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Sant’Antonio di Ranverso, un tesoro nascosto a due passi da Torino Alle porte della Val di Susa un posto dove il tempo si è fermato

Una gita a due passi da Torino. Se amate l’arte e pensate che il Medioevo sia stato tutt’altro che “i secoli bui”, allora non potete perdervi la Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso. Ho scoperto questo tesoro nascosto in un pomeriggio assolato di fine settembre. Ne avevo sentito parlare, e più volte mi ero ripromessa di visitarlo ma, come talvolta accade con i luoghi tanto vicini alla mia città, rimandare diventa una spiacevole routine.

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Pumpkin-chocolate Bundt Cake, la torta con zucca e cioccolato

 
La scoperta dell’America portò in Europa la zucca di Halloween e numerose altre varietà, assieme ad altri ortaggi colorati e panciuti. Un’altra tipologia di zucca era però già conosciuta fin dall’antichità e coltivata in Oriente ed Europa: la lagenaria, detta anche zucca da vino, piccola e dalla particolare forma a pera o a fiaschetta. Pare che fosse originaria dello Zimbabwe e conosciuta anche dagli antichi egizi. Le piccole zucche venivano accuratamente svuotate della polpa che poi veniva mangiata, mentre il guscio serviva per creare fiaschette dove conservare e trasportare i liquidi; da qui deriva proprio l’espressione “zucca da vino”, ma anche “avere sale in zucca”, poichè i preziosi cristalli, tanto utili per la conservazione degli alimenti e paragonabili al denaro (il salario) venivano spesso conservati in una zucchetta svuotata ed essiccata.
Raffaello e Giulio Romano – Mercurio nella Loggia di Psiche
In ogni caso la moda della zucca nell’arte esplose un poco più tardi, dopo le
grandi scoperte, e in particolare nel XVI e XVII secolo, nelle nature
morte, anche se già nel 1517 Raffaello aveva immortalato la zucca nella Loggia di Psiche alla Farnesina,
sulla testa di Mercurio, al posto riservato, in altre occasioni, alla “cornucopia” e con il medesimo auspicio di abbondanza e fortuna al banchiere
senese Agostino Chigi, committente degli affreschi. I semi della zucca rappresentavano quello che per noi, ancora oggi, rappresentano le lenticchie o i chicchi del melograno a Capodanno: tanto denaro in arrivo. Un’altra
zucchetta fa capolino a destra tra le fronde con un evidente significato
un poco più scabroso… e da qui comprendiamo che a Raffaello e ai suoi
aiutanti piaceva scherzare e che con Agostino Chigi c’era, oltre al rapporto tra committente e artista, anche una goliardica amicizia.

Da “Les Grandes Heures d’Anne de Bretagne”
L’immagine più antica di una zucca resta comunque tra le pagine colorate
di un libro di preghiere: “Les Grandes Heures d’Anne de Bretagne”
illustrato da Jean Bourdichon tra il 1503 e il 1508; tra altri ortaggi,
insetti ed animaletti dell’orto, resi con un vivido realismo, gli
scargianti fiori di zucca gialli o bianchi e i frutti della pianta.
 
Dal ‘500 la zucca, e soprattutto l’appariscente zucca americana, che ben si presta ad essere rappresentata a colori sulla tela, appare sempre più frequentemente nei dipinti di mercato. In realtà il significato di queste pitture è quasi sempre allegorico, esula dalla scena quotidiana rappresentata ed occhieggia sempre più spesso alla sessualità.È

il caso del fiammingo Pieter Aetrsen e suo nipote Joachim Beuckelaer: le zucche presenti nei loro dipinti alludono ad una scena amorosa in secondo piano oppure alla fecondità del ventre femminile.

Pieter Aetrsen – La fruttivendola
 
Joachim Beuckelaer – Mercato
Le fruttivendole o pescivendole di Vincenzo Campi, pittore lombardo, alludono anch’esse alla sessualità. Le zucche sono solitamente tagliate, con i semi esposti, oppure nel caso della pescivendola, tra i tentacoli di un polpo, mentre altre scene nel dipinto richiamano in modo più o meno manifesto il significato sessuale, come il dito nell’orecchio o il gettare dei frutti nel grembo delle donne in secondo piano.

 
Vincenzo Campi – Fruttivendola

 

 
Vincenzo Campi – Pescivendola

In questa carrellata non poteva mancare l’Arcimboldo: nella raffigurazione di Vertumnus, alla zucca è assegnato il compito di rappresentare il torace, sede del cuore e di altri organi vitali.

Giuseppe Arcimboldi – Vertumnus

[fonti:
http://zuccanellorto.wordpress.com/category/storia-culturale/
http://www.stilearte.it/la-zucca-nellarte-simbolo-e-propiziatrice-di-prosperita-fecondita-e-ricchezza1/]

Questa torta è deliziosa, umida al punto giusto, con la freschezza della zucca e il profumo della cannella e la golosità del cioccolato. Sono partita dalla Pumpkin Bundt Cake di Serena e da lì ho fatto le mie modifiche.

