ai fornelli

Il calamaro che scoppia di sapore!!!

Ahimé, oltre a scoppiare di sapore, grazie al gusto avvolgente della mozzarella di bufala, i miei calamaretti sono proprio esplosi durante la cottura!!!
Forse li ho riempiti troppo… Così, però hanno dato un ottimo sapore anche al sughino sottostante. 
Avrei potuto scegliere dei calamari più grandi, anche più facili da farcire… però questi cuociono veramente in pochissimo tempo, restando teneri, e per il tipo di ripieno erano i più adatti. 
La ricetta: Calamari ripieni di mozzarella di bufala su una stuoia di fagiolini
ingredienti (per 2 persone)
500 g circa di calamaretti
100 g circa di mozzarella di bufala
200 g di fagiolini
2 grossi spicchio d’aglio
1 cucchiaino di capperi
prezzemolo e basilico
1 fetta di pane (la mollica)
vino bianco
Per prima cosa ho lessato al dente i fagiolini. Li ho divisi in due parti, una per il ripieno, l’altra per decorare il piatto.
Nel frattempo ho pulito i calamari, mettendo da parte le sacche.
Ho messo la fetta di pane ad ammollare in un dito di vino, e poi l’ho strizzata e sbriciolata.
Ho tritato i tentacolini e li ho messi a rosolare in due cucchiai d’olio con un grosso spicchio d’aglio.
Dopo qualche minuto ho aggiunto una parte dei fagiolini lessati, tagliati a pezzettini lunghi un cm. Ho rigirato per qualche minuto. Ho sfumato con il vino bianco e poi ho aggiunto prezzemolo e basilico tritati e i capperi, sciacquati ben bene. Infine ho aggiunto la fetta di pane sbriciolata.
Prima di spegnere, eliminare l’aglio, assaggiare ed eventualmente regolare di sale.
Ed ora, Calamaro, a me! 
Armata di santa pazienza, perchè erano piccolini, ho riempito le sacche dei calamari con il ripieno, aggiungendo in ciascuno qualche pezzettino di mozzarella di bufala, lasciata a scolare dal latte per una decina di minuti.
Fatto ciò occorre chiudere i calamari con uno stecchino.
Io li avevo dimenticati e quindi ne ho fatto a meno, anche perchè in cottura il calamaro si restringe e quindi il ripieno esce difficilmente con una cottura così breve.
I miei, purtroppo, hanno avuto un altro genere di incidente e si sono aperti in lunghezza. Dalla foto sembrano quasi più belli così!!!
Li ho fatti rosolare velocemente in olio e aglio, aggiustando di sale e di pepe.
Una volta cotti ho messo in fila una manciata di fagiolini sul piatto e sopra ho fatto sdraiare i miei calamaretti, che sono velocemente finiti in pancia!!
E sopra ci abbiamo bevuto un Gavi del 2009, dell’azienda agricola di Cinzia Bergaglio, acquistato personalmente in cantina!
ai fornelli

Si scrive Buchteln ma si legge Danubio

Il Danubio è una tipica torta rustica partenopea composta da palline di pasta lievitata colme di un ripieno dolce oppure salato. 
La frase che avete appena letto non è del tutto corretta.
La storica pasticceria Scaturchio a Napoli
In effetti questa sorta di torta composta da tante briochine a forma di pallina non nasce a Napoli, ma è entrata in pieno nella tradizione con il nome di Danubio o di Torta Danubiana. La “inventa” Giovanni Scaturchio, d’origine calabrese, che nel 1905 aveva fondato una pasticceria a Napoli in piazza San Domenico Maggiore, pasticceria rinomata ancora oggi.
Negli anni ’20 del ‘900 Scaturchio era tornato a Napoli, dopo la Grande Guerra, portando con sé una moglie salisburghese. Della pasticceria Scaturchio erano già note e rinomate la Pastiera, i Babà, le Sfogliatelle ricce, i Roccocò, gli Struffoli, un paradiso per i golosi insieme al Susammiello calabrese; ma proprio dagli anni ’20 iniziano ad esser prodotti dolci nuovi per i palati napoletani: lo Strudel, la torta Sacher e proprio il Buchteln, che per il nome troppo “esotico” viene presto italianizzato in Briochina dolce del Danubio, ripiena di marmellata.
Per la sua versatilità viene presto creata anche una versione salata che si mimetizza con gli “sfizi”, i fuoripasto della tradizione partenopea, farcita con provola e salame.
Il Buchteln però non scompare e resta nella tradizione dei dolci austriaci e trentini. Oggi è ben conosciuto da queste parti con l’antico ripieno di marmellata di albicocche, un must dei dolci austriaci, ed accompagnata ad una leggera crema alla vaniglia.
Credevo di preparare un Danubio, quindi, ma senza saperlo ho fatto un Buchteln!!!
La ricetta: Buchteln alla marmellata di albicocca con crema alla vaniglia
Per l’impasto:
275 g di farina 00
1/2 bustina di lievito di birra secco
125 g di latte
25 g di olio di semi
75 g di zucchero
un pizzico di sale
1/2 uovo (circa 30 g) (l’altra metà serve per spennellare alla fine)
una manciata di zucchero di canna
Ho fatto rinvenire il lievito nel latte tiepido con la punta di un cucchiaino di zucchero.
Ho messo in una ciotola capiente la farina, ho aggiunto lo zucchero, l’olio, l’uovo sbattuto con un pizzico di sale, il lievito precedentemente sciolto nel latte.
Ho impastato a lungo, aggiustando di farina, in modo da ottenere un impasto morbido e liscio.
Ho messo a lievitare in una ciotola coperta con pellicola in un luogo riparato per almeno 1h e mezza. L’impasto deve raddoppiare di volume.
Poi ho cominciato a formare le palline: si prende un pizzico di pasta grande poco più di una noce, si schiaccia tra le dita come per fare una focaccina, poi si mette nel palmo della mano e si farcisce con la marmellata, richiudendo poi i bordi come un fagottino.
Farcitura:
io ho usato un barattolino di marmellata di albicocche (la mia era fatta in casa con la pectina 2:1, quindi non era troppo dolce e conservava una nota acidula). Bisogna avere l’accortezza che la marmellata sia fuori frigo, in modo che il freddo non danneggi la lievitazione della pasta.
Ho formato quindi 22 palline e le ho messe nella teglia, lasciando un po’ di spazio tra l’una e l’altra. Ho rimesso a lievitare per almeno un’altra mezz’ora. Le palline devono crescere fino ad attaccarsi l’una all’altra.
Ho scaldato il forno a 175° e prima di infornare ho spennellato la superficie del dolce con uovo e latte, spargendo poi sopra una manciata di zucchero di canna. La cottura varia dai 20 ai 30 minuti.
La crema che ho usato per accompagnare il Danubio era una crema al latte senza uova.
250ml latte
70g zucchero
20g farina

