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Excursus semiserio su ceci e porri … e pappardelle alle vongole su passatina di ceci

B.Thorvaldsen, busto di Cicerone
Questo signore è Marco Tullio Cicerone, compagno immancabile dei nostri incubi da liceali.
Il suo nome si dice derivi da cicer, il cece, perché pare che un suo antenato avesse un’escrescenza a forma di cece vicino al naso. Insomma aveva un qualcosa che la nostra lingua “neolatina” chiama comunemente porro… trovo che sia curioso che noi definiamo volgarmente con il nome di un vegetale ciò che i latini definivano con il nome di un altro vegetale commestibile. Eppure, se vogliamo, il cosiddetto porro assomiglia molto di più a un cece che a un porro… e il porro (il vegetale intendo) non ha la sostanza del suo amico cecio.
Si dice “non valere una buccia di porro”, e la locuzione “piantar porri” significa gingillarsi…un po’ quello che viene popolarmente indicato con pettinare le bambole o far ballare la scimmia; peggio ancora “piantare un porro a qualcuno”: significa ingannarlo!!!
la strega di Biancaneve con il suo indimenticabile porro

Per alcune culture il porro (quello somigliante a un cece) che spunta sulle mani e sul viso è indice di malocchio e i modi per eliminarlo sono svariati ma legati a rituali che comportano l’utilizzo di altri legumi e cereali – e non di porri o di altre forme di cipolla – curiosamente.

Alcune tradizioni popolari italiane prescrivono ad esempio di passare sopra il porro dei fagioli, che poi vengono gettati in un posto dove la persona con i porri non deve passare più. Si crede che come marciscono i fagioli, così  il porro si secca e cade, per il concetto omeopatico del similia similibus curantur.
Nella provincia di Avellino viene ancora praticato un rito che utilizza i nodini dei fili di paglia (i curmi in dialetto) per eliminare gli indesiderati porri (carnosi!!).
Si tocca col nodo il porro, e si pronunciano le seguenti parole:
nfracetate curmi, come nfracetano gli puorri, ‘nfracetate puorri, come nfracetano gli curmi
 (Marcite, curmi, come marciscono i porri, marcite, porri, come marciscono i curmi)
Come avveniva con i fagioli il nodino di paglia deve poi essere gettato in un pozzo a marcire e, come marcisce la paglia, così si seccherà il porro.

Ma parliamo della pianta, che è meglio!

L’imperatore romano Nerone, che non brillava per simpatia, fu soprannominato “il porrofago” perché era ghiotto di porri: li utilizzava in gran quantità per schiarirsi la voce.
Il porro in cucina dona sapore ad ogni brodo, ma di suo non è molto saporito… possiamo farci un risotto dolciastro o renderlo compagno di qualche altro gusto forte. Bisogna però riconoscergli 5000 anni di storia – da alcuni studiosi è ipotizzata la sua origine celtica – e la virtù di aver aiutato, pur essendo di poca sostanza,  a superare più di una carestia durante il Medioevo.
cece nel suo baccello

Il cece è altrettanto antico, ma di tutt’altra pasta. Vanta un’origine irachena risalente all’età del bronzo, ed è conosciuto dagli Egizi e nell’Antica Grecia e nominato anche nella più antica opera di letteratura della storia, la Bibbia. Utilizzato in tutti i paesi del mediterraneo e rinomato per la sua carica proteica, il latino cicer deriva dal greco kikis che significa forza e l’appellativo arietinum allude all’ariete, perché con un po’ di fantasia, si può scorgere il profilo di un ariete nella forma del cece.

con un po’ di fantasia si può riconoscere nel cece la sagoma di una testa di ariete
Senza fantasia alcuna, ma con i dati alla mano si può dire che si tratta del terzo legume più coltivato al mondo, dopo soia e fagiolo. In Italia è utilizzato soprattutto al sud come condimento per la pasta e in Liguria, dove i piatti più peculiari sono farinata e panissa (la ligure, da non confondere con quella vercellese che è tutta un’altra cosa e non c’entra nulla con i ceci.) Sempre originario della Liguria è lo zimino di ceci, una specie di minestra di verdura. Il nome, solo quello, arriva via mare fin nel Sassarese, ma gli ingredienti sono completamente diversi.
Dalla cucina mediorientale sono arrivati anche da noi il falafel e l’hummus ebraico e libanese; il gusto muta, a causa delle spezie, ma la corposità rimane quella.