 

La ricetta: Pumpkin & Chocolate Bundt Cake (torta con zucca e cioccolato)
2 uova
180 g di zucchero 
320 g di zucca (polpa pesata già cotta e pulita)
100g di burro
60 g di cioccolato fondente (per me al 64% di cacao)
260 g di farina (per me Cerealia Wellness)
40 g di latte
2/3 di bustina di lievito per dolci
1 cucchiaino di cannella in polvere
1 pizzico di sale
 
per decorare
zucchero a velo
acqua
scaglie di cioccolato fondente
 
Far cuocere la zucca, tagliata a spicchi, in forno a 180° finchè la polpa non è morbida, poi ricavarne 320 g e schiacciarla finemente con una forchetta.
Montare un uovo intero e un tuorlo con lo zucchero e un pizzico di sale. Tenere da parte il secondo albume.
Sciogliere il burro con il cioccolato sminuzzato e lasciar intiepidire.
Aggiungere all’uovo montato la zucca e poi il burro con il cioccolato, mescolando bene.
Setacciare insieme la farina con il lievito e la cannella e cominciare ad aggiungerla a cucchiaiate all’impasto, mescolando bene per non formare grumi. Alternare alla farina un po’ di latte per rendere l’impasto morbido, fino ad esaurimento di entrambi.
Scaldare il forno a 170° ventilato.
Montare a neve il secondo albume ed aggiungerlo all’impasto mescolando dal basso verso l’alto.
Imburrare ed infarinare uno stampo da bundt cake e mettervi l’impasto. Infornare per 45 minuti e fare la prova stecchino prima di sfornare.
Quando la torta è fredda, toglierla dallo stampo e decorarla con glassa di zucchero e scaglie di cioccolato fondente.

 

 
 
 
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Coq au vin per la Borgogna e per il Calendario Culinario

Siamo in Borgogna terra di storia, arte e gastronomia.
So che l’ho già detto per quasi tutte le altre 10 regioni francesi attraversate quest’anno, mache devo fare? La Francia, al di là della celebre capitale, è davvero ricca di sorprese eccellenti.
La storia della Borgogna inizia con i Galli, precisamente la tribù del Burgundi che aveva un regno ben più vasto dell’attuale regione francese. Il territorio venne annesso dai Franchi e in seguito diviso tra vassalli e valvassori per formare diversi piccoli ducati e contee indipendenti: il Ducato di Borgogna, la Franca Contea di Borgogna, la Provenza, il Delfinato, la Savoia, la Svizzera francofona, ed altri più piccoli.
Il Ducato di Borgogna era vassallo del Re di Francia, mentre la Franca Contea era assoggettata al Sacro Romano Impero. Esse furono però riunite nuovamente sotto un unico sovrano fino al 1477 quando furono definitivamente divise per ragioni dinastiche.

Se parliamo di patrimonio artistico è impossibile non pensare all’architettura cluniacense e cistercense, entrambe originate in Borgogna, e di cui un esempio eloquente sono le due abbaziali, patrimonio dell’UNESCO, Vézelay e Fontenay.

Vézelay esterno

Vézelay interno
Abbazia di Fontenay esterno

Fontenay interno
A questo proposito pare che proprio allo zelo dei monaci lavoratori si debba la diffusione in queste terre della coltivazione della vite. La Borgogna è la prima zona di Francia come territorio vocato, assieme al Bordeaux. I vini rossi sono prodotti a partire da Pinot Nero, quelli bianchi a partire da uve Chardonnay; in minor quantità sono gli appezzamenti di Gamay e Aligoté. Tutta la zona di produzione segue il corso del fiume Saône, in una lunga e stretta striscia di terra; le aziende vitivinicole sono piccole, di non più di 5 ettari di estensione, e spesso ancor più piccole, e i vini hanno un sistema identificativo proprio, da “régionale“, il più basico, a Grand Cru, il più pregiato.

Date queste premesse per la Borgogna non potevo che scegliere un piatto in cui il vino fosse protagonista.

Il coq au vin, letteralmente gallo al vino è in realtà una ricetta contesa tra più regioni, Borgogna, Alsazia, Champagne e Auvergne.

 
Proprio dall’Alvernia proviene la leggenda secondo cui un capo della tribù degli Alverni, pur sotto assedio da parte dei Romani, mandò a Cesare un gallo combattivo ed aggressivo, come simbolo del coraggio dei Galli. Cesare, che non era privo di senso dell’umorismo, ma neppure di sarcasmo, gli restituì il favore inviatndolo a cena e servendogli il gallo cotto nel vino. Ora, non è questo il luogo più adatto a capire se i Romani utilizzavano questo tipo di cottura, ma certo con le carni tenaci di certi galli, era necessaria una lunga marinatura in un altrettanto forte vino rosso.
Per un galletto “moderno” o un pollo ruspante la marinatura di 48 ore pare forse un po’ eccessiva, ma di sicuro conferisce sapore ed aromaticità alle carni e contribuì a suo tempo a far diventare questo piatto uno dei preferiti dai francesi, anche da “esportare”.
Stendhal insegnò alla sua cuoca a preparare il coq au vin durante la propria permanenza in Brianza.
Georges Simenon, creò sul personaggio della moglie di Maigret la perfetta divisa dell’altrettanto perfetta cuoca casalinga francese, affibbiandole il coq au vin come sua ricetta meglio riuscita.