una stecca di vaniglia

Ho messo a scaldare il latte in un pentolino con i semini di vaniglia. Non deve bollire, ma ho lasciato in infusione per dieci minuti.
A parte ho miscelato farina e zucchero e ho aggiunto qualche cucchiaio di latte per creare una cremina, poi ho amalgamato al restante latte e ho rimesso sul fuoco, mescolando, finchè non comincia a raddensarsi.
Quando la crema sarà fredda, sarà anche completamente densa.
L’ho deposta sul piatto e sopra vi ho posizionato una pallina di buchteln.
Dopo averne mangiato qualcuna senza crema direttamente con le mani, of course!!! 😀

Questa ricetta partecipa alla raccolta Abbecedario Culinario d’Europa, per l’Austria
 

http://abcincucina.blogspot.com.es/2012/12/benvenuti-in-europa.html

ai fornelli

Il giveaway di La Cuochina Sopraffina

Ieri, dopo infinite peripezie, dovute in parte a Poste Italiane e in parte alla mia postina, mi è arrivato un pacchetto!
E non era un pacco qualsiasi, in primo luogo perchè arrivava da Dublino…e in secondo luogo perchè era un regalo!!!
Infatti era il premio che ho vinto partecipando al giveaway della Cuochina Sopraffina su Facebook!!!
Se ancora non la conoscete cercatela qui: La Cuochina Sopraffina.

Ed eccomi qui, con i miei premi:

Grazie Veru!!! Ti penserò cucinando!!! 😀

ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

La mia cena cinese fatta in casa

Ci pensavo già da qualche giorno, da quando avevo visto la ricetta degli involtini primavera sul blog di Vera. Ho pensato che invece di fare il solito pollo alle mandorle potevo abbinare diversi piatti.

Il caso ha voluto che incrociassi anche la foto dei Mantou in una mostra sul pane che c’è alle Ex OGR qui a Torino. Questi famigerati mantou, io non li avevo mai sentiti… Si tratta di pane cinese, un pane lievitato e poi cotto a vapore, che resta sofficioso e bianco e che si trova coniugato in diverse declinazioni anche in Giappone, Corea e Filippine. 
Alcuni li servono anche in versione dolce, facendo bocconcini piccini e bagnandoli in una salsa che assomiglia al latte condensato.
Quindi sono andata alla ricerca della ricetta dettagliata. Ho trovato diverse alternative in rete, ma alla fine ho usato, come al solito, una soluzione mia, mescolanza di tutte le altre…diminuendo un po’ le dosi, per l’esigenza di non riempirmi la casa di panini cinesi, (come Heidi aveva riempito l’armadio di panini bianchi!!! Qualcuno se la ricorda?).

Infine c’era il pollo alle mandorle, che preparo abbastanza spesso, perchè mi piacciono i piccoli pezzettini sugosi e la croccantezza delle mandorle.

Alla fine di un pomeriggio full immersion nella cucina cinese ho pensato che il detto “lavorare come uno schiavo” non era più azzeccato…quindi è stato prontamente sostituito con “lavorare come un cuoco cinese”!!!

Ora metto tutte le ricette e un po’ di foto!!!
Qǐng xiǎngyòng! [Buon appetito!]

Gli involtini primavera.