È raro che il cece non piaccia, perché il gusto è morbido e sapido; io trovo che sia eccezionale abbinato al pesce, cibo galenicamente freddo che ne tempera il calore.
Ricordando il classico partenopeo di pasta fagioli e cozze, io, in un impeto di creatività, ho abbinato i ceci alle vongole e il risultato è stato straordinario.
La ricetta: pappardelle alle vongole su passatina di ceci (dosi da 2 a 4 persone)
400 g di ceci lessati
1 pezzo di sedano, carota, cipolla (o porro!) per fare un soffritto
peperoncino secco
1 bicchiere di vino bianco
70 g di vongole conservate in acqua (se volete prenderle fresche meglio ancora!!)
1 grosso spicchio d’aglio
1 pomodoro maturo
olio evo
sale
Preparazione:
In un pentolino ho messo 1 spicchio d’aglio, un pezzo di carota, un pezzo di sedano, 1 pezzo di cipolla, 1 peperoncino essiccato in 2 cucchiai d’olio evo e ho fatto soffriggere leggermente. Ho aggiunto i ceci, li ho rosolati e ho sfumato con mezzo bicchiere di vino bianco e poi ho lasciato insaporire aggiungendo la loro acqua di bollitura.
Ho aggiustato di sale.
Nel frattempo in una padella ho rosolato un grosso spicchio d’aglio e poi ho aggiunto le vongole, le ho fatte insaporire aggiungendo mezzo bicchiere di vino bianco e un pomodoro tagliato a dadini. Regolato di sale e aggiunto acqua per far proseguire la cottura.
Intanto ho messo a bollire l’acqua della pasta.
Mentre la pasta cuoceva ho liberato i ceci di tutte le verdure, ne ho preso metà e messo insieme alle vongole a girare sul fuoco ancora per qualche minuto, l’altra metà l’ho frullata fino a farne una crema vellutata a cui ho aggiunto un bicchiere d’acqua calda per mantenerla fluida.
Una volta che la pasta era cotta, l’ho fatta saltare velocemente in padella con vongole e ceci, senza farla asciugare. Poi ho messo nei piatti una mestolata di passata di ceci calda e sopra la pasta con il condimento di ceci e vongole e completato con una spolveratina leggera di pepe.

Abbinamento: Erbaluce di Caluso 2009, Azienda Agricola Orsolari.

dolci, storia & cultura, torte

Gerard Ter Borch – Donna che sbuccia le mele (e la torta di mele caramellata alla francese!)

Gerard Ter Borch – Donna che sbuccia le mele – 1650 circa
 
 
 
Gerard ter Borch nacque nel 1617 a Zwolle nei Paesi Bassi. Cominciò a disegnare all’età di 8 anni e fu allievo di suo padre Gerard detto il Vecchio.
 
Dal 1632, dopo un breve soggiorno ad Amsterdam dove fu incoraggiato da diversi artisti, entrò nello studio di  Pieter de Molyn, ad Harleem, dove rimase fino al 1635, e da cui acquisì il gusto per la semplicità della composizione.
 
Nel 1635 si mise in viaggio visitando prima Londra e successivamente la Germania, la Francia, la Spagna e l’Italia. Nel 1641 si hanno sue notizie a Roma dove dipinse il piccolo ritratto su supporto di rame Jan six and the young lady.
 
Dopo il 1648 venne invitato a Madrid presso Filippo IV, dove poté studiare lo stile di Velasquez, ma a causa di un intrigo di corte presto si vide costretto a tornare in Olanda.
 
Si sposò nel 1654 con una delle sue nipoti a Deventer, dove divenne il borgomastro e dove i notabili della città si disputarono l’onore di farsi fare un ritratto da lui.
 
Morì a Deventer nel 1681.
 
 
 
Ter Borch fu un eccellente ritrattista, ma ancor di più pittore di genere, dedicandosi principalmente a riprodurre scene di vita domestica e familiare. Riprodusse con uno stile estremamente fedele la gente del suo tempo, dando particolare evidenza all’espressività dei personaggi, senza alcuna traccia di leggerezza o grossolanità.
 
Egli raggiunse l’eccellenza nella riproduzione di tessuti e di drappeggi, del rilucere di un vaso d’argento o nel rendere la trasparenza di una coppa di cristallo o la texture di un tappeto. I suoi colori sono sempre vibranti ed è evidente l’armonia della luce.
 
 
 
 
 
[Fonti:
 
 
Kunsthistorisches Museum, in Musei del Mondo, collana diretta da Carlo Ludovico Ragghianti, Mondadori, pp. 142-143.]
 
 
 
Il dipinto, di data incerta, ma appartenente alla piena maturità dell’artista, rappresenta una scena di intimità domestica, dove una donna sbuccia delle mele davanti allo sguardo attento di quello che potrebbe essere il figlioletto.
 

Ter Borch non si sofferma su molti particolari, ma la sua trattazione è quasi impressionista ante litteram, vista la morbidezza del colore e della luce.

 
L’attenzione dell’osservatore si sofferma principalmente sul triangolo formato dagli sguardi della donna, verso le proprie mani e del bambino verso il volto della madre. Infatti ciò che mi colpisce è il fatto che il bimbo, vero centro geometrico dell’opera, non stia aspettando le mele, quanto piuttosto sia in attento ascolto di ciò che la madre gli sta raccontando. La luce evidenzia la gota del bimbo dandogli un’espressione di morbida tenerezza.