La ricetta: Coq au Vin (ricetta rivisitata da Oenoperwez)
 
ingredienti:
1 galletto tagliato a pezzi
1 bottiglia di vino rosso (per me Nebbiolo)
2 cipolle bianche (in origine cipolline o cipollotti)
100 g di pancetta
1 cucchiaio di zucchero
1/2 bicchiere di brandy
2 cucchiai di farina
1 spicchio d’aglio
1 bouquet garni (timo, maggiorana, salvia, alloro)
300 g di champignons
olio extravergine d’oliva
1 noce di burro
sale
pepe
 
Rosolare la pancetta in pentola con tre cucchiai d’olio. Aggiungere le cipolle tagliate sottili e farle dorare rimestando per 10 minuti. Togliere cipolla e pancetta dal fuoco e tenerle da parte.
Al posto di cipolla e pancetta mettere i pezzi di galletto e farli rosolare per bene, aggiungendo un filo d’olio. Da parte riscaldate il vino con un cucchiaio di zucchero.
Quando il galletto è rosolato, salare e pepare e versarci un bicchiere di brandy e fiammeggiare, poi togliere dalla pentola anche la carne.
Sul fondo della pentola mettere a questo punto la farina, facendo leggermente imbrunire, poi mettere i pezzi di carne e il vino caldo. Aggiungere lo spicchio d’aglio schiacciato e il bouquet garni coprite e lasciate cuocere a fuoco bassissimo per un’ora.
Nel frattempo pulire gli champignons, tagliarli in quarti e farli rosolare in una noce di burro.
Aggiungere al galletto la pancetta, la cipolla e gli champignons e continuare la cottura per ancora circa 20 minuti.

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Pane dolce allo zafferano per Cerealia Wellness

Il nome dello zafferano deriva dal latino safranum e dall’arabo zaʻfarān (زعفران), giallo, che alludeva alla colorazione che gli stimmi, che in natura si presentano rosso-arancio vivo, davano alle stoffe per le quali venivano utilizzate come colorante.
Proprio con la funzione di trasmettere il colore acceso, che ricordava quello del sole, veniva utilizzato anche dagli egizi, per le bende delle mummie o per le tuniche dei sacerdoti e degli alti funzionari.
In epoca relativamente più recente Alessandro Magno lo adoperava come cicatrizzante per le ferite che si procurava in battaglia e Cleopatra utilizzava gli stimmi del prezioso fiore per regalare alla propria pelle una sfumatura dorata, un velo di autoabbronzante ante-litteram.
Nel frattempo in Grecia e a Roma erano “fiorite” – è proprio il caso di dirlo – numerose leggende riguardo la pianta e i suoi vivaci stimmi. Una di queste narrava del tragico amore tra il giovane Krocus e la ninfa Smilace, osteggiato dagli dei per il voto di castità della ninfa. Per separare per sempre i due amanti, gli Dei trasformarono la ninfa nella pianta di bosso e Krocus nel fiore di croco, dagli stimmi profondamente rossi.

Un’altra leggenda, questa volta romana, narra del dolore del dio Mercurio, che dopo aver ucciso inavvertitamente l’amico Croco, durante i suoi esercizi di lancio del disco, lo trasformò nel bellissimo fiore, macchiato di rosso a ricordo del sangue versato.
Intanto lo zafferano prosperava in medicina per le proprietà afrodisiache e antibatteriche che gli erano state assegnate e diventava, dall’Antica Roma a tutto il Medioevo e Rinascimento una sorta di status symbol. Chi poteva permettersi, tra tutte le spezie, anche questa preziosa polvere dorata erano solo le classi molto agiate.
Archestrato, cuoco e poeta greco, sosteneva che lo zafferano in un piatto lo rendeva “degno delle divinità immortali”, mentre i Romani erano soliti utilizzare la polvere dorata per preparare vini speziati e per nobilitare ulteriormente le già pregiate carni del pavone, con una salsa a base di zafferano, miele e nocciole.
Nel 1450 è ingrediente di ben 70 ricette di Mastro Martino di Como, il celebre cuoco della
famiglia Sforza, mentre a Venezia, nel momento più fiorente della Serenissima Repubblica, fu necessario istituire un ufficio dedicato esclusivamente ai commerci che riguardavano la preziosa spezia.

Dal Mediterraneo si spostò anche in Francia, dove diede vita alle preziose coltivazioni provenzali, e in Inghilterra e in Nord Europa, dove la memoria si conserva nei dorati dolci delle feste, ad esempio i Lussekatter svedesi, i panini di Santa Lucia.
Il pane dolce della Cornovaglia è uno di questi. Un pane ricco, da giorni di festa, arricchito da spezie e frutta secca e colorato dal giallo dello zafferano che in Cornovaglia rappresentava un’importante coltura nel XVI secolo.

