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Spaghetti alla chitarra con peperoni, pinoli e cipolle rosse (anzi viola!) caramellate

«Sembrerebbe un cibo, se non fosse per il suo sapore strano e intenso.» Questa la frase pronunciata da Cristoforo Colombo per presentare all’Europa il peperone, e qui si capisce che Colombo faceva il navigatore e non il pubblicitario. Non credo che in molti potessero essere attratti da una presentazione del genere, ma bisogna capire che il gusto dell’epoca si era formato su ortaggi non troppo saporiti, le rape, ad esempio, o le fave e in pochi potevano essere preparati all’esplosione di sapore del peperone.

Inizialmente fu chiamato pepe d’India, per la sensazione che provocava sulla lingua simile a quella provocata dal pepe, ben conosciuto in Europa e simbolo delle tavole più altolocate.

Gli spagnoli pensarono che anche il peperone potesse servire per ricavarne una spezia e tentarono di farlo conoscere in Europa, cercando di far partire un bel business. I loro sogni di gloria naufragarono però (si può dire, parlando di navigatori???) perché il peperone, sia dolce che piccante, si adattò bene a tutti i climi e in pochi decenni riempì i giardini e gli orti d’Europa e Africa.

Da quel momento anche il più povero contadino poté facilmente fabbricare la sua dose di pepe d’India e parallelamente il gusto sulle tavole nobili, ancora condizionato da zafferano, chiodi di garofano e cannella, cominciò a virare verso l’apprezzamento delle erbette e delle verdurine, cominciando a lasciar un po’ da parte le spezie.

Il peperone intanto si diffuse in Italia da nord a sud, trovando terreno fertile, sia fisicamente, che metaforicamente nelle menti ingegnose dei cuochi improvvisati delle mense povere. Non c’è regione in Italia che non vanti qualche tipica qualità di peperone, da quelli dolci e tondi di Carmagnola in Piemonte, alle varietà più piccanti calabresi. E non c’è regione che non esalti il gusto del peperone con ricette di ogni tipo, dai peperoni con le acciughe piemontesi, alle peperonate venete, al peperone cucinato con il baccalà lungo il Tirreno ai friggitelli pugliesi e ancora alla caponata siciliana. La Calabria ha coltivato il culto di quelli più piccanti, facendone ingrediente irrinunciabile per i prodigiosi salumi e le varie miscele di verdure piccanti sott’olio. Un simbolo dell’Italia nel sud nel mondo? Basti dire che la pizza con il salamino piccante a Los Angeles, Pechino, Sidney e Nairobi si chiama semplicemente “peperoni”. E basta.
[fonti:
http://it.wikipedia.org/
M. Niola, Si fa presto a dire cotto, Il Mulino 2009.]
La ricetta: Spaghetti alla chitarra con peperoni, pinoli e cipolle rosse caramellate.

Avevo trovato questa ricetta sul sito della pasta Garofalo. Senza troppi ingredienti, l’incontro tra i sapori semplici è esaltante, anche con il peperone più insipido, figuriamoci ora che i peperoni sono belli succosi e dolci.
Per due persone, vanno bene:
spaghetti alla chitarra (quanti ne volete)
1 peperone rosso maturo (se vi capita con una nota piccantina, ancora meglio)
1 cipolla rossa di Tropea
1 manciata di pinoli
2 cucchiai di zucchero
1 spicchio d’aglio
1 filetto d’acciuga
olio, sale
Ho pulito il peperone e l’ho tagliato a pezzettini piccoli, tipo dadini.
Ho fatto soffriggere l’aglio in tre cucchiai d’olio, aggiungendo un’acciughina per dare sapore.
Ho versato i peperoni in padella e li ho fatti rosolare un po’, sempre mescolando, e poi ho fatto cuocere aggiungendo un filo d’acqua ogni tanto.
Intanto si può mettere l’acqua per la pasta a bollire.
In un padellino far tostare leggermente i pinoli e metterli da parte.
Ho poi affettato la cipolla finemente e l’ho fatta ammorbidire sul fuoco con un filo d’olio.
Poi ho versato i cucchiai di zucchero. Mentre lo zucchero si scioglie, la cipolla si ammorbidisce, quando è pronta spegnere e tenere al caldo.
Una volta che la pasta era cotta, l’ho scolata e passata in padella con i peperoni.
Poi ho impiattato, mettendo la cipolla sopra la montagnola di spaghetti, in modo che il sughino dolce colasse anche nel centro. Sopra la cipolla e i peperoni ho completato con i pinoli.
L’incontro tra il dolce acidulo e piccantino del peperone e il dolce pieno e rotondo della cipolla è squisito.

ai fornelli, buffet salato, insalate e piatti freddi, storia & cultura

Prosciutto e melone nel cestino di sfoglia

In Italia si usa servire il prosciutto crudo con il melone, come antipasto estivo o come piatto leggero.
Questo accostamento è in realtà frutto di un tramandare secolare di abitudini che affondano le radici in una cultura antica.
Già dal medico e filosofo greco Ippocrate nasce la visione del mondo basata su coppie di contrari: caldo-freddo, secco-umido… così come accade con le filosofie orientali, ad esempio con lo yin e yang taoista, su cui si fonda l’armonia universale.
Dall’antica Grecia quindi deriva anche l’uso di associare ogni cibo con il suo contrario, anche il melone, cibo freddo, con il prosciutto, cibo caldo, ma si veda anche in Vietnam l’abitudine di accostare frutti come meloni o cocomeri, ad un misto di sale e peperoncino. Più vicino a noi, in Francia, il melone viene servito con il sale o a volte, per lo stesso principio, con un vino dolce e forte. Il viaggio nell’antichità trova quindi riscontro anche in un viaggio spaziale, dall’estremo Oriente ai nostri vicini di casa.
 
Dal Medioevo in avanti, per molti secoli, la frigidità del melone, che lo porta oggi ad essere un cibo estremamente desiderabile per trovare ristoro dalla calura, era considerata non solo negativa ma addirittura pericolosa. Teniamo conto che i frutti dell’epoca erano molto vicini allo stato selvatico e quindi maturavano più difficilmente ed erano di sicuro più indigesti. Fatto sta che mangiare un frutto freddo come il melone senza stemperarlo con un cibo caldo, poteva essere la causa di spiacevoli indigestioni.
In particolare è famosa la triste sorte toccata al Papa Paolo II, morto all’improvviso nella notte del 26 luglio 1471. Il colpo apoplettico che lo colpì fu subito attribuito, dai medici che lo avevano in cura, ad una sorprendente scorpacciata di meloni che il Papa si era fatto subito prima di andare a dormire. La testimonianza  di Nicodemo da Pontremoli, parla di «tre poponi non molto grandi» ed «altre cose di triste substantia» verso le dieci di sera; ne parla anche Platina, che scrisse la biografia del Papa, dicendo che «si dilettava moltissimo a mangiare meloni, e da ciò si crede che sia stata provocata l’apoplessia da cui fu strappato alla vita. Infatti la sera prima di morire aveva mangiato due meloni, per giunta assai grandi». Che i meloni fossero tre piccoli o due grandi ha poca importanza, di certo ne mangiò abbastanza perché gli restassero sullo stomaco…anche se a guardare il suo ritratto viene il dubbio che non mangiasse soltanto meloni!!! 🙂
[fonti: 
http://it.wikipedia.org/
M. Montanari, Il riposo della polpetta, Laterza 2011.]
 
Con qualche fetta di melone al pasto non si rischia come con tre meloni interi, però l’abbinamento con il “caldo” prosciutto crudo rimane uno dei migliori, soprattutto per il contrasto di dolce e sapido che personalmente adoro.
 