 

Gli altri oggetti nella stanza fanno da cornice alla scena principale. Le mele nel piatto di ceramica, rese con fedeltà ma senza cadere nella maniera, e sul tavolo una lunga buccia di mela; il candelabro d’argento, anch’esso luccicante sotto i raggi di luce; la tovaglia di velluto scuro.

 
 

Ter Borch dimostra la sua perizia anche nel rappresentare l’abito con bordi di pelliccia della donna. La stoffa manda bagliori dorati e le bordure chiare sono rese con tale maestria da sembrare a rilievo.

 

Ai piedi della donna un altro particolare narrativo: il cesto con la biancheria da ricamare o rammendare, con la grossa scatola del cucito, attende che tutte le mele siano state sbucciate.

 

 
 
 
 
 

La ricetta: Torta di mele caramellata alla francese

 
Ho trovato questa idea su un blog francese e subito mi è sembrata di una golosità straordinaria e quindi l’ho voluta riproporre modificando un po’ gli ingredienti.

 

 
 

 

 
 
 
 
In Francia hanno una cosa, chiamata sucre glace, che viene utilizzato per fare il caramello. Altro non è che zucchero a velo, addizionato di fecola, così che il caramello rapprenda.
 
Non avendo questo prodotto, ho utilizzato dello zucchero normale e dopo averlo fatto caramellare con l’acqua ho aggiunto la maizena per far inspessire lo sciroppo.
 
 
 
 
 
Per una tortiera di 23 cm di diametro occorrono:
 
 
 
Fondo della torta:
 
1 pasta sfoglia pronta
 
qualche cucchiaino di zucchero
 
 
 
Mele:
 
4 mele piccole
 
25 g di burro
 
qualche cucchiaio di zucchero di canna
 
 
 
Caramello:
 
200 g di zucchero
 
½ bicchiere d’acqua
 
2 cucchiaini colmi di maizena
 
½ bicchiere di latte intero (o panna, ma io non ce l’avevo)
 
30 g di burro
 
1 pizzico di sale
 
 
 
 
 
Fondo della torta:
 
Ho messo la sfoglia in una teglia, arrotolando un bel bordo e colmandola di fagioli e l’ho fatta cuocere a 180° per 20 minuti. Poi ho tolto i fagioli e spolverato di zucchero il fondo e rimesso in forno per qualche minuto ancora, per renderla croccante.
 
 
 
Caramello al latte:
 
In un pentolino ho fatto sciogliere lo zucchero con l’acqua a fuoco lento, aggiungendo dopo la maizena. Poi fuori dal fuoco, ho aggiunto il latte e il burro e mescolato ancora per un po’, aggiungendo anche un bel pizzico di sale.
 
 
 
Mele:
 
Le ho lavate, sbucciate, tagliate a fettine e irrorate di succo di limone. Poi le ho passate in padella con il loro succo e qualche cucchiaio di zucchero di canna e 25 g di burro. Quando le mele avevano perso un po’ del loro succo, le ho messe nel fondo della torta, prima preparato e ho irrorato con un po’ di caramello al latte.
 
Ho rimesso in forno il tutto per ancora 1o minuti e infine fatto caramellare per qualche minuto sotto il grill.
 
 
 
Per servire, versare nel piattino qualche cucchiaiata di caramello al latte, tiepido, con sopra la fetta di torta e (se li avete) qualche confetto sbriciolato (io ci ho messo pezzettini di mandorla e di cioccolato).

 
 
 
 
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Gelatine alla carota ripiene di gorgonzola

«Questo formaggio è magico, tra un paio d’anni diventerò l’uomo più conosciuto al mondo!» così disse Piermarco Bergamo, lo scopritore del gorgonzola, intorno alla fine del X secolo, in una taverna nei pressi di Milano.
Si sbagliava: il formaggio da lui inventato divenne il più conosciuto al mondo, mentre di lui si perse ogni traccia.

La ricetta: Gelatine alla carota ripiene di gorgonzola

La ricetta l’ho presa qui, e l’ho leggermente modificata, ma la sostanza rimane quella! Nel ripieno ho messo del gorgonzola a pasta semidura, il cui sapore contrasta piacevolmente con la dolcezza della gelatina di carote; infine ho guarnito il cubetto con una spolverata di pepe nero.

Per 9 cubetti ho utilizzato:
350 g di carote
100 g  di gorgonzola

4 fogli di colla di pesce
sale
2 noci
pepe nero
crema di aceto balsamico (o aceto balsamico!)