Alcune note sulla farina che ho utilizzato per questo dolce: si tratta di Cerealia Wellness.
Come si nota nel loro marchio coi tre mulini, Cerealia nasce nel 2013 dall’unione di tre impianti molitori tra Lombardia e Piemonte, Molino Fiocchi, Molino Saini e Molino Seragni, nati tra la fine dell’800 e gli anni ’30 del XX secolo. L’unione fa la forza e il fatto di avere tre impianti che lavorano in sinergia ha permesso a Cerealia di diversificare la produzione a seconda delle necessità ed esigenze e di prestare più cura al cliente e al prodotto finale che si vuole ottenere. Unire le forze in questo caso ha permesso di svolgere analisi sempre più approfondite, per garantire una qualità ineccepibile ed investire nella ricerca per prodotti all’avanguardia.
Così oltre alle farine ad uso professionale, apprezzate da molte aziende, nasce la farina Wellness. Cerealia Wellness si presenta ad occhio nudo come una farina bianca;  in realtà essa è ricchissima di fibre, ma non contiene la parte più esterna del chicco, la vera e propria buccia che, avendo altissimi contenuti di lignina risulta più difficile da masticare ed è, a volte, irritante per l’intestino. Il contenuto di fibra, però, tolto il tegumento del chicco, è ugualmente molto alta, permettendo così un ridotto apporto di calorie e un sapore più pieno e gradevole.
Se avete ancora dei dubbi riguardo alla qualità di questa farina, pensate che la buccia esterna del chicco è quella che raccoglie tutti gli agenti atmosferici e le microtossine e quindi eliminarla rappresenta una garanzia per la salute, mentre il costo della Wellness, grazie alle tecniche approntate da Cerealia, resta comparabile con quello di farine tradizionali.
Qui i valori nutrizionali del prodotto:

[fonti sulla storia dello zafferano:
http://www.lifegate.it/persone/stile-di-vita/l_antica_magia_dello_zafferano_di_provenza_e_ritornata_realta
http://www.lespezie.net/abc/391-zafferano.html
http://www.zafferano-leprotto.it/Lo-zafferano/curiosita.html]

La ricetta: Pane dolce della Cornovaglia allo zafferano
(ricetta rivisitata dal libro “Il Pane fatto in Casa”)

(per uno stampo da plumcake 20x10cm):

130 ml di latte
10 g di lievito di birra fresco
2 bustine di zafferano in polvere
200 g di farina Cerealia Wellness
30 g di mandorle tritate
la punta di un cucchiaino di noce moscata in polvere
1/2 cucchiaino di cannella in polvere
30 g di zucchero di canna
36 g di burro
25 g di uva passa (queste le mie dosi, ma aumentate a piacere)
25 g di mirtilli rossi essiccati (queste le mie dosi, ma aumentate a piacere)
1 pizzico di sale
1 tazzina di rum
2 cucchiai di latte
2 cucchiai di zucchero
mandorle in lamelle
Lasciare ammorbidire il burro fuori dal frigo.
Sciacquare l’uvetta e i mirtilli e metterli a bagno in una tazzina di rum.
Scaldare metà del latte portandolo quasi ad ebollizione, poi fare un’infusione con lo zafferano. Lasciare riposare per 15 minuti.
Intiepidire il latte restante a temperatura ambiente e sciogliervi il lievito e 30 g di farina, lasciando coperto fino a che non inizia a fermentare.
Mescolare la farina restante con le mandorle tritate, le spezie, lo zucchero. Aggiungere il lievitino, cominciare ad impastare, poi aggiungere lo zafferano e infine il burro morbido e il sale, impastando il tutto per 10 minuti, fino a che non diventa omogeneo e liscio, distribuendo in modo uniforme l’uva passa, scolata e asciugata in carta assorbente. Coprire con pellicola leggermente unta e riporre al tiepido fino a raddoppio avvenuto.
Sgonfiare l’impasto e dividerlo in tre pezzi. Ricavare una pagnottina tonda da ogni pezzo e mettere tutte e tre in uno stampo da plumcake appena unto. Coprire nuovamente con pellicola unta e lasciar raggiungere il bordo dello stampo.
Riscaldare il forno a 190°.
Nel frattempo preparare la glassa con latte e zucchero. Spennellare il pane dolce ed infornare per 10 minuti. Poi abbassare a 180° e far proseguire la cottura per un altro quarto d’ora.  Verificare la cottura del fondo del pane, estraendolo dallo stampo, ed eventualmente completandola in forno. Poi spennellare ancora il dolce di glassa e cospargerlo in superficie di scagliette di mandorla.

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Torta al miele e mandorle e l’inizio della “storia del miele”

Parliamo di miele. E non è mica cosa semplice… L’inchiostro in materia è davvero un mare, perchè il miele ha una storia lunga quanto il mondo.

Per chi sa che viene prodotto dalle api ma non ricorda bene il procedimento (come la sottoscritta, fino a ieri!) ecco cosa accade: le api esploratrici succhiano il nettare dal fiore e quando si sono ben riempite il pancino (in realtà la sacca mellifera è posta prima dello stomaco) tornano all’alveare e lo passano ad altre api. Per ogni bottino di miele il passaggio viene fatto altre 100 volte, di stomachino in stomachino, arricchendosi di enzimi preziosi che trasformano il nettare in miele. A questo punto il miele liquido, contentente oltre il 70% di acqua, e deposto nella celletta, viene asciugato dalle api con il movimento delle ali, come una sorta di phon naturale, che consente di arrivare al 18% di presenza di acqua. A questo punto il miele, che grazie al suo contenuto zuccherino si può conservare per anni, viene sigillato dentro la celletta con la cera.
Le api da cui proviene il miele italiano sono in massima parte della specie mellifica ligustica che, oltre ad avere un buon carattere, produce anche un’elevata quantità di miele in eccesso, rispetto al fabbisogno di sostentamento dell’alveare. Per questa ragione il miele in più può essere prelavato dall’apicoltore e trasformato.

