, i cioccolatini e le eleganti caramelle avvolte nella carta marchiata. Definirei l’eleganza di questo caffè-confetteria un po’ vezzosa. 

Al Baratti, oltre a far colazione, si può anche cenare, così come all’ultimo caffè che vorrei presentarvi.

Arriviamo al salotto di Torino, la bella piazza San Carlo. Qui, all’angolo con via Alfieri c’è il Caffè Torino. Nato nel 1903 ebbe tra i suoi clienti abituali Cesare Pavese, De Gasperi ed Einaudi e molti membri della famiglia reale. Tutto è improntato a raffinatezza estrema: le belle e scintillanti vetrate, lo scalone interno, il bancone originale del primo Novecento e l’altro, invitante, della pasticceria; gli ingressi più discreti delle salette riservate. I colori e le luci ci fanno subito sprofondare in un’atmosfera liberty. I cristalli, il verde pistacchio e il color crema tutto mi richiama alla mente un’eleganza indiscutibile ed impeccabile.

Finito il giro, torniamo a casa per la MIA colazione: prendo qualcosa da ciascuno di questi caffè, l’eleganza per me è un po’ tutto ciò che vi ho descritto e si nasconde anche tra le mura di casa, su una tavola con una ricca scelta e una colazione lenta e rilassante, infarcita di chiacchiere e progetti per la giornata che sta iniziando…magari una giornata di festa… 😉

Per la mia colazione ho scelto dei biscottini ripieni di uvetta, creati in onore di Garibaldi e amati da Cavour; poi gli immancabili biscotti di meliga, ovvero di farina di mais, da bagnare nel caffè; la torta di sole nocciole piemontesi, senza farina, in formato mignon, che di solito Al Bicerin viene servita con cioccolato caldo fuso; infine dei tramezzini che potrebbero essere quelli di Mulassano.

Garibaldini all’uvetta
(non metto le dosi, perché solitamente li preparo quando mi avanza della frolla da una torta)
un panettino di pasta frolla (la ricetta della frolla la trovate qui)
uva passa
grappa
marmellata di albicocche

Ho sciacquato l’uva passa in acqua tiepida, l’ho scolata e messa a mollo, in un bicchiere di grappa.
Ho steso la frolla sottile, l’ho spalmata di un sottile strato di marmellata di albicocca e su metà ho steso le uvette. Poi ho ricoperto la metà con l’uva passa della restante porzione di frolla. Ho schiacciato bene, spennellato di uovo e cosparso di granelli di zucchero di canna. Poi ho tagliato i biscotti a rettangolini, li ho distanzati e messi in forno a 180° per 10 minuti circa, fino a doratura.

Biscotti di meliga
125 g di farina bianca
125 g di farina di mais fioretto
150 g di burro
2 uova
85 g di zucchero

Ho amalgamato il burro morbido con lo zuchero fino a formare una crema.

Ho poi aggiunto le farine mischiate insieme, poi le uova intere, mescolando il tutto fino ad avere un impasto consistente. Ho fatto riposare in frigo per mezz’ora. Ho deposto delle cucchiaiate di impasto sulla teglia coperta di carta forno e infornato per 15 minuti a 180°.

Tortine di nocciole
(per 8 tortine)
130 g di nocciole tritate
65 g zucchero
2 uova
1 cucchiaino raso di lievito in polvere

Ho montato i tuorli con lo zucchero finchè non erano chiari, poi ho unito le nocciole tritate finissime e il lievito.
In un altro recipiente ho montato gli albumi e neve. Ne ho aggiunto un cucchiaio abbondante all’impasto di farina di nocciole mescolando bene per ammorbidirlo, poi ho aggiunto il restante albume montato, mecolando delicatamente dall’alto in basso.
Ho versato il composto in 8 pirottini grandi da muffin ed infornato a 170° per circa 20 minuti.

Tramezzini quasi di Mulassano

Farciti con salmone, asparagi e yogurt intero.