La ricetta-non ricetta: Insalata nel cestino con prosciutto e melone.
 
Di fatto è una ricetta molto semplice, ma con una presentazione speciale che ho spesso preparato per una cena tra amici.
Ho creato un cestino di pastasfoglia, aiutandomi con degli stampini di alluminio, formato-muffin. Basta ritagliare la pastasfoglia pronta a forma di quadrati e adagiarla sugli stampini, infornando per un quarto d’ora a 170°.
All’interno del cestino, una volta raffreddato, ho messo della valeriana condita con qualche goccia di crema di aceto balsamico, delle roselline di prosciutto crudo (per 4 cestini vanno bene circa 2 etti) e delle palline di melone, ricavate con l’apposito scavino e rotolate nei semini di papavero. Ho completato con la croccantezza di una manciata di anacardi salati.
 
Unica accortezza, riempire i cestini subito prima di portare in tavola per far restare croccante la pasta sfoglia.
 
Con questa insalata nel cestino partecipo alla raccolta di Burro e Miele “Chi mi aiuta a raccogliere l’insalata?”.
 
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Le galettes di mare con chips di melanzane

Le galettes altro non sono che delle crêpes in versione salata, tipiche della zona della Bretagna.

Conosciute come specialità della tradizione culinaria francese, in realtà la storia le vuole come originarie dell’Italia.

La leggenda narra che nel V secolo alcuni pellegrini francesi giunsero a Roma stanchi e affamati, per la festa della Candelora,  e che il Papa Gelasio, per rifocillarli, ordinò di preparare un cibo a base di farina e uova. 

I pellegrini, una volta tornati in Francia diffusero queste frittatine increspate con il nome di crêpes, dal latino crispus.
Per tutto il Medioevo furono sempre preparate con farina di vari cereali o di grano saraceno (e non farina bianca di frumento) e con acqua o vino al posto del latte, che venne introdotto solo successivamente.

Secondo la tradizione i mezzadri le preparavano e le portavano in dono ai loro padroni come simbolo di alleanza e amicizia.
Le crêpes dolci (o le galettes salate) in Francia sono rimaste il piatto tipico della Candelora, ma di fatto si preparano in tutte le stagioni, per la loro caratteristica di cibo prêt à porter, preparate non in padella ma sulla tradizionale piastra.
Val la pena di prepararle anche alla Candelora, che si sia superstizioni o no. Infatti si narra che il giorno della festa le crêpes debbano essere girate tenendo una moneta in mano; se le crêpes girano bene allora fortuna e ricchezza vi accompagneranno durante tutto l’anno. 
[fonti:
http://www.taccuinistorici.it
http://it.wikipedia.org
http://www.pilloleculinarie.it
http://buoneforchette.canalblog.com]
Per preparare queste galettes ho messo insieme alcune suggestioni: il fatto che venissero preparate originariamente con grano saraceno e che in Bretagna vengano spesso farcite con crostacei.
Io ho usato della farina di 5 cereali, un ripieno di gamberi e vongole con una leggera besciamella senza burro e ho aggiunto delle sottilissime melanzane fritte ben asciugate dall’olio; il tutto viene velocemente passato in forno.
Sebbene il tempo di preparazione sia un po’ lungo, il piatto è delizioso e può essere preparato in anticipo, lasciando alla fine solo un veloce passaggio in forno.

La ricetta: Galettes ai gamberi e vongole con chips di melanzane

Per prima cosa ho messo le fette di una mezza melanzana a scolare; le fette già salate, vanno messe sotto un peso, poi strizzate e asciugate, prima di essere fritte in olio di arachidi.

Per le galettes, (con il mio padellone da crêpes da 28 cm di diametro, ne vengono 4; se si servono come antipasto, è meglio prepararle con un padellino piccolo, ottenendone il doppio):

100g farina (50g bianca e 50 g ai 5 cereali)
15g olio d’oliva
250 ml di liquido (così suddiviso: 125 ml di latte e 125 ml d’acqua)
1 uovo
1 pizzico di sale
Si mescola la farina con l’uovo sbattuto con un pizzico di sale; ottenuta una pastella densa, ho aggiunto a poco a poco il liquido (latte + acqua) e l’olio.
Ho lasciato riposare per circa 40 minuti l’impasto.
Se dopo il riposo dovesse essere eccessivamente denso, è più difficile ottenere delle galettes sottili, quindi aggiungere ancora un goccino di latte.
Deporre a cucchiaiate l’impasto nel padellino ben oliato e farlo scorrere fino a distribuirlo su tutta la superficie. Quando la sfoglia comincia a staccarsi dai bordi è pronta per essere sollevata con una paletta e rigirata.

Cuocere tutte le galettes prima di farcirle, è più comodo!

Per il ripieno:

una quindicina di gamberetti, sbollentati e sgusciati
40 g di vongole già lessate e sgocciolate

besciamella senza burro (250ml latte, 1 cucchiaio colmo di farina, sale, pepe)

Ho messo in un pentolino il latte; mentre scaldava l’ho aggiunto a cucchiaiate alla farina, fino a formare una pastella. Ho aggiustato di sale e pepe la pastella e l’ho rimessa sul fuoco per addensarsi. Dopo pochi minuti la besciamella è pronta. A piacere si può insaporire ulteriormente con formaggio grattugiato e noce moscata, io l’ho preferita neutra dovendo aggiungerla al pesce.
Intanto ho fatto rosolare uno spicchio d’aglio in padella con due cucchiai di olio, poi ho aggiunto le vongole e i gamberetti, già sbollentati e sgusciati. Ho fatto rosolare per pochi minuti, aggiungendo anche un goccino di vino bianco.
Infine ho aggiustato di sale e poi aggiunto alla besciamella già preparata.

Ho usato questo ripieno per farcire le galettes, completandole con fettine di melanzana fritte ben scolate.
Ho arrotolato e messo in forno a 170° per 10 minuti, basta solo che si riscadino uniformemente.
Le ho poi disposte nel piatto, tagliate a metà, e completate con alcune fettine di melanzana che erano avanzate dal ripieno.

buffet salato, storia & cultura

Gli sformatini di zucchine con il cuore di noci e i dipinti del Pitocchetto

 
Questo è il caso del classico cane che si morde la coda.
Non so dire se sia nata prima l’idea per la ricetta o l’idea per il post…
Avevo due belle zucchine in frigo e volevo farci qualcosa di buono ma anche di carino a vedersi… degli sformatini, ad esempio, che uscissero dallo stampino con i contorni belli netti.
E poi avevo l’idea di un nuovo post ispirato ad un dipinto o ad un pittore.
Cercando in rete una natura morta con le zucchine, ecco cosa mi viene fuori:
Natura morta con zucchina e noci
Questa bella natura morta, su cui si posa una luce soffusa è di Giacomo Ceruti, pittore nato a Milano nel 1698. Nel dipinto c’è una grossa zucchina, pere di due diverse qualità, che forse oggi non vengono più coltivate, e noci.
Natura morta con le noci
 
 
Ceruti aveva un po’ la fissazione per le noci, che in effetti sono belle da dipingere, così come sembrano dei piccoli cervelli. In un altro dipinto sono rappresentate con pane e salame, una brocca e l’ottima resa della trasparenza del bicchiere.
Vecchio mendicante
Ma la vera specialità di Ceruti, non sono le nature morte, bensì i ritratti di poveri, contadini e mendicanti. La sua seconda patria fu Brescia e proprio al dialetto bresciano deve il suo soprannome, il Pitocchetto, dai pitocchi, i contadini, per la sua predisposizione a riprodurre scene di vita popolare.
Egli viaggiò per tutto il Nord Italia, dando significativo apporto alla Basilica di Sant’Antonio da Padova e soggiornando per un periodo a Piacenza e a Milano. Dipinse scene sacre per numerosi committenti, ritornando però sempre ai ritratti di povera gente, il genere di pittura che lo rese famoso. La pittura di genere era già da anni diffusa in Lombardia, ma Ceruti ne dà un’interpretazione personalissima.
 