Tralasciando la parte puramente biologica, e correndo per un milione di anni indietro nel tempo, il miele, ben prima di tornare “di moda” per le sue tante proprietà salutistiche era l’unico ingrediente in grado di dolcificare i cibi, ben prima della scoperta dello zucchero, almeno in questa parte del mondo. 
Giusto per dare qualche parametro sullo zucchero: esso era già conosciuto in Polinesia dal XIII secolo a.C., e dal VI secolo a.C, diffuso anche nella Persia di Re Dario. La diffusione, invece, la si deve agli arabi, sempre grandi commercianti dall’Oriente all’Occidente, che lo conoscevano già dal VI secolo a.C. e incominciarono a farlo viaggiare, insieme alla canna da zucchero, dal VII secolo d.C con la loro grande espansione verso l’Europa.
Ma torniamo al miele. La sua fortuna è ben più antica. 
Le api sociali avrebbero
un’età che va dai 20 ai 10 milioni di anni
, e permettetemi di
sorridere su questa approssimazione di soli 10 milioni di anni. L’uomo
è comparso solo 1 milione di anni fa e da subito cominciò ad
approfittare di questa dolcezza di natura: questa è una pittura rupestre trovata nella zona di Valencia, in Spagna, che rappresenta un raccoglitore di miele, con accanto il favo e le api in volo che sembra raccontare nei dettagli una tecnica di raccolta utilizzata ancora oggi in India.
La parola miele, melit, viene trovata per la prima volta su una tavoletta ittita; nel codice di Hammurabi erano previste pene severe per chi svuotava illecitamente un’arnia; e sulle iscrizioni geroglifiche egizie la letteratura in materia diventa una mole interessante, con prove “dipinte” del fatto che era già diffusa l’apicoltura. E quando Ra, il dio Sole, piangeva d’amore, queste erano lacrime di miele.
Per i Greci il miele era il cibo degli Dei, l’Ambrosia, ma soprattutto il nutrimento che permise la sopravvivenza del primo e più importante dei loro dèi, Zeus, quando era minacciato dal padre Kronos, tristemente conosciuto per l’abitudine a cibarsi della propria prole. Le leggende in merito sono tante, un vero e proprio intreccio di storie, dove ninfe, figlie di re e animali mitologici intrecciano le loro vincende; alla fine il succo è questo: la capra Amalthea, o una ninfa con questo nome e la ninfa Melissa, poi trasformata in ape, nutrirono il piccolo Zeus con latte e miele.
E una torta con yogurt greco, panna, miele e mandorle è il migliore accompagnamento a questo groviglio di storie.
La ricetta: Torta al miele e mandorle (da una ricetta “Duchy Originals”, rivisitata da me)
175 g di farina di grano tenero
200 g di mandorle tritate finemente
100 g di miele (per me MielBio Rigoni d’Asiago -Tiglio)
100 g di zucchero di canna
150 g di yogurt greco
50 g di panna fresca
1 uovo
2 cucchiaini di lievito per torte 
1 manciata di mandorle a lamelle
Imburrare e infarinare la teglia (21-22 cm di diametro).
Accendere il forno a 160°.
Mescolare con una frusta zucchero, yogurt, panna, miele e tuorlo del’uovo.
Montare a neve l’albume.
Aggiungere poi al composto la farina, con il lievito in polvere e le mandorle tritate, mescolando bene.
In ultimo incorporare con cura l’albume montato a neve.
Trasferire nella teglia ed infornare per circa 40 minuti. (con prova stecchino e senza far scurire troppo la superficie).
Spennellare la superficie della torta con 1 cucchiaio di miele allungato con acqua e distribuire le lamelle di mandorla.

Io l’ho accompagnata con yogurt greco al naturale e mirtilli…ma era ancora settembre…naturalmente si presta a qualsiasi frutto di stagione

[fonti: 
http://www.mieliditalia.it/index.php/mieli-e-prodotti-delle-api/miele/80136-il-miele-attraverso-i-secoli
http://www.placidasignora.com/2012/11/18/le-lacrime-di-ra-storie-proverbi-e-curiosita-sul-miele/
http://bifrost.it/ELLENI/2.Teogonia/06-Nascita_di_Zeus.html]

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Soupe aux oignons – Zuppa di cipolle alla francese