Con questo chilometrico post, le foto dall’aria antica, la mia idea di eleganza e la mia colazione delle feste partecipo al contest di BperBiscotto, Colazione da Zalando.
***tutte le foto sono mie, tranne quella conl’immagine esternade Al Bicerin, perchè io, di mercoledì, l’ho trovato chiuso!

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Tea Time con gli alfajores de maicena e il tè nero Darjeeling

Con il Tea Time di oggi assaggiamo profumi e sapori di due luoghi lontanissimi tra loro.
Incontriamo i celebri Alfajores de Maicena dall’Argentina e il tè Darjeeling di Coccole dall’India.

Gli Alfajores sono diffusi in tutto il sud America, non sono tipici soltanto in Argentina, anche se all’Argentina, oggi, si deve la loro maggior popolarità, grazie a marchi importanti.

Ma partiamo dalle origini: lo dice chiaramente la radice al- del nome, l’Alfajor non può che avere origini arabe – alfajor deriva da al-hasù, che significa ripieno.
Di cosa fossero ripieni i primi alfajores non si può dire con certezza, molto probabilmente una crema o una marmellata. Durante la dominazione araba della penisola iberica, gli alfajores furono importati in Spagna e ancora oggi, in Andalusia, si utilizza questo tipo di farcitura. Gli Alfajores andalusi sono tipici delle festività natalizie e vengono arricchiti con noci, mandorle e miele; in alcuni casi sono ripieni di pasta di miele.

Una volta conquistati i golosi di Spagna, questi dolcetti erano pronti a fare un altro viaggio: li ritroviamo in America Latina al seguito delle truppe dei conquistadores, precisamente in Venezuela e in Perù, menzionati nelle razioni dei soldati.
Gli Alfajores del Nuovo Mondo mutarono e ben presto ebbero assai poco a che vedere con i genitori spagnoli, diventano semplicemente due biscotti farciti, con l’immancabile ripieno al centro. Pian piano, diventando dolci prodotti sul territorio, venne mutato anche il ripieno; pare che proprio in Perù si cominciarono a farcire di manjar blanco, la versione peruviana del dulce de leche argentino.

Pare che il primo dulce de leche venne prodotto accidentalmente quando nel XIX secolo, una mulatta a servizio presso il General Rosas, militare e politico argentino, dimenticò sul fuoco la lechada, latte caldo con zucchero per aromatizzare il matè; passato il punto di cottura il latte con lo zucchero cambiò colore e consistenza, diventando cremoso.
Il dulce de leche, dalla consistenza densa e cremosa, venne subito ritenuto adattissimo per farcire gli alfajores che, proprio con il dulce de leche e una copertura di cioccolato fondente conquistarono tutto il Sud America.
Pare che soltanto in Argentina ne vengano consumati 6 milioni al giorno…un cifra straordinaria. Gli alfajores rappresentano anche il classico souvenir da portare dai luoghi di villeggiatura. I più celebri sono infatti di marca Havanna e Balcarce, nati negli anni ’50 a Mar de la Plata,  nota località marittima.

La caratteristica più sorprendente degli alfajores, è la straordinaria consistenza friabile data dalla maizena, che ben si sposa con il morbido ripieno interno.

Questi biscottini golosissimi mi sembravano abbinarsi bene con il tè nero del Darjeeling di Coccole.
Il termine Darjeeling deriva da dorjie, fulmine, e ling, luogo; significa perciò terra dei fulmini. Il suo clima la rese famosa al tempo dell’impero Britannico in India, quando gli occidentali scappavano dal clima asfissiante delle pianure per rifugiarsi in montagna.
Il Darjeeling è noto principalmente oggi per due cose, il suo straordinario tè nero, detto lo champagne dei tè, e la ferrovia himalayana del Darjeeling, patrimonio mondiale UNESCO.