Preparazione:
Ho pelato e cotto le carote a pezzetti, poi le ho frullate, con un po’ della loro acqua, fino ad ottenere una crema.
Ho aggiustato di sale.
Poi ho suddiviso il composto in due parti.
Ho ammorbidito 2 fogli di gelatina in un po’ d’acqua fredda, per 10 minuti; poi l’ho fatta sciogliere velocemente sul fuoco con un cucchiaio d’acqua e l’ho mischiata ad una metà di crema di carote.
Ho messo il composto in un recipiente quadrato, precedentemente rivestito di carta da forno bagnata e strizzata, e messo in frigo per almeno due ore.
Poi ho tagliato il gorgonzola in 9 cubetti, l’ho disposto regolarmente sopra la gelatina di carote, che si è nel frattempo rappresa, ed infine ho ricoperto il tutto con la seconda parte di crema di carote, amalgamata alla gelatina restante (2 fogli) con lo stesso procedimento di prima.
Di nuovo in frigo, questa volta fino a pochi minuti prima di servire.
Tagliare il panetto ottenuto facendo attenzione a non beccare il ripieno, e spolverare leggermente ogni cubetto con pepe nero.
Ho decorato il piatto con un giro di crema di aceto balsamico e delle noci sbriciolate.

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David Teniers il Giovane – Interno di Cucina (1644)

David Teniers il Giovane – Interno di Cucina – 1644 – immagine tratta da Wikimedia
L’autore di questo dipinto è David Teniers detto Il Giovane, nato ad Anversa il 15 dicembre 1610 in una famiglia di artisti.
Il padre, David il Vecchio, aveva altri tre figli pittori; all’epoca chi mandava un figlio come apprendista spesso doveva pagare l’artista che lo ospitava e gli insegnava il mestiere, quindi non è così strano che tutti e quattro i figli di David il Vecchio abbiano seguito le orme del padre nella pittura, ma David fu quello maggiormente dotato artisticamente.
Dal padre apprese lo stile di moda all’epoca ispirato all’arte di Adam Elsheimer, pittore paesaggista più in voga del periodo. Al tempo stesso David conobbe la pittura di Pieter Paul Rubens, all’apice del suo successo.
Ricercando l’innovazione si avvicinò alla pittura di Adriaen Brouwer, che rappresentava scene di vita quotidiana, e divenne anch’egli pittore di genere, ritraendo scene rustiche casalinghe o di taverna, feste paesane e laboratori, solo secondariamente interessandosi alle scene sacre. Dell’opera di David colpisce la caratterizzazione dei personaggi e la vena umoristica o addirittura grottesca nel rappresentarli.
Nel 1632 fu ammesso alla potente Gilda di San Luca.
Il suo periodo più produttivo va dal 1633 al 1640, periodo in cui, però, non si distinse molto dallo stile del padre.
Nel 1637 sposò Anna, figlia di Jan Bruegel e nipote di Pieter Bruegel il Vecchio, unendosi ad un’altra famiglia di artisti ed assimilando in alcuni suoi quadri l’impronta di Jan Bruegel.
I critici sostengono che le sue creazioni più originali e significative siano più tarde, come ad esempio Il figliol Prodigo e i Cinque Sensi, risalenti all’incirca al 1645. Aveva intanto sviluppato uno stile personale, che collegava toni chiari a colori più caldi. I temi da lui prediletti si diversificarono, ed egli realizzò, oltre alle scene rustiche, utilizzate anche come base per la creazione di arazzi, quadri ove appaiono maghi, streghe, medici e alchimisti. I personaggi sono talvolta sostituiti da scimmie o da gatti in costume.
Nel 1651, trasferitosi a Bruxelles, venne nominato pittore di corte e direttore delle collezioni dell’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria, allora governatore dei Paesi Bassi spagnoli. La raccolta che riuscì a mettere insieme si trasformò negli anni nel nucleo principale del Kunsthistorisches Museum, il principale museo di Vienna.
Nella seconda parte della sua carriera David perse un po’ di genialità ed inventiva, e pur essendo tecnicamente ineccepibile diventò meno originale e sfociò nel manierismo, ma fu considerato, ancora in vita, uno  dei più grandi pittori del suo tempo.
Poco dopo la morte della prima moglie, nel 1656, si era risposato con Isabella de Fren, figlia del segretario del consiglio di Brabante e fece tutto il possibile per dimostrare il suo diritto ad un titolo di cavaliere, scrivendo al re Filippo IV di Spagna e ricordandogli che il titolo di cavaliere era stato concesso anche a Van Dyck e Rubens. Il re si mostrò disposto ad accogliere la richiesta ma a condizione che Teniers gli vendesse tutti i suoi quadri. A quanto si sa la condizione non fu rispettata forse perché era sua intenzione fondare un’accademia strettamente riservata a pittori e scultori.
David Teniers il Giovane morì a Bruxelles il 25 aprile 1690.
[fonti:
Il dipinto rappresenta una scena di vita quotidiana in una cucina del XVII secolo.
Il fulcro della composizione è la signora con la gonna rossa, forse la padrona di casa, che siede in cucina, da un lato perché  è il luogo più caldo della casa, visto che il grande camino era sempre acceso, e di notte il fuoco covava sotto la cenere, dall’altro perché doveva dirigere i servitori. La signora sta sbucciando un frutto, infatti una cesta di mele giace ai suoi piedi, per metterlo nel piatto che un bambino le porge.