Ci troviamo in Auvergne, regione della Francia situata proprio al centro del Massif Central. Qui convivono due lingue quella del resto del paese, e quella d’oc, retaggio dell’antichità, secondo cui la regione è ancora oggi chiamata Auvèrnha. La regione nasce con gli Arverni, tribù gallica da cui prende il nome. Gli Arverni a loro volta sono noti per il loro comandante supremo, un giovanotto di nome Vercingetorige, al quale si deve l’unificazione della tribù celtiche dell’antica Gallia e una sconfitta clamorosa ai danni di Giulio Cesare a Bibracte.
L’iconografia ufficiale ce lo presenta come un gigante baffuto, una specie di Hulk Hogan dei tempi andati, e in effetti i Galli apparivano ai Romani come giganti, biondi e pelosi. In realtà il giovane Vercingetorige, era definito adulescens, ovvero uomo sotto i trent’anni secondo il diritto romano, nei Commentarii de bello Gallico di Giulio Cesare, nel VII capitolo, quasi interamente dedicato a lui. Attorno al 58 a.C., quando Cesare già combatteva in Gallia e scriveva il suo De Bello Gallico, Vercingetorige era un ragazzo sui vent’anni, di nobili natali, figlio del re Celtillo, e molto probabilmente all’interno dell’entourage militare di Giulio Cesare che gli fece indirettamente da maestro sulle tecniche di guerra dei romani, in
cambio della sua collaborazione e della sua conoscenza del territorio e
delle usanze della Gallia. Dal 58 al 53 si svolse una lunga campagna di guerra, durante la quale molte tribù celtiche vennero debellate o ridotte all’obbedienza, facendo degli Arverni il cuore della resistenza, in un territorio molto ricco di risorse ed evoluto economicamente. Mentre Cesare tornava per un periodo verso la Gallia Cisalpina, nell’inverno del 53, Vercingetorige, si mosse per creare una resistenza all’ulteriore avanzata romanaverso ovest.
« Allo stesso modo Vercingetorige, figlio di Celtillo, Arverno,
giovane influentissimo, il cui padre era stato l’uomo più autorevole
della Gallia e, aspirando al regno, era stato giustiziato dai suoi
compatrioti, convoca i suoi clienti e senza fatica li infiamma. »
Il racconto di Cesare non è totalmente obiettivo e fa apparire la resistenza arverna, capeggiata da Vercingetorige, qualcosa di molto simile ad una congiura, con un capo che raccatta i suoi sostenitori tra i diseredati delle campagne già battute dalla falce romana. Il capo degli Arverni invece riesce effettivamente ad unificare sotto di sé le tribù galliche, pur con l’uso della forza, prendendo in ostaggio i figli dei capi tribù per assicurarsi la fedeltà di questi ultimi. Forma quindi sotto di sè un clan potente che gli giustifica il nome che significa “il grandissimo re dei guerrieri”. 
Nel 52 egli impegna i romani in una sfiancante guerra d’inseguimento, facendo terra bruciata dietro di sé e mettendo in atto tutte le tecniche di guerra imparate dai romani.
Dopo alcune fasi molto favorevoli al capo dei galli, la fortuna volge alla fine verso Cesare. Con l’assedio di Alesia, Vercingetorige venne costretto alla resa e venne portato in catene a Roma per poi essere ucciso.
Il suo mito scomparve per risorgere solo nell’800, come simbolo nazionalista francese.
L’Alvernia è famosa non solo per il mito di Vercingetorige, ma anche per i suoi paesaggi, vulcani e sorgenti, e le sue industrie, Michelin e Danone, solo per fare due nomi, hanno in zona alcuni importanti stabilimenti, ma anche, dal punto di vista gastronomico alcuni dei formaggi più importanti della Francia: sono quattro le denominazioni DOP: Cantal, Bleu d’Auvergne, Fourme d’Ambert, Saint-Nectaire.
Contesa invece tra i pastori d’Alvernia e il celebre Nicolas Appert è la zuppa di cipolle. La leggenda vuole che il particolare metodo di cottura che fa caramellare le cipolle sia stato inventato proprio da Appert. Si narra che il duca di Lorena, in viaggio verso Parigi per far visita alla figlia Maria, sposa di Luigi XV, si imbatté in questa superba zuppa e si rifiutò di proseguire se non ne avesse prima imparato il segreto.
Altri raccontano che questo piatto fosse diffuso in Alvernia da secoli, tra i pastori che la preparavano con i pochissimi ingredienti: burro, cipolle, pane e formaggio. Il segreto è la dolce cottura delle cipolle che caramellano quasi senza aggiunta di zuccheri.

 La ricetta: Soupe aux oignons – Zuppa di cipolle alla francese
500 g di cipolle dorate
60 g di burro
1 cucchiaio di zucchero di canna
1 cucchiaio di farina 00 
1,5 l di brodo vegetale
100 ml di vino bianco
timo
lauro
180 g di Gruyère
sale 
pepe
1 baguette 

Preparare il brodo vegetale.
Nel frattempo tagliare finemente le cipolle. prendere una padella ampia e sciogliervi il burro, aggiungendo poi le cipolle. Iniziare la cottura a fuoco vivace, poi abbassare e far dorare le cipolle lentamente. Se faticano a colorare e caramellare aggiungere lo zucchero e qualche cucchiaio d’acqua. Quando sono ben colorate, sfumare con il vino bianco ed aggiungere poi la farina, mescolando bene. Aggiungere il brodo e poi regolare di sale e pepe, aggiungendo anche le erbe aromatiche. Far proseguire la cottura a fuoco molto basso, senza far evaporare troppo liquido e coprendo all’occorrenza.
Grattugiare il formaggio e tostare il pane.
Dopo 40 minuti di cottura la zuppa è pronta. Mettere sul fondo di cocotte adatte al forno un crostino di pane. Cospargerli di formaggio e coprirli con la zuppa. Completare con due crostini di pane e abbondante formaggio grattugiato. Infornare subito sotto il grill finchè il formaggio non è dorato. Servire subito.
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“Piramidi e Pentole” ad ExillesFest e i Dolcetti del Faraone

Questa non è una ricetta, è un’archeoricetta!