In realtà la coltivazione del tè in questa zona iniziò soltanto nel 1841, quando il medico Dr. Campbell importò in questa zona semi di tè provenienti dalla Cina, con l’intento di provare a coltivarli. La produzione viene fatta tutt’oggi nei Tea Garden e lo straordinario terroir del Darjeeling contribuisce assieme al clima ventilato a rendere questo tè unico. 
La coltivazione viene svolta al 60% da donne, a livello poco più che familiare, nonostante si nutra un commercio a livello mondiale. Non per nulla questo tè è anche quello più falsificato: di 40.000 tonnellate messe in commercio, solo 10.000 tonnellate sono di “vero” darjeeling.

Con un’infusione corretta si ottiene un tè chiaro, dal gusto dolce e delicatamente tannico.
Questo tè si è sposato ottimamente con i morbidi alfajores, perché tende a temperare l’eccessiva dolcezza del dulche de leche: abbinamento bilanciatissimo e sicuramente da ripetere!

La ricetta: Alfajores de Maicena con dulce de leche
Ingredienti (per circa 20 alfajores):
50 g di zucchero
65 g di burro morbido
37 g di tuorlo (circa 2)
90 g di maizena
60 g di farina 00
1/2 cucchiaino di lievito per dolci
1 punta di cucchiaino di bicarbonato
1 pizzico di sale

Per il dulce de leche trovi la ricetta qui.

Ho montato con la frusta burro morbido e zucchero fino ad ottenere un composto molto omogeneo e spumoso.
Ho aggiunto poco per volta i tuorli con un pizzico di sale.
Ho setacciato insieme farina lievito e bicarbonato e li ho amalgamati delicatamente al composto di burro e tuorlo.
Ottenuta una palla molto morbida, l’ho avvolta in pellicola e l’ho messa a raffreddare in frigo per circa 1 ora.

Ripreso l’impasto l’ho steso in piccole quantità in una sfoglia spessa 4-5 mm. Ho ricavato dei tondi con un bicchiere del diametro di 4 cm e nella metà di questi tondi ho ricavato un buco centrale con un tappo. Ho deposto i biscotti su una teglia coperta di carta forno e infornato a 180° per 10-12 minuti, eventualmente abbassando leggermente se il vostro forno, come il mio, tende ad aumentare di temperatura, senza far prendere colore e procedendo così fino ad esaurimento dei biscotti.
Li ho lasciati raffreddare e poi accoppiati a due a due mettendo al centro del biscotto senza buco un cucchiaino di dulce de leche e coprendolo con un biscotto bucato.

Volendo si possono coprire di un sottilissimo strato di cioccolato fondente fuso, ma io li ho mangiati così!

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Il tè nel deserto: tè verde alla menta con pasticcini marocchini

Eccoci all’appuntamento con i meravigliosi tè di Coccole e nuovi dolcetti da provare!
Dopo aver visto, nei passati Tea Time, alcune usanze cinesi e giapponesi e il tè in Inghilterra nel primo Ottocento,
non potevano mancare alcuni cenni sulla tradizione del tè in Marocco,
paese dove esiste un rituale del tè molto sentito e con forti valenze
sociali. 
Il tè in Marocco si beve in molti momenti della giornata, prima
dei pasti, come aperitivo ma anche alla fine, come digestivo. Si beve
per dare il benvenuto ad un ospite, ma anche durante la giornata per una
pausa, o come accompagnamento allo studio e alla lettura. Il tè in
questione è sempre un tè verde, introdotto dagli Arabi secoli or sono, 
aromatizzato da menta fresca.

Esiste poi una serie di gesti durante la preparazione dell’infuso che
vengono tramandati da secoli in modo sempre uguale e che si
differenziano dalle differenti culture del tè, facendo del rito marocchino del tè un
momento unico e magico.