Considerato una sorta di successore del più celebre Caravaggio, non mise i poveri come soggetto di scene bibliche o evangeliche, ma li ritrasse nel loro contesto naturale, in dipinti dal grande formato, dove essi esprimono tutta la loro umanità.
Ragazzo con la cesta

I soggetti guardano dritto negli occhi l’osservatore, come a volergli raccontare una storia, senza indorare in alcun modo una certa crudezza documentaria.

Si veda Il ragazzo con cesta, colto in un attimo di riposo durante il suo lavoro. Questi sono occhi che parlano, che esprimono una quantità di messaggi a saperli ascoltare.

O Il ragazzo con cesto di pesci, dall’aria furba, che sembra voler invitare l’osservatore ad acquistare gli scintillanti crostacei.

Ragazzo con cesto di pesci
I due pitocchi
E poi ancora  I due pitocchi, ritratti con i loro vestiti laceri e un piccolo gatto in grembo, o i tanti dipinti di donne al lavoro; tutti questi personaggi guardano negli occhi l’osservatore, sono umani, partecipi, veri.  
Emozionanti in una parola.
 
Donne al lavoro
La piccola mendicante e la filatrice
 
E qui il Pitocchetto mi è entrato nel cuore.
Da qui, a sceglierlo come ispiratore delle mie zucchine, il passo è stato breve… avrei fatto dei semplici sformatini, ma con un originale ripieno di noci.

Ci ho provato, abbiamo assaggiato in due… l’abbinamento è delizioso!!! 🙂

La ricetta: Sformatini di zucchine, con cuore di noci e stracchino

ingredienti (per 2 sformatini):
1 grossa zucchina tonda tagliata a julienne 
1 uovo
2 cucchiaiate di stracchino
3 noci
un pezzo di cipolla (1/3 circa)
maggiorana
olio, sale, pepe

Ho fatto soffriggere la cipolla senza farla dorare troppo.
Ho aggiunto le zucchine tagliate a julienne.
Ho fatto insaporire e poi aggiunto un po’ d’acqua per farle stufare.
Ho regolato di sale e pepe e aggiunto un cucchiaio di maggiorana tritata.
Quando le zucchine cominciavano a perdere la croccantezza le ho tolte dal fuoco e lasciato che intiepidissero.
Ho poi aggiunto l’uovo sbattuto e ho cominciato a comporre gli sformatini in due stampini di alluminio usa e getta (quelli da muffin) ben unti di burro: prima un po’di zucchine poi, al centro, lo stracchino con le noci tagliate grossolanamente a pezzettini, infine ancora il composto di uovo e zucchine!

Ho infornato a 180° e fatto cuocere fino a rassodamento!!
Ecco lo sformatino nel piatto, in compagnia di un altro pezzo di stracchino
 
Ed eccolo che mostra il suo cuore di noci
 
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Il Clafoutis di Ciliegie del Limousin e la mietitura nella Crau

Si avvicina il 24 giugno, San Giovanni, normalmente considerato il limite massimo per gustare le ciliegie senza il rischio di incorrere nel giuanin, il vermicello, che proprio dal Santo prende il nome. In realtà quest’anno, visto l’anticipo di stagione per le ciliegie, era previsto l’arrivo del vermetto un po’ prima del solito…ma, confidando nelle medicazioni che oggigiorno vengono fatte, direi che si possa rischiare un po’ meno di incapparvi.

La regione del Limousin
La stagione delle ciliegie più belle e succose coincide con quella della mietitura del grano e nella regione del Limousin, in Francia, un caratteristico dolce di ciliegie veniva in origine preparato proprio per essere portato nei campi e gustato durante una pausa dal duro lavoro.
Così è passato alla storia, come il dolce tipico dei contadini, poco dolce e poco elaborato da preparare, ma con una caratteristica unica: infatti le ciliegie vengono disposte nella teglia con il nocciolo e il picciolo, perché pare che proprio queste componenti trasmettano un gusto più persistente e particolare all’impasto.
Il nome clafoutis ha un’etimologia controversa; secondo alcuni la parola deriva dal dialettale clafir, che significa guarnire, riempire; per altri l’origine del nome si fa risalire al latino clavum figere, ovvero conficcare un chiodo, con riferimento alle ciliegie che vengono “piantate” nell’impasto.
Arles sulla mappa della Francia
Trovo molto poetica l’immagine dei contadini che a metà giornata, stremati, potessero contare su questa succulenta e dolce pietanza per rinfrancarsi all’ombra di un albero.
Sarebbe andata bene a Vincent van Gogh se per immortalare le fasi della mietitura fosse andato nel Limousin, dove certamente avrebbe rimediato una fetta di clafoutis.
Invece caso volle che il pittore olandese si recasse nei dintorni di Arles, in Provenza, precisamente nella piana della Crau, proprio per riuscire a dipingere dal vero i colori indescrivibili dei campi di grano. Questa pianura era una sconfinata distesa pianeggiante, che Van Gogh stesso descrisse all’amico Émile Bernard come una «piatta campagna dove non c’era niente se non… immensità… eternità».
Van Gogh era profondamente interessato a riprodurre nel modo più verosimile possibile l’atmosfera quasi estiva di giugno inoltrato, il «contrasto del blu contro l’elemento arancione del bronzo dorato del grano», impresa che gli riuscì magistralmente in questo piccolo dipinto, considerato un capolavoro del maestro e da lui stesso considerato il più riuscito, «fa passare tutto il resto in secondo piano».
Per dipingere la serie dei campi di grano l’artista lavorò nella Crau dal 12 al 20 giugno del 1888, en plein air, sotto il sole cocente, finché un’inaspettata tempesta distrusse il raccolto.
Sbocconcellando una fetta del mio clafoutis, mi godo questa incantevole opera.
Vincent Van Gogh – Paysage de Moisson – Arles 1888
La ricetta: il mio Clafoutis alle Ciliegie
per uno stampo piccolo da 20 cm di diametro ho utilizzato:
2 uova
90 g di zucchero (la ricetta originale ne prevede la metà)
70 g di farina
una manciatona di ciliegie (da riempire quasi completamente il fondo della teglia, io ne avevo un po’ meno)
Ho sbattuto le uova con lo zucchero, facendole montare un po’.
Ho aggiunto la farina setacciata, mescolando bene.
Ho disposto sulla teglia ben imburrata le ciliegie lavate accuratamente, senza togliere nocciolo e picciolo.
Ho versato sulle ciliegie, delicatamente, l’impasto di uova e farina.
Ho infornato a 170° per 30 minuti o poco più.
Quando la torta era fredda l’ho cosparsa con abbondante zucchero a velo.

secondi di pesce, secondi piatti, storia & cultura

Il merluzzo sulla tavolozza

Il film La ragazza con l’orecchino di perla di Peter Webber, ispirato al romanzo omonimo di Tracy Chevalier, a sua volta ispirato al dipinto La ragazza col turbante di Jan Vermeer è stato candidato a suo tempo ad un sacco di premi ed una valanga ne ha poi portati a casa… 
Già solo il confronto tra Scarlett Johansson e la fanciulla del quadro stupisce per l’accuratezza dei particolari. Questo fa capire molto sulla cura che è stata messa in questa piccola opera d’arte.
 
 
Tra i tanti premi portati a casa dal film, un bel gruzzolo di riconoscimenti è andato ad Eduardo Serra per la Migliore Fotografia.
 