Parliamo di Archeoricette come avevo già fatto qui e qui. Non c’entra nulla la bistecca di brontosauro…ma ricostruzioni attendibili delle ricette che “potevano” esistere nell’antichità.
Siamo ad un nuovo capitolo e ad un nuovo libro per Gene Urciuoli e per Marta Berogno.
Si parla di Piramidi e Pentole,
ovvero di quello che è arrivato fino a noi della cultura gastronomica
egizia
L’espediente utilizzato per raccontare questi aspetti è
l’analisi dei geroglifici che parlano di alimentazione. Come accade per i reperti archeologici, in archeoricette ogni singolo alimento è interpretato come strato archeologico che deve essere contestualizzato cronologicamente e geograficamente per portare ad affascinanti interpretazioni. In alcuni casi ci sono ricette tramandate dalle fonti, in altri casi sono ricostruzioni accettabili e verosimili di quella che poteva essere l’alimentazione dell’epoca.

In questo volumetto si parte dalla parola e dal fatto che nelle decorazioni tombali egizie la rappresentazione del cibo e degli atti che ne descrivevano la preparazione aveva così tanta rilevanza: il cibo, non soltanto bisogno primario nella vita terrena, ma anche una necessità da soddisfare nell’aldilà, tanto che suppellettili per cucinare e formule per ottenere magicamente il cibo erano conservate nelle sepolture.
Questo libro a metà tra un compendio di grammatica egizia e un libro di storia dell’alimentazione, svolge il difficile compito della divulgazione anche verso un pubblico solitamente distante da questo genere di tematiche. Da un lato spiega la composizione delle scritte, dall’altro approfondisce brevemente le abitudini culinarie.
Il 31 agosto, ad Exilles, nell’ambito di ExillesFest ci sarà una nuova presentazione di questo libro, insieme agli autori Marta Berogno e Generoso Urciuoli.
Io cucinerò e racconterò una rielaborazione delle “golosità di Ramses”, mentre Irene del blog Stuzzichevole, proporrà i “Dolcetti al cipero”, entrambe tra le ricette presenti all’interno del libro.
Le “golosità di Ramses” dolcetti di cui il faraone doveva essere ghiotto, si trovano rappresentati all’interno della sepoltura del faraone Ramses III, insieme a tutte le fasi della preparazione: sicuramente un suggerimento per i servitori dell’aldilà che avrebbero potuto, in questo modo, deliziare il sovrano.  
Ho modificato la ricetta proposta per rendere questi dolcetti meno compatti. La prima volta ho aumentato la dose di formaggio di capra, ma non è stato sufficiente, quindi ho aggiunto un poco di lievito di birra.
La ricetta: Dolcetti del Faraone (in forno)
200 g di semola di grano duro
1 pizzichino di lievito di birra fresco
200 g di formaggio cremoso di capra
2 cucchiai di miele
2-3 cucchiai d’acqua

per decorare
miele q.b
2 cucchiai di semini di papavero

Sciogliere il lievito di birra nei due cucchiai d’acqua e amalgamarvi il miele.
Mescolare la farina con il formaggio fresco e la pappetta di lievito e miele e formare un impasto omogeneo e ben lavorato.
Far lievitare per un’ora circa.
Riprendere l’impasto, tagliarlo a pezzi e per ogni pezzo ricavare dei rotolini lunghi e sottili, di circa 1/2 o 1 cm di diametro. Arrotolare il rotolino su se stesso come per formare una spirale e quando la spirale ha raggiunto un diametro di circa 2 cm, tagliarla con il coltello e metterla su una teglia infarinata. Proseguire fino ad esaurire l’impasto.
Infornare a 180° C per 15 minuti circa. Sformare, deporre su un piatto ed irrorare con miele e semini di papavero.

Qui sotto la prima versione dei dolcetti, senza lievito; mantengono molto meglio la forma, ma sono troppo compatti e sebbene dolci molto lontani dal gusto odierno, volevo presentare all’ExillesFest un assaggio che fosse anche gradevole ai nostri palati.