La tipica teiera marocchina
Per ripetere il rituale  a casa si dovrebbe possedere una teiera come quelle originali marocchine, alte, eleganti e d’argento con un beccuccio lungo e sottile. Da qui il tè viene versato da una certa altezza per essere ben ossigenato.
Ma partiamo dal principio.
L’erba utilizzata per aromatizzare è talvolta menta fresca, talvolta un mazzetto composto da menta e salvia. La menta marocchina è la più profumata e ricca di mentolo e viene usata non a caso, visto che è un erba ricca di proprietà utili, in particolare se si è esposti ai climi caldi come quello del Maghreb. La menta è un analgesico naturale utile per lo stomaco e l’intestino, rafforza le fibre muscolari dello stomaco e riduce le fermentazioni, inoltre induce appetito e favorisce la digestione. Insomma si tratta di un’erba che una fûdblogger dovrebbe tenere sempre in tasca!! 😉
L’altro componente fondamentale del tè marocchino è lo zucchero che viene messo in grande quantità, direttamente nella teiera, ma che poi risulta assolutamente equilibrato all’assaggio, poiché il tè verde non è una qualità di tè particolarmente dolce al naturale.
 
Le fasi per la preparazione sono le seguenti:
– l’acqua viene messa a bollire;
– nella teiera vengono messe le foglie di tè;
– nella teiera viene versata un po’ d’acqua bollente, utile per risciacquare la teiera dalla polvere e per bagnare le foglie di tè che vengono in questo modo vengono private della teina più aggressiva; l’acqua viene fatta girare velocemente e poi gettata avendo cura di non far scivolare via anche le foglie di tè;
– nella teiera vengono aggiunti i rametti di menta (e di salvia, talvolta) e viene versata l’acqua per l’infusione;
– viene aggiunto lo zucchero in quantità notevole, circa un cucchiaio di zucchero di canna a persona, e la teiera viene rimessa sul fuoco per qualche minuto, senza mai far prendere il bollore;
– si assaggia e si regola ancora di zucchero;
– dopo 5 minuti di infusione il tè può essere versato avendo cura di ossigenarlo; questo passaggio si fa versando il tè da un’altezza notevole, 15 o 20 cm, nei piccoli bicchierini di vetro decorato;
– a questo punto il tè può essere gustato e  sarà perfetto, dolce e aromatico al punto giusto.
Io ho usato i cuori di tè verde di Coccole che avevo già abbinato in passato ad altri biscottini.
Al tè vengono accompagnati i dolci tipici del Marocco, i Ghouriba e i Kaab El Ghzl, le corna di gazzella, e molti altri.
Sono pasticcini a base di mandorle, profumatissimi e spiccatamente dolci, per reggere la dolcezza del tè alla menta.
Io ho provato a riprodurli, estrapolando la ricetta che, fra le tante, mi sembrava più convincente.

La ricetta: Kaab El Ghzl (Corna di gazzella)
(ingredienti per 30 pezzi)

Per la pasta:
60 g di semola di grano duro
40 g di farina 00
1/3 di fialetta di essenza di fiore d’arancio ( o un cucchiaio di acqua di fiori d’arancio)
1 cucchiaio di burro
Acqua qb (o albume)
 
Per il ripieno:
200 g di mandorle pelate
100 g di zucchero a velo
un pizzico di sale
15 g di burro
1/3 di fialetta di essenza di fiore d’arancio
acqua qb

Preparazione :
Ho mescolato la farina con il burro, l’essenza di fiori d’arancio e un po’ d’acqua  (potete anche usare l’albume) fino a formare una pasta morbida e lavorabile. Ho lavorato la pasta per 5 minuti e poi l’ho avvolta nella pellicola e fatta riposare per mezz’ora.

Nel frattempo ho preparato il ripieno. Ho tritato finemente le mandorle, le ho mischiate con lo zucchero a velo e il burro sciolto. Ho aggiunto gli altri ingredienti e per ultima un po’ d’acqua per formare un impasto compatto.

Ho steso la pasta sulla spianatoia, fino a renderla sottilissima. Con un coppapasta ho ricavato dei cerchi di 8 cm di diametro. Su ogni cerchio ho deposto un salsicciotto di ripieno. Le corna di gazzella si ricavano piegando la pasta sul ripieno, come un raviolo, e poi arcuando e pizzicando il dolcetto.