Si può dedurre che in questa casa si stia preparando un banchetto, dalla portata trionfale posta sul tavolo, quasi sicuramente un pasticcio di carne di volailles, una portata che di certo non si cucinava per il pranzo quotidiano, vista la sua presentazione imponente, sopra un guscio di pane su cui è stato rimontato il collo e le ali del cigno.Sulla tavola si possono anche riconoscere alcune pagnotte, una forma di formaggio e la trasparenza di alcuni calici decorati.

In alto si  riconoscono le forme della selvaggina appesa ad un apposito sostegno per la frollatura. La carne delle bestie appena uccise non può essere mangiata subito, necessita di un periodo in cui si svolgono tutti i processi chimici che consentono di consumarla senza che sia un’immasticabile soletta. Se la carne bovina necessita fino a tre settimane di frollatura a temperatura controllata, per gli animali da cortile e la piccola selvaggina è sufficiente un periodo molto più breve che a quei tempi si svolgeva in casa. Le bestie venivano perciò appese a quell’aggeggio in attesa che fossero pronte per essere cucinate. 
Accanto alle carni già pronte è posto un recipiente per la marinatura.
Lo stesso trattamento era riservato ai  pesci. Ce ne sono alcuni che attendono la frollatura, mentre uno è già posto in una specie di padella, mentre un piccolo osservatore a quattro zampe controlla la situazione.
Al fondo della cucina alcuni servitori sono indaffarati a cucinare, mentre un terzo servitore sta allestendo grandi quantità di polli su uno spiedo che avrebbe poi girato direttamente sull’enorme camino della cucina, che era usato per arrostire ed anche per cuocere i cibi, sotto la cenere o in pignatte.
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Torta Delicata allo Stracchino e Zucchine al Profumo di Menta

Felice Casorati – Scodella e zucchini
È un’invenzione medievale quella della torta (o pasticcio, pastello o coppo…) con cui si indicava un recipiente di pasta, messo al forno, al duplice scopo di contenere e cuocere un ripieno.
Questo tipo di preparazione era conosciuto anche nella cucina romana, ma non era stato adeguatamente valorizzato. 
A partire dal Medioevo i libri di cucina iniziano a fiorire rigogliosamente di torte, con una preparazione ben più complessa dell’adattabile prodotto da forno in pastasfoglia (o in pasta brisé!!!) che ci è familiare.
Il Liber de Coquina trecentesco prevede per la Torta Parmesana, almeno sei differenti strati di ripieno dentro l’involucro di pasta:
  • pezzi di pollo fritto con cipolla e spezie
  • ravioli al formaggio bianchi e verdi
  • salsicce di carne e prosciutto
  • fette di carne di maiale con formaggio e uova
  • salsicce di interiora
  • ravioli insaporiti con mandorle e zucchero
…e via dicendo altri strati.
Il tutto veniva richiuso con un altro strato di pasta, decorato di prugne e cotto aggiungendo lardo. Il tutto viene poi presentato al signore del castello con “gran pompa”.
Questa ricercata presentazione ha fatto supporre che parmesana derivi, non dalla città di Parma, ma da torta a forma di torre.
Ora più che della derivazione del nome mi preoccuperei del sopraggiungere di ipertensione a coloro che si avventuravano nell’assaggio di questa bomba!!!
A parte questa mostruosità della Parmesana, la cultura medievale associa le torte soprattutto alle verdure.
Il Platina, l’umanista rinascimentale che tradusse in latino tutte le ricette del Libro de Arte Coquinaria di Maestro Martino, scrisse «la pietanza che chiamiamo comunemente torta, credo prenda il nome dal fatto che le verdure, di solito usate per confezionarla, vengono tagliate e tòrte, cioè strizzate».
Chi poteva ci metteva dentro anche pasticci di carne, soprattutto di pollame o cacciagione da piuma.
Chi non poteva si mangiava la buccia, come i cittadini di Parma (sempre Parma!!!) che durante la carestia del 1246 si accontentavano di cuocere torte senza ripieno, ed è drammatico se si pensa che spesso l’involucro di pasta non era fatto per essere mangiato, ma era una vera e propria imitazione del recipiente di cottura, durissimo – durior et forcior – e bruciacchiato.
Il cuoco rinascimentale Bartolomeo Scappi ci illustra tre diverse tipologie di fondo: pasticci, crostate e torte.
Il pasticcio era l’involucro alla medievale, di pasta dura, non necessariamente da mangiare; le crostate e le torte avevano il fondo di pasta a strato sottile, simile alla nostra pasta sfoglia e condita con il burro o con lo strutto. Le crostate avevano nel ripieno pezzi interi di carne, pesce, verdura o frutta; le torte, invece,erano riempite con un impasto amalgamato.
Alla luce di ciò quella che ho preparato oggi è più una crostata che una torta…sicuramente è più leggera della Parmesana medievale…
La ricetta: Torta delicata allo stracchino e zucchine al profumo di menta
Ingredienti (per 2 porzioni abbondanti da piatto unico, per intenderci)
1 zucchina grossa di circa 300 g
150 g di stracchino allo yogurt
12-15 foglie di menta fresca
2 cipollotti freschi
sale, olio
un dito di vino bianco
1 pasta sfoglia già pronta
Preparazione:
Ho affettato il cipollotto e l’ho messo a soffriggere leggermente in un filo d’olio, quando era ammorbidito, prima che colorasse ho aggiunto le zucchine, tritate a julienne. Ho lasciato insaporire qualche minuto, poi ho aggiunto il vino, lasciato sfumare, aggiustato di sale.
Quando le zucchine avevano perso un po’ di croccantezza le ho tolte dal fuoco. Devono essere asciutte.
Sulla sfoglia stesa ho messo lo stracchino a tocchetti e completato con il trito di zucchine, ripiegato gli angoli di pasta in eccesso e messo in forno già caldo a 170° finchè non mi è sembrata cotta.