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Da Gertosio un aperitivo speciale con i vini di 84.81Wine

A Torino ci sono posti speciali e ricchi di storia e per chi mi conosce sa che tuffarmi in un’atmosfera d’altri tempi è per me un invito a nozze.
L’amore per la pasticceria della famiglia Gertosio nasce nel lontano 1840, quando il signor Fedele Gertosio fonda la Panetteria e Pasticceria Buschese a Busca (CN). Nel 1880 ad opera di suo figlio Quinto la pasticceria si sposta nel capoluogo, a Cuneo, prima in via Nizza, e nel 1936 in via Barbaroux.
Durante la guerra il forno fu confiscato dai tedeschi ma i Gertosio trovarono il modo per rifornire anche i partigiani grazie a segretissime consegne notturne in bicicletta.
Dopo la guerra l’attività si spostò a Roma. I Gertosio vennero subito conosciuti per la spettacolare bontà dei loro dolci e per l’intraprendenza della madre Paola che con una cesta di vimini piena di maritozzi e croissant entrava per la prima volta al Bar Nord, vendendo tutta la scorta della mattinata in un colpo solo. Ben presto la mole degli affari crebbe, il laboratorio era in via Tiburtina e da lì ogni mattina partivano 5 giardinette furgonate per consegnare in tutta Roma.
Il destino fa sì che l’attività si sposti nuovamente a Torino nel 1965, e Gianni comprende che il futuro sta nella lavorazione del cioccolato.
Accanto a paste e torte di ogni genere, buona parte dell’impegno viene dedicata al cioccolato, indagando attraverso l’assaggio i gusti della clientela. Il lavoro dedicato al cioccolato permette a Gianni di essere premiato ad Annecy con un cioccolatino francese, il napolitaine. Nel mentre la moglie Giusy, con un occhio alle confezioni bellissime per le quali la pasticceria era nota, diventa la presidente delle donne pasticcere di Torino ed organizza viaggi di studio per le quote rosa della pasticceria in tutto il mondo.
Dal 1987 a tenere le redini della Pasticceria Gertosio è Massimo, che dal mattino alla sera è in negozio, ma che parla sempre di passione per ciò che fa. Inizia nel laboratorio di via Balme ed ora dal 1999 è nell’antico negozio di via Lagrange. Qui i panettoni si comincia a produrli ad ottobre e non si smette fino all’arrivo dei primi caldi, un po’ per mantenere sempre attivo il lievito madre e un po’ perchè la cientela che li conosce ama gustarli tutto l’anno, soprattutto quello con l’albicocca candita, candita da loro, naturalmente.

Nel bel locale, dichiarato da qualche anno locale storico, fanno bella mostra le targhe dei Maestri del Gusto insieme ad antiche scatole di latta di cioccolatini e biscotti e ai prodotti più speciali che qui si sfornano e si vendono.
In primo luogo la Torta Sabauda, nata negli anni ’90 dalla creatività di Gianni, ma consultando i vecchi appunti di ricette del nonno Quinto ed immaginando i gusti sofisticati della corte sabauda. Si tratta di un piccolo capolavoro confezionato con un cuore di farina di nocciole e cacao ricoperta di cioccolato gianduia che, come un prezioso guscio, ne mantiene la freschezza; 500 piccole torte sono recentemente partite per Osaka dove hanno trovato un nuovo proficuo mercato.

Accanto a lei il Sabaudo, un caffè ricoperto di panna con granella di nocciole e crema di nocciole.
A questo proposito la Crema di Nocciole Gertosio è con il 31% di nocciole Piemonte e polvere di cacao profumatissima; poi 36 ore di concaggio per un prodotto davvero ricercato.

Tra le specialità le Palle di Pietro Micca che, al largo da facili allusioni, fanno riferimento alle granate esplose dall’eroe piemontese nei cunicoli della cittadella durante l’assedio francese del 1706. Sono due meringhe alle nocciole tenute insieme da cioccolato gianduia. Anche la Torta dell’Assedio ha la stessa composizione; si narra, infatti, che nonostante la mancanza di generi di prima necessità, fosse comunque facile trovare albume e zucchero, con questi i pasticceri sabaudi confezionarono un dolce simile all’attuale specialità di Gertosio.

E se proprio non amate i dolci non ci sono scuse per portarvi un bel souvenir da Torino, c’è anche la Pasta al Cacao da condire con burro o cacao amaro e panna, come consigliato da Massimo.
Io la vedrei bene con un ragù bianco di coniglio.

Gertosio, fino al 3 agosto, anima l’estate torinese come cornice di alcuni aperitivi tematici. Ogni venerdì le sue specialità salate sono abbinate ai vini scelti dai personal winers di 84.81 Wine* oppure ad alcune birre artigianali.

La scorsa settimana toccava allo champagne Louis Brochet, un modo fresco ed informale di bere champagne. Questo venerdì sarà la volta delle birre artigianali Antagonisti.
Accanto ai vini o alle birre un aperitivo vecchio stile, con stuzzichini salati. Assolutamente da provare i cioccolatini che troverete nel piatto, sotto un guscio di cioccolato fondente troverete un bocconcino di Parmigiano Reggiano abbastanza giovane e tenero: un contrasto delizioso di sapori e consistenze, e se Massimo dice che così ha conquistato sua moglie, c’è da crederci!

*84.81Wine porta i personal winer a casa tua; conosciuto il menù che vuoi portare a tavola, Angelo Pusceddu e Christian Termini ti consigliano i vini più adatti per gli abbinamenti e ti sanno indirizzare nei doni e negli acquisti più particolari in ambito enologico.

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