I dolcetti vanno fatti cuocere in forno caldo a 160° per circa 15 minuti.

La ricetta: Ghouriba alla cannella 

(ingredienti per 25 pezzi)

80 g di farina di semola
45 g di farina 00
50 g di olio di semi
35 g di mandorle tritate
65 g di zucchero a velo
½ uovo sbattuto con un pizzico di sale
la buccia grattugiata di mezzo limone
1 cucchiaino di cannella in polvere
1 cucchiaino di lievito per dolci
zucchero a velo per rifinire

Preparazione
Ho lavorato insieme le due farine e l’olio fino a farli sabbiare. Ho aggiunto poi lo zucchero a velo, le mandorle tritate, il lievito, la buccia di limone e la cannella. Ho aggiunto il mezzo uovo sbattuto, fino a formare una pasta lavorabile. Ho lasciato riposare per un quarto d’ora.
Ho poi ricavato delle palline come piccole noci (che cresceranno in cottura), le ho passate nello zucchero a velo e le ho deposte distanziate sulla carta da forno.
Ho informato a 160° per 13 minuti circa.

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Il mio primo blog-compleanno e un contest per voi!!!

Oggi il mio blog compie un anno e ogni giorno di più sono entusiasta di questo mio spazio in rete.
Sono partita con l’idea di voler legare le mie ricette e i miei ingredienti all’arte e alla storia e ho scoperto (ogni giorno di più) che amo provare ricette tipiche, soprattutto se legate a qualche aneddoto di vita popolare e contadina, e magari raccontare quando queste ricette sono nate.
Per questa ragione il contest che celebra questi 365 giorni di blog doveva vertere sugli stessi argomenti.
Da oggi parte “Ricette a spasso nel tempo”. 
Vi chiedo di cercare un personaggio storico a cui abbinare una ricetta, raccontarne la vicenda e spiegare perché personaggio e ricetta sono correlati. Non necessariamente deve trattarsi di un personaggio molto famoso…anzi, benvengano le storie di personaggi che non tutti conoscono.

Cerco di raccogliere in un elenco le regole del gioco:
– per partecipare bisognerà postare da oggi 22 aprile fino al 17 giugno 24 giugno (fino alle 23,59) una ricetta che sia ispirata a un personaggio storico, più o meno noto. Ad esempio avete la piena libertà di ispirarvi al sindaco di un paesello sperduto o a un cuoco celebre del passato o a un re, papa, generale o condottiero, se ne conoscete la storia e la raccontate, spiegando perché personaggio e ricetta sono in collegamento. L’importante è che il personaggio sia realmente esistito e che abbia un legame con la ricetta, vero o di ispirazione. Con “legame vero o di ispirazione” intendo che o il personaggio mangiava davvero quel dato cibo o per qualche ragione pensate che la ricetta avrebbe potuto piacergli.
– potete partecipare con una sola ricetta, di qualunque genere.
– dovete inserire nel post e in angolino della vostra pagina il banner del contest
– la ricetta deve essere corredata di fotografia del piatto finito, cucinato da voi.
– per partecipare bisognerà lasciare un commento a questo post con il link del vostro post ed io man mano aggiornerò l’elenco delle ricette partecipanti.
– se non avete un blog potete inviare una mail con storia, ricetta e foto del piatto finito all’indirizzo ricettedicultura@gmail.com ed io la pubblicherò in un post sul mio blog.
– se avete un account facebook potete pubblicare storia, ricetta e foto in una nota e poi segnalarmi il link.
– se volete diventare followers del mio blog fatelo, ma non è obbligatorio! Se volete diventare fans della mia pagina facebook potete cliccare “mi piace” qui: https://www.facebook.com/RicetteDiCultura , ma non è obbligatorio.
– le ricette e i post partecipanti verranno giudicati insindacabilmente 😉 dalla sottoscritta sulla base di:

# aderenza alla richiesta del contest, personaggio storico-ricetta
# originalità dell’abbinamento e della ricetta
# presentazione (non occorre essere dei fotografi, ma la foto deve essere leggibile e un po’ grande perché poi vorrei raccogliere il tutto in un pdf)

Verranno premiate 2 persone
1. la ricetta a mio giudizio più rigorosamente rispondente alla richiesta del contest con il libro:

 2. il post a mio giudizio più originale, simpatico e creativo, (quindi arrampicatevi pure sugli specchi), con il libro:


Credo di aver detto tutto, se ho dimenticato qualcosa lo aggiungerò in seguito. E se troverò qualcosa di particolare e interessante da aggiungere ai premi lo farò presto
Spero che il contest, un po’ impegnativo, vi piaccia e spero che partecipiate numerosi…o almeno in un numero decente, tale da non farmi oscurare questo post e fingere che questo contest non ci sia mai stato… 😉

Grazie a tutti voi che commenterete!!! 😀

AGGIORNAMENTO DEL 13 GIUGNO 2012:
ATTENZIONEEEEEEE!!!!! 
Visto che il contest è partito in sordina e si sta facendo notare un po’ di più nelle ultime settimane con numerosi consensi, ho deciso di prorogare la scadenza di una settimana, ovvero fino al 24 giugno, per dare la possibilità anche a chi ne è venuto a conoscenza da poco, di inviare la propria ricetta e di formare, infine, un pdf più corposo.
CHI LO DESIDERA PUò ANCHE AGGIUNGERE UNA SECONDA RICETTA PARTECIPANTE AL CONTEST!!  🙂

Visto che è cambiato il termine ultimo, aggiungerò anche un terzo premio, che però devo ancora scegliere e su cui avrete presto aggiornamenti!!


ELENCO DELLE RICETTE PARTECIPANTI:
Crepes di Andersen con arrogante grano saraceno di Paola del blog Nastro di Raso, con la partecipazione di Hans Christian Andersen.
Lasagne ar biondo Tevere di Patrizia del blog Ieri e Oggi in Cucina, con la partecipazione di Aldo Fabrizi.
San Simplicio e il panino della festa di Vera del blog Vera in Cucina, con la partecipazione di San Simplicio.
Pavlova di Laura del blog Matematica e Cucina, con la partecipazione di Anna Pavlova.
Pizza Margherita di Rachele del blog Il Ricettario di Rachele, con la partecipazione della Regina Margherita di Savoia.
Pasta pancetta e fagioli di Roberta del blog L’Angolo Cottura di Roby, con la partecipazione di Bernabò Visconti.
Principessa Mafalda di Falentina del blog Le pentole di Falentina, con la partecipazione della Principessa Mafalda di Savoia.
La frittata del Re Lazzarone di Roberto del blog ‘A Cucina ‘e Mammà, con la partecipazione di Re Ferdinando IV di Borbone.
La focaccia provenzale di Giu del blog Mela e Cannella, con la partecipazione di Paul Cézanne.
La pasta alla Tetrazzini di Chiara, Un’Italiana Senza Servitù del blog Torsolo di Mela, con la partecipazione di Luisa Tetrazzini.
Tortelli alle erbette  di Antonella del blog Sapori in Concerto, con la partecipazione di Giuseppe Verdi.
Pasticcio alle fraghe per sua Serenissima Altezza Cristina di Simona (ricetta da Facebook), con la partecipazione di Cristina di Svezia.
Garibaldi Mini Cake di Shamira Gatta del blog Lovely Cake – Favole di Zucchero, con la partecipazione di Giuseppe Garibaldi.
Frittelle di salvia di Silvia del blog Pane e Pomodoro, con la partecipazione di Martino da Como. 
Soufflé Rothschild alle albicocche di Ann del blog BperBiscotto, con la partecipazione di Marie-Antoine Carême. 
Tagliatelle al sugo di germano di Ingorda del blog Il Rifugio dell’Ingordo, con la partecipazione di Lucrezia Borgia. 
Il Farzotto di Ildegarda von Bingen di Tiziana e Alessia del blog Staffetta in Cucina, con la partecipazione di Santa Ildegarda.
Mojito de Muslo de Pollo di Chef Speciali del blog Chef Speciali…apprendista chef, con la partecipazione di Ernest Hemingway.
I Biscotti al Burro di Arachidi e il Dispensatore di Sogni di Cecilia e Micol del blog Muffin e Dintorni, con la partecipazione di Walt Disney. 
Budino Ginori-Conti e l’energia geotermica di Giulietta del blog Se Cucino, Sorrido, con la partecipazione del Marchese Piero Ginori-Conti e del suo cuoco. 
Un’Albanella di Pesce di Loredana del blog La Cucina di Mamma Loredana, con la partecipazione di François Vatel.
Spaghetti alla Chitarra con Pomodorini e Sarde di Memi del blog In Cucina con M.E., con la partecipazione di Peppino Impastato.