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Alessandra di Danimarca e i Panini Semidolci all’Uvetta

Franz Xaver Winterhalter – Ritratto di Alessandra ventenne – 1864
Siamo in tema di matrimoni reali – anche se mi unisco al coro un po’ in ritardo – e di monarchia in generale; colgo quindi l’occasione per ripescare dai meandri del gossip storico una figura vicina agli ormai strabusati William&Kate, e che mi dia l’occasione di autocelebrarmi.
Si chiama infatti come me, Alessandra, la regina di cui voglio parlare, per l’esattezza Alexandra Carolina Marie Charlotte Louise Julia di Slesvig-Holsten-Sønderborg-Lyksborg, conosciuta come Alessandra di Danimarca, regina del Regno Unito e Imperatrice d’India.
La sua storia mi sembra piena di eleganza e dignità.
Alexandra, chiamata Alix dai parenti più prossimi, nacque a Copenaghen il 1° dicembre del 1844 nel Palazzo Giallo. 
Il Palazzo Giallo dove nacque Alessandra
 Pur con sangue reale nelle vene visse un’infanzia pressoché normale, cosa che spiega la sua successiva insofferenza verso la regina Vittoria e per un’etichetta di corte troppo rigida. Il padre di Alessandra, il principe Cristiano non era molto ricco – usufruiva di una rendita di 800 sterline annue – e la famiglia viveva modestamente in un palazzo in usufrutto senza canone d’affitto.

Alix bambina e le due sorelle ebbero qualche volta la fortuna di farsi raccontare la fiaba della buonanotte da Hans Christian Andersen in persona, ma nulla di più, fino a che il padre non venne proclamato erede al trono di Danimarca, pur non essendolo in linea diretta.
A questo punto la loro rendita migliorò leggermente ma ugualmente adottarono uno stile di vita semplice, pur trasferendosi nella residenza ufficiale di Palazzo Bernstorff; Alessandra continua a cucirsi i vestiti da sola, a scambiarseli con le sorelle e a servir loro a tavola; tra loro figura anche Dagmar, futura zarina di Russia, con cui Alix era molto legata.

Alessandra con le sorelle Dagmar e Thyra prima del 1860

A sedici anni Alexandra venne indicata come futura sposa dell’erede al trono del regno Unito, il figlio della regina Vittoria, Alberto Edoardo. Non venne scelta da lui, ahimé, ma dalla future suocera e cognata, Vittoria (la regina) e Vittoria (la principessa di Prussia).
Pur essendo molto bella e di nobiltà comprovata non fu la prima ad essere designata come possibile sposa, a causa del disaccordo che animava i danesi contro i prussiani, molto più vicini al trono d’Inghilterra; successivamente però venne indicata come «l’unica che può essere scelta».

Alix ed Edoardo nel 1862

 Il 24 settembre 1861 la principessa Vittoria, fece le presentazioni ufficiali tra il fratello, principe Edoardo, e Alix a Spira; un anno dopo, il 9 settembre 1862, arrivò da parte di Edoardo la proposta matrimonio.
Pochi mesi dopo Alessandra si mise in viaggio verso l’Inghilterra a bordo della nave reale Victoria and Albert, sbarcando a Gravesend il 7 marzo 1863.
Sir Arthur Sullivan in quell’occasione compose della musica per il suo arrivo e Alfred Tennyson scrisse un’ode in suo onore:
 « Figlia del re marino da oltre il mare, Alessandra!
Sassoni e Normanni e Danesi siam noi,
Ma tutti Danesi nel nostro benvenuto a te, Alessandra! »

Henry Nelson O’Neal – Approdo a Gravesend – 1863

Il matrimonio si svolse il 10 marzo nella cappella di St.George a Windsor con grande sfarzo, ma siccome la corte era ancora in lutto per la morte del principe consorte Alberto, i colori concessi per l’abbigliamento vennero ristretti al grigio, malva e lillà. La sede prescelta venne criticata dall’opinione pubblica perché troppo piccola ed intima per accogliere tutti coloro che aspiravano ad essere invitati. Senza dar peso alle critiche si operarono drastici tagli nelle partecipazioni, anche per i Danesi: vennero invitati alle nozze solo i parenti più prossimi.