Secondo me la fotografia, le luci, il succedersi delle inquadrature fanno di questo film un piccolo gioiello. Per tutta la durata, sebbene sia lento, non si percepisce lo scorrere del tempo, ma l’attenzione viene focalizzata sugli sguardi, bellissimi primi piano, intervallati da quadri più ampi.
 
Ognuna di queste inquadrature sembra ispirata dai quadri della tradizione olandese e fiamminga.
 
 
 
Una di queste è proprio all’inizio del film, quando ancora scorrono i titoli d’inizio.
Griet si trova nella sua casa di Delft e sta tagliando la verdura. Non la ammucchia disordinatamente, come una qualsiasi massaia affaccendata farebbe. Lei no, lei la dispone ordinatamente in un piatto come fosse una tavolozza. 
La scena del film in cui Griet affetta e dispone le verdure
La telecamera si sofferma sulle sue mani al lavoro, un lavoro preciso, lento e regolare, nell’affettare e nel disporre, roba che farebbe impallidire i moderni cuochi campioni di velocità. Ma chi ama stare in cucina sa che il piacere di cucinare è anche questo, prendersi i propri tempi, gustare i profumi e i colori, provare abbinamenti e accostamenti, lasciarsi andare a un piacevole flusso di pensieri.
La tavolozza di verdure del film mi è rimasta impressa e l’altra sera mi è tornata in mente, durante quel flusso di pensieri, mentre affettavo le verdure per cucinare il pesce.
 
La mia tavolozza è un po’ più modesta…ma ugualmente ho voluto fotografarla.
Domina il giallo delle patate, messo in risalto dal verde intenso del peperone; poi la sfumatura tenue e violetta della cipolla di Tropea e il rosso dei pomodori che si confonde con quello del tagliere.
 
Ho usato tutte queste verdure per insaporire dei filetti di merluzzo. Alla fine anche questa è un’opera d’arte.
 
la ricetta: Merluzzo alle verdure (per 2 persone)
per circa 250 g di filetti di merluzzo ho usato:
due patate grosse
due cipolle medie
un peperone
due pomodori
olio, sale,
un peperoncino secco
un grosso spicchio d’aglio
due filetti di acciuga 
prezzemolo tritato
vino bianco q.b.
 
Per prima cosa ho pulito e affettato le verdure.
Poi ho messo a soffriggere l’aglio e il peperoncino nell’olio, senza farlo dorare troppo.
Ho tolto la padella dal fuoco e ho fatto sciogliere i filetti d’acciuga nell’olio caldo.
Ho rimesso la padella sul fuoco mentre cominciavo a disporvi a strati le verdure, prima le cipolle, poi le patate, i pomodori e i peperoni, intervallando a ciascuno strato un bel pizzico di sale.
Sopra tutte le verdure ho posato i filetti di merluzzo, irrorato con un filo d’olio, un pizzico di sale e abbondante prezzemolo tritato.
Ho versato vino in abbondanza, perchè è l’unico liquido che si aggiunge, e coperto bene la padella perchè non sfiatasse.
Il pesce cuoce nei vapori di vino e verdure, insaporendosi meravigliosamente.
Ogni tanto bisogna dare una scrollatina alla padella perchè le verdure non si attacchino, aggiungendo, ma solo se occorre, un filo d’acqua.
Il piatto è pronto quando le verdure sono cotte.
Disporre nei piatti un tappeto di verdure miste e sopra i filetti di merluzzo.
 
 
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L’uovo sospeso di Piero e la torta 4 albumi al limone

Dovendo cercare un’immagine artistica che si potesse facilmente collegare alle uova il primo pensiero è andato alla Pala di Brera di Piero della Francesca, intitolata Sacra conversazione.
Piero della Francesca – Sacra conversazione con Santi e Federico da Montefeltro – 1472 circa.
 Questo dipinto rinascimentale, in origine forse collocato nella chiesa di San Bernardino ad Urbino, mi è rimasto ben impresso nella mente dalla prima volta che l’ho visto per tre motivi principali: Federico da Montefeltro, il bambinello che scivola e l’uovo.
Battista e Federico da Montefeltro ritratti da Piero della Francesca
Il faccione di Federico di Montefeltro a cui si devono tra l’altro i palazzi ducali di Urbino e di Gubbio, visto una volta non lo si scorda più!
A proposito del palazzo ducale di urbino Baldassarre Castiglione scrisse: «Federico] edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il più bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni oportuna cosa sì ben lo fornì, che non un palazzo, ma una città in forma di palazzo esser pareva.»
Federico fu un grandissimo mecenate e amico di Piero della Francesca, ma la storia parla di lui anche come di un signore duro e crudelissimo con i suoi antagonisti.
Pare che ricevette in battaglia una ferita all’occhio destro e che da allora si fece ritrarre sempre volgendo l’altro profilo all’osservatore.
Il bambinello che sta sulle ginocchia della Madonna sembra scivolare giù non trattenuto dalle braccia della madre assorta in preghiera.
Questo bambino potrebbe in realtà rappresentare il piccolo figlio di Federico, Guidobaldo, nato proprio in quegli anni, mentre la Madonna potrebbe essere ragionevolemente la personificazione di Battista Sforza, moglie di Federico, morta poco dopo il parto. Alla luce di queste premesse è facile comprendere come Federico da Montefeltro non fosse esattamente un tipo modesto.
E poi c’è l’uovo!!!
Cosa ci fa quell’uovo sospeso alla volta della chiesa? La funzione dell’uovo all’interno delle chiese viene spiegata egregiamente qui .
In pratica, citando il testo del 1284 di Guillaume Durand de Mende, vescovo del XIII secolo, viene chiamata in causa l’antica simbologia dell’uovo di struzzo: secondo una leggenda lo struzzo, smemorato, abbandona le sue uova sotto la sabbia; poi, illuminato da non si sa quale stella, recupera la memoria, ritorna presso di esse e comincia a covarle.
Assimilando questa leggenda alla simbologia mistica cristiana, anche l’uomo, abbandonato Dio a causa del proprio peccato, illuminato all’improvviso dalla luce divina dello Spirito Santo  può ritornare sui propri passi pentendosi e ritornando alla fede.
Secondo un altro filone i mistici medievali ritenevano le uova di struzzo fecondate dalla luce del sole e quindi «Se il sole può far schiudere le uova di struzzo perché una Vergine non potrebbe generare per opera del vero sole?» aveva detto Alberto Magno, riferendosi al mistero dell’Immacolata Concezione.
Il fatto più singolare è che l’uovo sia appeso nell’interno di una volta a cassettoni, presumibilmente la volta di una chiesa, visto che di sacra conversazione si tratta, e sospeso ad una lunga catenella dorata. Possibile che Piero della Francesca si sia inventato di sana pianta questa cosa solo per avere un punto di fuga nella sua architettura prospettica immaginaria e un centro per il gioco di circonferenze che sembra reggere tutta l’equilibrio della composizione?
In effetti nella liturgia antica bizantina viene documentata la presenza di uova appese a catenelle come ornamento di chiese; esse simboleggiano la cura di Dio per il suo popolo.
Antonio Paolucci, grande storico dell’arte, in una delle sue pubblicazioni parla dell’uso diffuso di sospendere fisicamente uova di struzzo all’interno di importanti edifici religiosi, come il duomo o il battistero di Firenze, luoghi che Piero della Francesca conosceva bene. Non si trovano molte fonti sull’argomento, ma se così fosse sarebbe in effetti la prova che l’usanza era effettivamente abituale.
Naturalmente l’uovo, rapportato visivamente alla conchiglia alle sue spalle, potrebbe anche essere assimilato ad una perla che per nascere all’interno della conchiglia stessa non ha bisogno della fecondazione maschile, facendo riferimento all’Immacolata concezione avvenuta nello stesso modo.
Resta che, osservato da vicino, quello è nettamente un uovo, non una perla!
La ricetta: torta ai 4 albumi, con crema al limone e gelatina di limone
Uova che si mangiano e porzioni di uova che restano in frigo quando servono solo i tuorli…questa volta sono rimasti in frigo i tuorli perché ho voluto preparare la torta 4 albumi. Questo tipo di torta, da gustare anche da sola, è leggera e soffice, arricchita dalle mandorle, e una farcitura come la crema al limone è adattissima a darle un tocco in più.
Per la torta quattro albumi (io l’ho presa da Coquinaria, ma in rete si trova un po’ dappertutto!) ho usato:
4 albumi
45 g di mandorle tritate
40 g di farina
125 g di zucchero
80 g di burro
sale
Ho fatto sciogliere il burro a bagnomaria e l’ho lasciato intiepidire.
Ho tritato le mandorle e le ho mescolate alla farina e allo zucchero.
Ho montato a neve gli albumi freddi di frigo con un pizzico di sale.
Ho unito gli albumi alla miscela di farina, mescolando dall’alto in basso, e per ultimo ho aggiunto il burro fuso.
Ho infornato per 30 minuti a 180°C.
Per la crema al limone (senza uova!!) ho usato:
250ml latte
70g zucchero
20g farina
la buccia grattugiata di 1 limone non trattato
80ml di panna da montare
Ho messo a scaldare il latte in un pentolino
In un altro pentolino ho mischiato farina, zucchero e buccia di limone
Ho poi aggiunto qualche cucchiaio di latte a formare una pstella morbida e poi il restante latte, ormai caldo, a filo.
Ho rimesso sul fuoco e mescolato con un cucchiaio di legno finchè non rassoda.
Ho fatto raffreddare la crema e poi aggiunto 80 g di panna montata, zuccherata poco.
Poi ho diviso a metà la torta e sopra il fondo ho messo la crema al limone e poi ricoperto con l’altra mezza torta.
Sulla superficie ho spalmato della gelatina di limone preparata con il succo di un limone e tanto zucchero quanto il peso del succo.
Si fa sciogliere sul fuoco e raddensare. Poi si lascia colare sulla torta, già decorata con fette di limone.
ai fornelli, storia & cultura