FUORI CONCORSO:
Arrosto di manzo alla senape inglese di Giuseppe del blog Il Riccio e la Volpe, con la partecipazione di Immanuel Kant.

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La mia pastiera napoletana e la sua storia

La pastiera è il dolce campano della Pasqua per eccellenza. In questi giorni tutte le signore campane più tradizionaliste hanno già fatto la pastiera. Di solito viene preparata il giovedì o il venerdì santo.
La storia della pastiera è davvero antica e meravigliose sono le leggende ad essa legate. Per questa ragione, pur trovando questo dolce un po’ troppo corposo per i miei gusti, ho voluto provare a farlo ed il risultato mi ha sorpreso. Credo che sia una di quelle ricette dalla forte ritualità che una volta che vengono avvicinate e riprodotte in casa abbiano un risultato obbligatoriamente più saporito e accattivante di qualsiasi dolce “perfetto” e impeccabile dal punto di vista estetico.
L’ingrediente principale della pastiera napoletana è il grano cotto, un elemento fortissimo, dal punto di vista della simbologia pasquale. Il grano che “muore” e dà la spiga e ancora i piccoli chicchi di grano, che messi tutti insieme, fanno una cosa buona: le immagini preferite dal cattolicesimo.
Nella pastiera però intervengono altri elementi forti: sono sette gli ingredienti salienti di questo dolce.
Si narra che anticamente le popolazioni del golfo di Napoli alimentassero il culto della sirena Partenope, offrendole doni in cambio di correnti marine favorevoli. Ogni primavera la sirena emergeva dalle acque allietando i napoletani con il suo canto melodioso. Una volta sette uomini erano partiti in mare e avevano trovato una tempesta, ma la sirena, memore del’amicizia con la città di Napoli, li riportò a terra sani e salvi. Sette donne, spose di questi marinai, vollero ringraziare la sirena Partenope e le portarono in dono, sulla riva del mare, i sette più preziosi doni della loro terra: il grano, la ricotta, le uova, i fiori d’arancio, lo zucchero, le spezie e la frutta candita.
La sirena prese tutti questi doni e li pose al cospetto degli dei. Il giorno seguente i napoletani trovarono sulla spiaggia la pastiera, confezionata proprio con tutti questi ingredienti preziosi.


Questo narra la bellissima leggenda; di per certo si sa che la pastiera esisteva ed era diffusa nel ‘600, poiché lo scrittore Gianbattista Basile la cita nella sua favola “La gatta Cenerentola”, molto simile alla fiaba di Perrault. La pastiera con il casatiello fa la sua comparsa durante il banchetto offerto dal re per trovare la proprietaria della scarpetta perduta.