Il matrimonio in una stampa d’epoca – 1863
Immagine ufficiale degli sposi – 1863

 Dopo il subbuglio iniziale a corte – si vocifera che il cognato di lei, Alfred, se ne innamorò, entrando in conflitto con il fratello – gli sposi si mostrarono subito affiatati e fissarono la loro dimora a Sandringham House, tenendo come base londinese Marlborough House.

Un ritratto fatto in occasione delle nozze

Con grande disappunto della regina Vittoria, Edoardo e Alessandra sostennero la fazione danese durante la seconda guerra dello Schleswig nel 1864. Con l’invasione della Danimarca da parte dei prussiani si acuì l’odio di Alix per tutto ciò che era tedesco, odio che perdurò per tutta la vita.

Gli sposi con la Regina Vittoria – 1863

Altre controversie con l’autoritaria regina Vittoria si manifestarono in coincidenza della nascita dei figli di Alix. Apparentemente sembrano essere tutti prematuri, in realtà fu Alessandra a nascondere la presunta data del parto per non avere l’incomoda presenza di Vittoria durante il travaglio.

Alix con il primogenito Albert Victor nel 1864

Nel giro di sei anni partorì sei figli ma l’ultimo, Alessandro Giovanni, morì dopo un solo giorno di vita. Nonostante il desiderio di Alix di privacy per il suo dolore, la regina Vittoria fece proclamare un periodo di lutto a corte.
Il primogenito non arriverà mai a sedere sul trono d’Inghilterra perché morirà nel 1892 a 28 anni. Al suo posto diventerà re, con il nome di Giorgio V, il secondogenito Giorgio Federico, nato nel 1865.

La coppia degli eredi al trono con i primi tre figli – 1869c.ca

Alix mise al mondo anche tre bambine, Luisa (1867), Vittoria (1868) e Maud (1869).

Durante gli anni come sposa dell’erede al trono, Alix divenne subito molto popolare ed amata dagli inglesi. Entrò nel loro cuore per l’eleganza e la modernità nell’abbigliamento e venne emulata nelle sue scelte dalle appassionate di moda.
Si riforniva soprattutto presso case di moda londinesi; la sua preferita fu sempre Redfern’s, ma acquistò occasionalmente anche nella parigina Doucet and Fromont.

Alessandra nel 1870 circa

Nell’intimità la principessa Alix era estremamente materna. Amava il momento in cui poteva abbandonare gli impegni istituzionali e correre nella nursery a lavare da sola i suoi figli e guardarli addormentarsi nei loro lettini, ed era affettuosa e allegra in privato quanto dignitosa durante gli obblighi pubblici. Amava passare il tempo libero tra la danza, il pattinaggio sul ghiaccio, la guida del tandem e le lunghe cavalcate.

Le piaceva anche la caccia, e glielo perdoniamo solo perché sembra un personaggio moderno e per l’epoca emancipato, e inutilmente la regina Vittoria le chiese molte volte di smettere.
Alix invece, dopo la nascita del primo figlio continuò sempre le sue attività in aperto dissenso con la suocera, ma con la complicità di suo marito. La diversità di vedute con la regina Vittoria era resa più pungente a causa dell’appoggio che quest’ultima dava ai tedeschi.

Nell’aprile del 1868, Edoardo e Alessandra, già incinta della quarta figlia, visitarono l’Irlanda.
Successivamente, tra il 1868 e il 1869 Alessandra accompagnò il marito in un viaggio di sei mesi, visitando principalmente l’Austria, la Grecia e l’Egitto. In Turchia Alix fu la prima donna a sedere a tavola con il Sultano Abdülaziz.

Alix con Edoardo nel 1870, dopo 5 gravidanze.

Alix con le figlie adolescenti

La famiglia al completo, con Alix che dimostra la stessa età delle figlie

Nel 1901 Edoardo divenne Re. Un altro primato spettò ad Alix per essere stata insignita, all’incoronazione del marito nel 1901, del famoso Ordine della Giarrettiera, prima di lei assegnato soltanto a uomini o a donne sovrano (come Elisabetta I o la suocera Vittoria).

La bellissima Alix a 54 anni nel 1898

Nel 1910 fu la prima regina consorte a assistere ad un dibattito nella Camera dei Comuni.