Ludwig II di Baviera, un mistero per sempre

Il 2011 è l’anno di Ludwig II di Baviera, nella ricorrenza del 125° anniversario della sua morte.
Ludwig di Baviera è stato il più conosciuto e amato sovrano bavarese, che in vita fece opere stravaganti e dopo la morte conservò un’aura di misteri insoluti. Rimane tutt’oggi per il suo popolo il Re dei bavaresi e qualcuno lo definisce la prima pop star della storia, una figura complessa assimilabile a quella di Michael Jackson o Freddy Mercury.

Ritratto di Ludwig II di Baviera

Ludwig di Wittelsbach nacque a Nymphenburg nel 1845 e visse per quasi tutta l’infanzia presso il castello di Hohenswangau, con un padre impegnatissimo dalle questioni di stato e con una madre incapace di dargli affetto. Il piccolo Ludwig, timido per natura, si rinchiuse sempre più in se stesso, creandosi un mondo su misura. La sua adolescenza fu segnata da un’istruzione debole, un grande narcisismo e moltissima solitudine.

Divenuto re all’improvviso nel 1864 a soli 18 anni, si tirò addosso gli occhi di tutta Europa. Era alto un metro e novantuno, slanciato, con gli occhi azzurro cupo. Il suo fidanzamento con la cugina Sofia di Baviera (la sorella minore della più famosa Sissi) non diventò mai matrimonio, perché Ludwig lo troncò all’improvviso. Anni dopo fecero scalpore i diari in cui appariva evidente l’omosessualità del giovane Ludwig, a lungo combattuta dalla sua ferrea morale di stampo cattolico, che mai gli consentì di vivere una sessualità libera.

Il castello di Hohenswangau, visto da Neuschwanstein

Nel castello di Hohenswangau, al confine meridionale della Baviera, avvenne un incontro che gli condizionò la vita. Lì infatti conobbe personalmente Richard Wagner che già ammirava da tempo. Ludwig aveva ascoltato il Lohengrin a soli 15 anni e con il suo spirito tipicamente sognatore ne era rimasto assolutamente affascinato.
Una volta divenuto re il suo primo desiderio fu quello di richiamare Wagner che anni prima, sovrastato dai debiti, era fuggito all’estero a causa dei creditori; Ludwig lo finanziò, lo installò nel castello di Hohenswangau  e lo mise al suo servizio per la composizione di nuove opere. La musica di Wagner dava vita a quella che era la visione del mondo di Ludwig: gli antichi miti germanici che aveva conosciuto fin dall’infanzia e che popolavano il mondo parallelo nel quale si rifugiava per sfuggire alle regole di corte.

Renoir – Ritratto di Wagner

Wagner, spesato e mantenuto e senza il pensiero dei debiti, aveva promesso di finire l’Anello del Nibelungo in tre anni. Ludwig si innamorò subito del mondo culturale di Wagner, nutrendo anche una sincera ammirazione per il compositore, che considerò però sempre come una persona di rango inferiore. Per il musicista fece costruire il Teatro dell’Opera di Bayreuth, teatro wagneriano per eccellenza, e i pettegoli parlarono addirittura di una relazione amorosa tra i due. D’altro canto Wagner fu sempre tacciato di un certo opportunismo e dall’alto della sua arte considerava Ludwig come suo pari, tanto che proprio per questa ragione a un certo punto fu allontanato.

Elisabetta d’Austria

Ludwig II era un personaggio particolarissimo, romantico per antonomasia, di notte usciva, passeggiava nella notte, scriveva e leggeva, lasciando libera la propria fantasia; di giorno dormiva fino a tardi, cercando di prolungare il più possibile i suoi sogni. Era però vicinissimo al suo popolo da quale era riamato. Sono molti gli aneddoti che narrano di un re gentile e generoso con i popolani, un re da fiaba.

Aveva stretto un particolarissimo rapporto con la cugina Elisabetta d’Austria, Sissi, con la quale condivideva l’insofferenza per l’etichetta di corte e con cui si scambiava lunghe lettere e versi, soprannominandosi l’un l’altra “gabbiano” e “aquila”.
Il 30 novembre del 1870 Ludwig, a letto con un fortissimo mal di denti, ricevette la visita del conte Holnstein, ambasciatore di Bismarck, che gli consegnò la famosa Kaiserbrief, la “lettera imperiale” in cui lo si spingeva ad avallare l’elezione di Gugliemo I come imperatore tedesco. Dopo lunghe trattative il re acconsentì con la sua firma, ma in questo modo rinunciò all’autonomia della Baviera e divenne più spiccato il suo desiderio di costruirsi un mondo di sogno parallelo a quello reale. Inizia l’epoca della costruzione dei suoi castelli. Ludwig abbandona Monaco per diventare Re di un mondo fiabesco.

Il primo castello fu Linderhof, costruito tra il 1869 e il 1879, e dove Ludwig soggiornò più a lungo. Su una preesistenza di terreno risalente al Quattrocento e sulla successiva residenza di caccia, Ludwig voleva creare una residenza per se stesso, ispirata al Petit Trianon di Maria Antonietta. Al piccolo palazzo geometrico fanno da sfondo un sontuosissimo giardino, con fontane e statue e due padiglioni, ispirati al gusto orientaleggiante dell’epoca ed acquistati direttamente a due Esposizioni Universali di Parigi. Un’altra attrazione di Linderhof è la grotta di Venere, una grotta artificiale di stalagmiti, ispirata alla grotta azzurra di Capri, dove il sovrano amava passare le ore. Le innovazioni tecnologiche e i giochi d’acqua non si contano. Ludwig navigava il lago sotterraneo a bordo di una barca a forma di conchiglia mentre cambiavano le correnti e i colori delle luci grazie a marchingegni meccanici.