Sul sito Pastiera trovo anche questi bei versi in rima, con la storia legata a Maria Teresa d’Austria e al Re Ferdinando di Borbone:


A Napule regnava Ferdinando
Ca passava e’ jurnate zompettiando;
Mentr’ invece a’ mugliera, ‘Onna Teresa,
Steva sempe arraggiata. A’ faccia appesa
O’ musso luongo, nun redeva maje,
Comm’avess passate tanta guaje.
Nù bellu juorno Amelia, a’ cammeriera
Le dicette: “Maestà, chest’è a’ Pastiera.
Piace e’ femmene, all’uommene e e’creature:
Uova, ricotta, grano, e acqua re ciure,
‘Mpastata insieme o’ zucchero e a’ farina
A può purtà nnanz o’Rre: e pur’ a Rigina”.
Maria Teresa facett a’ faccia brutta:
Mastecanno, riceva: “E’ o’Paraviso!”
E le scappava pure o’ pizz’a riso.
Allora o’ Rre dicette: “E che marina!
Pe fa ridere a tte, ce vò a Pastiera?
Moglie mia, vien’accà, damme n’abbraccio!
Chistu dolce te piace? E mò c’o saccio
Ordino al cuoco che, a partir d’adesso,
Stà Pastiera la faccia un pò più spesso.
Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;
pe te fà ridere adda passà n’at’ anno!”

 

Maria Teresa era soprannominata “la regina che non ride mai” ma pare che un giorno, assaggiando per la prima volta la pastiera, schiuse  le labbra in un sorriso. Il marito Ferdinando di Borbone ordinò che la Pastiera venisse servita più spesso in tavola, almeno per veder ridere la moglie ogni tanto!!

Per la cronaca, la prima delle nostre piccole pastiere ha fatto sorridere anche noi! 😉
Per vedere come sono venute le altre 4 aspettiamo domani, quando ci saranno anche alte foto!
 

La ricetta: Pastiera Napoletana (con queste dosi ne ho fatte cinque: tre piccole, quadrate, di 15 cm di lato e altre due tonde di 20 cm di diametro. Non ho fatto il ripieno molto alto. Queste dosi vengono anche indicate per una grande pastiera di 36 cm di diametro)

Per la pastafrolla:
500 g farina
250 zucchero
250 burro
2 uova

Per il ripieno:
580 g grano cotto
400 g latte intero
480 g ricotta vaccina (la tradizionale è quella di pecora)
450 zucchero
5 uova
2 fialette di acqua di fiori d’arancio (o 2 cucchiai e mezzo se avete la boccetta grande)
70 g di macedonia candita (o di cedro)
1 cucchiaino colmo di cannella

Ho preparato la pastafrolla e l’ho messa a riposare in frigo per 1 ora.
Ho fatto sobbollire il grano con 250 g di latte per almeno dieci minuti. Poi ho aggiunto una fialetta di acqua di fiori d’arancio e la cannella e ho lasciato raffreddare.
Ho stemperato la ricotta con i restanti 150 g di latte, fino a farla diventare cremosa, poi ho aggiunto la seconda fialetta di acqua di fiori e i canditi.
Da parte ho sbattuto le uova con lo zucchero, poi ho miscelato i tre composti: grano, uova e ricotta.
Ho steso la pasta frolla per la prima teglia, l’ho riempita di composto lasciando circa 1 cm e mezzo di bordo, poi ho ricavato delle striscioline di pasta per formare una griglia come con la crostata. Le strisce vanno appoggiate delicatamente sull’impasto che sarà piuttosto liquido.
Poi ho infornato la prima pastiera (tonda) a 180° per circa 50 minuti.
Nel frattempo ho preparato le altre, aspettando all’ultimo per disporre le striscioline sopra. Quelle quadrate sono andate in forno in due, sempre a 180° per 40 minuti.

La pastiera va fatta raffreddare molto bene e poi cosparsa di zucchero a velo prima di servire. Si conserva in frigo e durante i giorni che precedono Pasqua i suoi aromi si bilanciano perfettamente: per la domenica sarà perfetta!!
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