Immagine ufficiale dell’incoronazione nel 1901

Un’immagine ufficiale della regina consorte, con la sua vita sottile nonostante i 57 anni

Un crescente stato di sordità causato dall’ostoclerosi, la malattia ereditaria di cui soffriva Alessandra, la allontanarono dalla vita sociale, permettendole di dedicarsi sempre di più ai figli e agli animali di casa.
Nonostante non fosse un matrimonio d’amore, quanto piuttosto di amicizia, quello fra Alix ed Edoardo fu tutto sommato felice. Alix, pur restando fedele ad Edoardo per tutta la vita, passò elegantemente sopra alle relazioni extraconiugali (se ne conoscono almeno cinque ufficiali e molte altre più ufficiose) che il marito intrattenne durante gli anni di matrimonio.

Nonna Alix, con il nipotino Edward

Spesso Edoardo fu criticato dall’opinione pubblica per il suo apparente disinteresse nei confronti della moglie, soprattutto nei periodi in cui lei fu malata, dopo la nascita di Luisa, quando si ammalò di febbre reumatica.
Alix apparentemente non mostrò di soffrire molto dei tradimenti del marito e concesse ad Alice Keppel, a quell’epoca amante del marito, di visitare Edoardo sul letto di morte.

Come regina e, alla morte di Edoardo, come regina madre, fu molto amata dal popolo.
Nel 1912 indisse l’Alexandra Rose Day, giorno dedicato alla vendita a Londra di rose artificiali fatte da disabili, il cui ricavato è destinato ad opere caritatevoli.
Durante la Rivoluzione d’Ottobre Alix entrò in grande dissenso con il figlio, Giorgio V, che non poté o non volle far nulla per salvare lo zar imparentato con loro. Nel 1919 lei stessa offrì ospitalità alla sorella Dagmar, fuggita dalla Russia dopo la rivoluzione.

Nonostante il passare degli anni Alessandra mantenne la sua bellezza, come dimostrano le foto d’epoca.
In vecchiaia la sua salute si fece instabile, frequentemente ebbe perdite di memoria e la rottura di un vaso sanguigno in un occhio la rese quasi cieca; verso la fine della vita l’uso della parola fu compromessa.

Alessandra nel 1923 a 78 anni

 Il 20 novembre 1925 si spense a Sandringham, a quasi 81 anni, per un attacco di cuore e viene tumulata a Windsor, accanto al marito.

[Fonti: http://en.wikipedia.org/wiki/Alexandra_of_Denmark; http://sissiludwig.forumfree.it; http://ladyreading.forumfree.it]

La ricetta: Panini semidolci all’uva passa

A questo english post voglio abbinare dei semplicissimi panini english style di quelli che si abbinano a una bella tazza di tè fumante o di caffè lungo.
Si possono gustare così oppure aperti a metà, tostati, e con un sottilissimo velo di marmellata.
Nonostante le mie scarse attitudini con gli impasti lievitati sono venuti benissimo.

Ingredienti (per circa 12 paninetti):
250 g farina
½ bustina di lievito secco
20 g burro
30 g zucchero
100 ml latte
80 g uva passa (ma ne andrebbe anche di più)
1 uovo (più un altro per dorarli in superficie)

Preparazione:
Ho riattivato il lievito con metà del latte intiepidito e una punta di cucchiaio di zucchero e lasciato riposare per 10 minuti.
Nel frattempo ho fatto sciogliere e poi intiepidire il burro ed ho ammollato l’uvetta in acqua tiepida, poi risciacquata ed infine asciugata con un panno.
Nella farina mischiata con lo zucchero e disposta a fontana  ho versato il composto di lievito e ho fatto una prima piccola palla di impasto.
Ho ripetuto lo stesso procedimento con il latte e burro tiepido e ricavato un’altra pallina.
Infine ho ripetuto ancora con l’uovo sbattuto.
Ho impastato insieme le tre palline, per formare un impasto omogeneo ed infine ho aggiunto l’uvetta asciutta cercando di distribuirla uniformemente.
Ho formato una palla liscia e l’ho messa a lievitare, coperta e al caldo, per un’ora.
Ho ripreso l’impasto, l’ho sgonfiato con un’impastata energica l’ho diviso in piccoli paninetti su una placca da forno infarinata. (si può anche formare un unico pane da affettare)
Ho coperto con i soliti panni e lasciato lievitare per quaranta minuti.
Prima di infornare in forno caldo a 190°-200°, ho spennellato i panini con un uovo a temperatura ambiente sbattuto e un goccino di latte e ricoperto con un pizzico di zucchero semolato.
Ho lasciato in forno fino a cottura per circa venti minuti (ma dipende dalla dimensione dei paninetti!).
Fuori si forma una crosticina, dentro c’è una mollica fina e soffice. 😉

al cucchiaio, dolci, ricette tradizionali, storia & cultura

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