Veduta di Linderhof con la catena d’acqua retrostante e lo specchio d’acqua davanti

Andy Warhol – Neuschwanstein

Neuschwanstein è il simbolo della Baviera nel mondo. Realizzato poco lontano da Hohenswangau, castello dove Ludwig era cresciuto, venne realizzato su progetto dello scenografo Christian Jank a partire dal 1869. L’idea venne naturalmente a Ludwig dopo la visita alla fortezza medievale di Wartburg in Turingia. Dall’alto dei suoi 965 m domina i paesi di Füssen e Swangau e diversi laghi tra cui il piccolo Alpsee. Sopra la gola del Pöllat vi è un ponte intitolato a Maria, la madre di Ludwig, dal quale si gode la miglior vista del castello.

Walt Disney rimase affascinato dal castello prendendolo a modello per il castello de La Bella Addormentata nel Bosco nel cartone animato e successivamente nei parchi di divertimenti; Andy Warhol, ugualmente incantato, lo fece soggetto di una sua opera.

Veduta di Neuschwanstein

Neuschwanstein visto dal ponte sopra il Pöllat

La terza creazione di Ludwig fu Herrenchiemsee, costruito a partire dal 21 maggio 1878; il re stesso scelse l’ottima posizione, ovvero il centro del lago Chiemsee, la Herreninsel, ospitante un antico convento di monaci agostiniani.
L’ispirazione per Herrenchiemsee gli venne da Luigi XIV, da sempre figura molto amata dal sovrano bavarese, e l’intento era quello di farne una copia Versailles. La facciata nasce infatti per esserne la copia esatta. Il palazzo non fu mai portato a termine a causa della morte prematura del Re, resta solo il blocco centrale.
Gli interni sono ispirati alla reggia francese con influenze ottocentesche suggerite dal sovrano. Al di là delle varie anticamere, la stanza più sfarzosa di tutte è la camera da letto, improntata al cerimoniale di corte francese; stupefacente la Galleria degli Specchi, lunga 98 metri, 25 più di quella di Versailles.
Veduta di Herrenchiemsee

In tutti e tre i castelli creati dal sovrano, così come nelle preesistenti residenze reali vi erano delle sfarzosissime camere da letto, un vero e proprio vezzo per Ludwig, al limite del pensabile per la profusione di ori e decorazioni. Un’altra particolarità, presente a Linderhof e ad Herrenchiemsee era il famoso Tischlein-deck-dich, il tavolo che si apparecchia da sé, un marchingegno direttamente collegato con le sottostanti cucine, che scendeva spoglio e risaliva imbandito perché Ludwig non fosse disturbato dai valletti mentre mangiava.
Il sovrano era sicuramente interessato alle innovazioni della tecniche e a questo riguardo le sue residenze sono dei veri capolavori, con l’utilizzo di ferro nelle strutture portanti e di sistemi di riscaldamento ad aria calda. A Linderhof le cascate esterne e interne alla grotta di Venere  sono accomunate dal complessissimo impianto idraulico, così come le fontane. Inoltre veniva fatto uso dell’elettricità nell’illuminazione delle sale sotterranee e delle slitte con cui faceva le sue escursioni notturne. Inoltre Ludwig praticava personalmente la fotografia.
Molto era improntato al suo desiderio di spettacolarizzare tutto, ma non può essere un caso che nelle sue creazioni vi siano sempre le soluzioni tecniche più innovative e che egli stesso si fece promotore in Baviera di cultura e scienza nella fondazione dell’Accademia di arti applicate e nell’Istituto di Tecnologia (Politecnico).
interno del teatro di Bayreuth

Intanto il 22 maggio 1872 era stata posta la prima pietra del Teatro di Bayreuth, destinato ad ospitare esclusivamente le rappresentazioni delle opere wagneriane. Ludwig avrebbe voluto costruire per Wagner un grandioso teatro a Monaco che si affacciasse sul fiume Isar, a metà strada tra il Parlamento e l’attuale Friedensengel, ma il Consiglio dei Ministri lo impedì e anni dopo vi trovò posto una statua di Ludwig II.

A partire dal 1877 si fece evidente il cattivo stato delle casse statali, a causa delle forti spese sostenute da Ludwig per le sue costruzioni.
L’ultimo castello sognato dal sovrano avrebbe dovuto essere la rocca di Falkenstein, ma la sua prematura morte lo impedì. 
Nel gennaio del 1886 venne presentato il progetto, ma l’8 giugno i dottori von Gudden, Hagen, Hubrich e Grashey firmarono una perizia, dichiarando il re malato di mente. La perizia era sicuramente avvalorata dalla malattia mentale che aveva colpito anche il fratello di Ludwig, Otto, ma i medici non visitarono mai personalmente il sovrano e, per stilare la perizia, si basarono sulle testimonianze di altri nobili e servitori di palazzo. La reggenza fu affidata allo zio di Ludwig, il principe Liutpold.
Ludwig fu rinchiuso nel castello di Berg, sul lago di Starnberg, con le sbarre alle finestre e guardie alle porte.
Nel pomeriggio del 13 chiese di fare una passeggiata e, visto il suo stato di tranquillità, il medico glielo accordò, accompagnandolo senza alcun seguito o scorta.
Verso sera, dato che non erano ancora rientrati, fu organizzata una spedizione.
I corpi del sovrano e del suo  medico furono ritrovati poco lontano dalla riva verso le 23.
Le ipotesi su questo tragico evento furono molte, ma nessuna chiarì il mistero. Una delle frasi attribuite a Ludwig è: <<Sono un enigma e voglio rimanere un enigma per sempre.>>

I funerali di stato si svolsero il 19 giugno con la più grande partecipazione di folla che la Baviera avesse mai visto. Intorno alla bara fiori a non finire e fra le dita della mano destra di Ludwig un bouquet di gelsomini, dono di Sissi.

La ricetta: Maccheroni ai funghi e speck alla birra.

Una ricettina veloce veloce, neanche tanto bavarese, se non fosse per la birra, ma che mi è sembrata adatta al clima incerto e freschino di questi giorni…sembra ottobre…

Gli ingredienti sono funghi coltivati (200 g), qualche fetta di speck (4fette), prezzemolo e mezzo bicchiere di birra.

Ho pulito e affettato i funghi coltivati, e li ho messi a rosolare con uno spicchio d’aglio.
Intanto ho messo a bollire l’acqua per la pasta.
Una volta che i funghi cominciavano ad ammorbidirsi ho aggiunto la birra e ho lasciato finire di cuocere, per ultimo ho aggiunto il prezzemolo tritato.
Una volta cotta la pasta l’ho passata per un minuto in padella con i funghi aggiungendo anche lo speck tagliato finemente.

ai fornelli, storia & cultura

Perché non si deve seminar zizzania…e il pane veloce da preparare in casa

Maestro dei Jeans – Bambino con tozzo di pane – XVIIsec.
Parliamo di dati raccolti in Piemonte alla fine del ‘700, ma per quanto riguarda i secoli precedenti le condizioni non dovevano essere molto diverse.
Il consumo giornaliero di pane si attestava mediamente sui 500 g pro capite, considerando chi poteva permetterselo, ma poteva raggiungere e superare il chilogrammo a testa.
Il pane, successivamente surclassato dalla pasta, era la base dell’alimentazione e, soprattutto in città, dove la gente non poteva direttamente coltivare un orto, rappresentava la quasi totalità delle derrate alimentari per la popolazione.
Non bisogna però pensare ad un pane simile a quello che conosciamo oggi. Raramente si trattava di pane di frumento, il cosiddetto pane bianco, cibo delle classi abbienti.
Ai poveri del Sud Italia andava meglio, perché i pani popolari erano prodotti con crusca di frumento.
Invece, spostandoci verso nord, per far volume nel macinato venivano aggiunti ghiande, castagne, tutta una serie di cereali meno pregiati e una quantità incredibile di graminacee che oggi sono semisconosciute e non più coltivate neppure per l’alimentazione del bestiame. Si fa l’esempio del miglio o della saggina, in Piemonte chiamata melega, da non confondere con la melia, la farina di mais).
Diffusissima anche la farina di segale, oggi utilizzata per produrre pagnottelle nere, pregiate e più costose del pane comune, che vanno di gran moda sulle tavole colte. Un tempo però il pane nero di segale era tutt’altro che ricercato e decisamente poco appetibile perché più compatto e pesante.
Alcune volte la segale non era affatto sana e portava in sé un rischio.
Era il caso della segale cornuta, dove la spiga veniva attaccata da un fungo molto tossico, la Claviceps Purpurea, contenente dell’acido lisergico (la base dell’LSD!!) che provocava forti allucinazioni, ma anche convulsioni simili all’epilessia e cancrena alle estremità, fino alla mummificazione degli arti. In alcune zone la malattia è indicata come fuoco di Sant’Antonio e assimilata a varie forme di herpes, ma per capirne la gravità basti pensare che a Salem, durante il periodo in cui scoppiò la grande caccia alle streghe e si verificarono numerosissimi casi di allucinazioni e visioni sataniche è dimostrato un enorme consumo di segale molto probabilmente infestata. Si tratta di un vero e proprio evento di storia popolare.
I contadini del Nord Europa, dove si consumava più pane di segale, ammalatisi di questo male si muovevano verso i santuari di Sant’Antonio in Italia per chiedere la grazia ed essere guariti dalla malattia; man mano che si spostavano verso sud cambiavano alimentazione, abbandonando il pane di sola segale infestata e passando a pani con più alta percentuale di frumento, in questo modo i sintomi si attutivano e loro credevano di essere stati miracolati.

Sebbene assai più circoscritto, un fenomeno simile si verificò in Piemonte con il loglio. Si dice “separare il grano dal loglio” intendendo “separare le parti di qualità da quelle dannose”.
Non tutto il loglio è dannoso; si tratta di una pianta erbacea con piccole spighette disposte a formare un’infiorescenza piatta lunga dai 30 ai 50 cm. Comunemente si tratta di una pianta foraggera, spesso impiegata in prati misti per aumentare la produzione di farina, ma anche qui il rischio è a portata di mano.
Un tipo particolare di loglio, il Lolium Temulentum, è anche detto Loglio Ubriacante. Comunemente conosciuto come zizzania, provocava intossicazioni anche di grave entità con vere e proprie alterazioni dello stato di coscienza. 

Il Loglio (a sx) e la Zizzania (a dx) – immagini da Wikimedia Commons

Come nella segale cornuta anche nella zizzania l’intossicazione è dovuta all’infestazione delle spighe da parte di funghi, sempre produttori di alcaloidi tossici, ma un po’ meno della Claviceps Purpurea, che producevano piuttosto effetti simili a quelli dell’alcool.
E’ noto il detto “seminar zizzania” con cui si intende mettere discordia, creare con malizia e cattiveria situazioni di conflitto all’interno di un gruppo.

Da uno dei libri più antichi del mondo si può evincere la parabola della zizzania. 
Un uomo seminò del seme buono nel suo campo ma un nemico di notte  vi sparse la zizzania. I servi ne accorsero solo alla fioritura, poiché la zizzania ha fiori rossi. Ma era difficile a quel punto togliere l’erba cattiva senza rischiare di sradicare il grano. Il padrone allora suggerì ai servi di farlo solo dopo il raccolto, cogliendo prima la zizzania e legandola in fasci per bruciarla, poi il grano da riporre nel suo granaio. Un chiaro riferimento al giorno del giudizio, dove i cattivi saranno separati dai buoni.

Lasciamo ora perdere le erbe cattive e passiamo alla ricetta di oggi:

Pane velocissimo in due ore
Il profumo del pane che si sprigiona dal forno di casa è per me un vero miracolo… tanto più se la ricetta è velocissima e facile, e non impegna più di dieci minuti.
Otterrete delle pagnotte con una crosta croccantina e un po’ umide all’interno, con dei bei buchi di lievitazione grandi grandi.
La ricetta originale l’ho trovata qui, ma a seconda di ciò che volete aggiungere al vostro pane potete modificarla leggermente. Per ora ho fatto del pane bianco con semi di sesamo e con semi di papavero, del pane al finocchio, con i semini nell’impasto e del pane ai cinque cereali.
Per le farine integrali bisogna mischiare la farina con quella bianca ed aggiungere un po’ più di acqua.
Io, rispetto alle dosi originali proposte da Cookaround, ho sempre fatto metà impasto, sufficiente per 2 pagnottelle medie oppure un pagnottone più grande oppure 8 paninetti:

250 g di farina “0” (oppure 150 g di farina ai 5 cereali e 100 g di farina bianca)
185 g acqua (190 g con farine integrali)
1/3 di panetto di lievito
½ cucchiaino di miele
1 cucchiaino di sale

Ho sciolto il lievito nell’acqua tiepida insieme al miele.
Ho messo la farina in uno scodellone largo e ho cominciato ad aggiungere l’acqua e lievito, mescolando velocemente con una forchetta.
Si forma una pastella morbida, quasi fluida e poco lavorata.
Per ultimo ho aggiunto il sale e, se volete, potete aggiungere qualche seme nell’impasto (o le olive, o le noci, o quel che vi pare).
Ho coperto con pellicola trasparente e ho lasciato lievitare al caldo per 2 ore.
Trascorso questo tempo,  ho fatto scaldare il forno a 230° (ma dipende da quale forno avete: il mio è elettrico e ventilato, ma piccolo, quindi tende a surriscaldare).
Ho fatto slittare la pasta nella teglia coperta da un foglio di carta forno; è importante che il lato superiore dell’impasto resti rivolto verso l’alto, perchè si facilita la crescita in forno.
Se volete potete spennellare il pane con olio. Io ho aggiunto solo dei semini in superficie.

Lasciar cuocere per 30 minuti, e poi far raffreddare gradualmente su una gratella.

Pane bianco con semi di sesamo e di papavero
i grandi alveoli di lievitazione
Pane ai 5 cereali
Più compatto ma anche più profumato

Aggiornamento del 8 giugno 2001: pane alle olive.

Aggiornamento del 11 giugno: panini al papavero, semini nell’impasto.

Aggiornamento del 14 giugno: panini alle cipolle rosse di Tropea. (aggiunte a pezzettini nell’impasto prima della lievitazione.
ai fornelli, storia & cultura

Machiavelli e la Finocchiona

Questa è l’immagine più conosciuta di Niccolò Machiavelli, ma il ritratto dipinto da Santi di Tito riproduce davvero le sembianze dello scrittore e politico fiorentino?
Santi di Tito, artista fiorentino, nacque a Borgo San Sepolcro nel 1536, quando Machiavelli era già morto da 9 anni.
Probabilmente Santi di Tito si ispirò al busto conservato a Palazzo Vecchio, in quello che doveva essere l’ufficio dello statista, probabilmente a sua volta modellato sulla maschera mortuaria.
Ebbene, degli altri dipinti che ritraggono Machiavelli, anche in età più avanzata, nessuno sembra penetrare come questo la natura misteriosa del politico e letterato che incarnò l’uomo rinascimentale per antonomasia, le labbra strette in un enigmatico sorriso, lo sguardo intelligente che cerca l’osservatore senza reticenza, enfatizzato dall’ampia fronte.
Si narra che Niccolò Machiavelli fosse anche un buongustaio e non si facesse mai mancare a tavola qualche fetta di finocchiona e che poi intrattenesse i suoi convitati con narrazioni sull’origine e gli scopi di questo particolare salume.
La finocchiona nasce nella Firenze medievale; la tradizione vuole che fosse preparata con gli scarti di altri salumi, rifilature del prosciutto, guanciale e altro grasso di maiale, poi fortemente aromatizzati con sale, pepe, aglio, vino e naturalmente semi di finocchio che le conferiscono il caratteristico aroma e che si dice venissero utilizzati in origine per mascherare l’odore particolarmente forte.
Un detto dei norcini del Chianti fa riferimento alla credenza che questo salume mascherasse gli altri sapori in abbinamento; pare infatti che il termine infinocchiare derivi proprio dalla finocchiona che i contadini facevano assaggiare a coloro che andavano ad acquistare vino sfuso. Il seme di finocchio, dall’aroma particolarmente forte, anestetizzava le papille gustative, facendo passare per buono anche un vino mediocre.
 La finocchiona viene tuttora preparata e insaccata in budello naturale e fatta maturare per circa una settimana in ambiente riscaldato, aerato più volte al giorno. Dopo questo periodo necessita di una stagionatura di almeno cinque mesi in un luogo fresco prima di venir consumata.
Particolarmente rinomata è quella della zona del Chianti, parte senese, e delle comunità montane di Rufina e Pontassieve.
Esiste anche una variante dall’impasto più magro, meno compatto e dalla più breve stagionatura, chiamato sbriciolona, ma si tratta di un prodotto di impronta decisamente più industriale.
Di difficile abbinamento per il suo gusto forte, tradizionalmente si accompagna ad un Chianti dei Colli Fiorentini giovane “governato all’uso chiantigiano”, ovvero con rifermentazione per aggiunta di mosto d’uva appassita.
[Fonti:
Antonella Imbesi, Il meglio dei salumi italiani, in Sapori e piaceri, anno 8, pp. 84-93.
http://www.taccuinistorici.it/ita/news/medioevale/dsalumi—carni/FINOCCHIONA-toscana.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Niccol%C3%B2_Machiavelli
http://www.toscanaitalia.it/cosa-vedere/cucina-tipica-toscana/prodotti-tipici-toscani.html]
ai fornelli, storia & cultura

25 maggio – Fish & Chips Day (ma il mio è homemade!!!)

Oggi, 25 maggio, in Irlanda si festeggia il Fish&Chips Day.
Si tratta di un’iniziativa nata per far conoscere le origini di questa preparazione che sembra affondare le radici nella cucina anglosassone delle coste e che invece vanta una discendenza tutta italiana. Infatti nel 1880 si formò la prima comunità di immigrati italiani in Irlanda; provenivano da Val di Comino, provincia di Frosinone, ed introdussero la frittura di pesce in pastella, vendendola poi agli angoli delle strade avvolta in cartocci insieme alle patate fritte.
Non solo pizza…è un sollievo, anche se ricordiamo che curiosamente anche la pizza nasce come cibo da mangiare in strada, senza tanti complimenti…il cibo prêt à porter è di sicuro successo!
Non mi stupisce che gli italiani siano arrivati anche in Irlanda a portare qualcosa della nostra tradizione culinaria… mi stupisce che in quegli anni andassero proprio in Irlanda dove non si navigava nell’oro, tutt’altro… ma tant’è!!!
il nostro itinerario
Questa ricorrenza è anche l’occasione per dedicare un post a questa bellissima terra e per ricordare il mio viaggio dell’anno scorso, viaggio di scoperte e di emozioni continue in un luogo che non può non restare nel cuore.
Anche oggi mi porto dietro il chiasso di Dublino e la sua poesia, il vento di Galway, i colori del Connemara, il silenzio di Inis Mor, la musica di Doolin, lo spleen delle Cliffs of Moher, i contrasti di Limerick, i profumi di Cork, i colori di Kinsale, l’impronta della storia a Cashel e Cahir, l’aspettativa sportiva di Kilkenny, e solo chi ha visitato quei luoghi mi può capire da una sola parola.
Pubblico qualcuna delle mie foto dell’agosto scorso… con un velo di malinconia…e poi largo alla ricetta del Fish&Chips…a modo mio!
I mille volti di Dublino
Galway, città sul mare e mare in città
uno sguardo sul Connemara
Kilemore Abbey, al centro del Connemara
Inis Mor, la più grande delle Aran Island
silenzio alle Aran
uno sguardo sull’Atlantico dal Dún Aengus
il Clare fatato
Vertigini alle Cliffs oh Moher
Breve sosta a Limerick
Cork, ventosa e affascinante
Le maree e le piccole case colorate di Kinsale

I laghi di Killarney, nel Kerry
Muckross House
In punta di piedi dentro Cashel
Uno sguardo su Cahir dalle mura del castello
Kilkenny, piena di storia
La ricetta: Fish & Chips Homemade

Quei signori di Val di Comino non avevano la friggitrice, né le patate surgelate, né la maionese in bustina… Quindi presumo avessero un bel da fare a preparare fish & chips tutto il sacrosanto giorno.
Anche con le facilitazioni elettriche odierne, toglietevi dalla testa di risolvere il tutto in 10 minuti!!!

Io ho suddiviso il lavoro in quattro (4!!!) fasi.

1. La salsa
1 uovo
125 ml di olio di semi
il succo di mezzo limone
sale
1 vasetto di yogurt bianco intero
1 cucchiaino di timo
pepe

Si tratta di una maionese fatta a mano corretta con lo yogurt: nell’uovo intero ho messo un pizzichino di sale, ho mescolato per un minuto poi ho cominciato ad aggiungere l’olio di semi di mais a goccia a goccia sempre mescolando. Poi con la velocità minima del frullatore ho continuato a montare, aggiungendo l’olio a filo.
Quando la maionese è diventata solida ho aggiunto il succo filtrato di mezzo limone e ho aggiustato di sale. Poi ho messo in frigo.
Prima di portare in tavola ho mischiato 4 cucchiai di maionese con 2 di yogurt intero, un cucchiaino di timo e una spolverata di pepe.

2. Le patate (quantità a scelta…ma più sono e meglio è!!!)

Ho scelto il tipo a buccia rossa, più adatto ad esser fritto. Le ho lavate e sbucciate, tagliate a listarelle lunghe e messe in frigo, mentre preparavo la salsa.
Le ho riprese e ho fatto il primo passaggio in olio bollente di semi di arachidi, devono essere tolte che sono ancora bianche. Si lasciano intiepidire e intanto si passa al pesce.
Poi si riprendono e si fa una seconda frittura, che darà croccantezza, facendole dorare un po’ e salando alla fine.

3. La pastella
100g di farina
100 ml di birra
1 uovo
sale

Ho mischiato la farina con il tuorlo d’uovo, aggiungendo pian piano la birra. Ho lasciato riposare per dieci minuti, poi ho aggiunto l’albume montato a neve con un pizzico di sale.

4. Il pesce
per 2 persone ho usato 250 g di merluzzo decongelato
Ho asciugato i filetti e li ho passati nella farina, poi li ho bagnati abbondantemente nella pastella e li ho messi a friggere, mentre le patate completavano la seconda friggitura in un’altra padella.

Ho composto il piatto e…   goile maith ar chor ar bith!!!

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