Ho seguito pari pari la ricetta di Vera che trovate qui.
Per mia comodità metto le dosi che ho utilizzato, con le quali ho confezionato 12 involtini.
per le sfoglie:
150 g di farina (anche farina di riso)
50 g di semola fine
375 g di acqua
1 cucchiaino di sale
per il ripieno:
1/3 di un cavolo cappuccio
1 carota grossa
1/2 porro
2 cucchiai di salsa di soia (io uso quella dolce, così poi regolo di sale alla fine, per non trovarsi con un cibo troppo salato nel piatto)
per friggere:
olio di arachidi
Il procedimento è spiegato molto bene, perciò non aggiungo altro, se non qualche consiglio:
–  non fare la sfoglia troppo spessa, altrimenti è a rischio rottura durante l’arrotolatura; 
–  non fare la sfoglia troppo sottile, altrimenti è a rischio rottura durante la frittura;
– mettere gli involtini pronti, in attesa di essere fritti, in un piatto leggermente unto, altrimenti c’è il rischio rottura;
– friggere bene il primo lato prima di girare l’involtino, altrimenti si è a rischio rottura;
A parte queste accortezze, è abbastanza facile farli, anche se occorre un po’ di pazienza!!!
Io ne ho fritti solo sei, gli altri li ho avvolti in pellicola per alimenti e congelati.
Il ripieno dei miei involtini mi è sembrato più saporito di qualsiasi altro assaggiato in ristorante cinese, ma credo che fosse l’adrenalina per essere riuscita a prepararli!! 🙂
belli dorati
Pollo alle mandorle
(per 2 persone)
circa 250 g di petto di pollo, (peso già privo di scarti)
35 g di mandorle pelate
salsa di soia dolce (da aggiungere a piacere)
mezzo bicchiere di vino bianco
un cucchiaio di farina
sale, olio
Per prepararlo, taglio il pollo, ben pulito, a cubettini di un cm di lato e lo metto a marinare in frigorifero, con il vino bianco e la salsa di soia. Deve marinare un paio d’ore, in modo che si insaporisca bene. Mezz’ora prima di cuocere aggiungo anche le mandorle nella marinatura.
La cottura sarà molto veloce, perchè i pezzettini così piccoli cuoceranno in un attimo, quindi la marinatura è molto importante.
Nell’olio caldo, verso i pezzettini di pollo e le mandorle, facendoli rosolare per qualche istante. Poi aggiungo il liquido di marinatura e lascio cuocere per qualche minuto.
Diluisco la farina con un cucchiaio del brodino di cottura e poi aggiungo il tutto in padella. Servirà per far rassodare il sughetto e renderlo vellutato.
Regolare di sale prima di servire.
il pollo alle mandorle
Mantou (Panini cinesi al vapore)
ingredienti (per 8 mantou, più una parte di impasto che andrà a costituire 6 baozi):
per l’impasto:
200 g di farina
1/4 di bustina di lievito secco (bustina da 7g)
la punta di un cucchiaino di zucchero
80 ml di acqua

Una parte di questi mantou sono diventati baozi, ovvero hanno accolto un po’ di ripieno dell’involtino primavera, oppure un ripieno fatto con la carne tritata di maiale. Così ripieni ci sono piaciuti di più, concettualmente assomigliano ai ravioli al vapore, ma rimangono gonfi perchè lievitati.

per il ripieno dei baozi:
qualche cucchiaiata del ripieno degli involtini primavera
3 cucchiai di carne tritata magra di maiale
due cucchiai di salsa di soia dolce
sale
un pezzetto di cipolla tritata

Ho sciolto il lievito in acqua con la punta di zucchero ed ho aspettato che si formasse la schiumetta in superficie (circa 15 minuti).
Ho cominciato ad aggiungere acqua alla farina e ad impastare con una forchetta e quando la palla si è staccata dai bordi della ciotola ho aggiunto un piccolo pizzico di sale.
Ho impastato a lungo ed energicamente sulla spianatoia, finchè la pasta non è diventata liscia.
Ho messo a lievitare in un luogo riparato.
Dopo un’ora ho ripreso l’impasto, l’ho sgonfiato e rimesso a lievitare per un’altra mezz’ora.
Passato questo tempo ho messo su una pentola piena d’acqua la gratella per cuocere le verdure a vapore. Sarebbe meglio avere i cestini di bambù che utilizzano nei ristoranti cinesi…ma come immaginate non ne ero fornita!! 😀
Ho fatto delle palline grandi come albicocche. In realtà consiglio di farle più piccole, perchè in questo modo il panino cresce meglio e cuoce uniformente; bisogna tener presente che in cottura lieviterà e quindi bisogna lasciargli lo spazio tutto intorno.
Perchè non si attaccassero ho messo una spolverata di semola sul fondo.

i miei mantou sono un po’ grandi…
Con una parte di impasto ho fatto dei baozi. E’ sufficiente prendere una porzione di impasto schiacciarla come se fosse una focaccetta e riempirla con verdure o carne ed infine richiuderla pizzicandone il bordo. Io ho usato una parte del ripieno degli involtini primavera e un altro ripieno fatto con carne tritata di maiale, passata velocemente sul fuoco con cipolla e salsa di soia.
Poi si cuociono a vapore come i mantou.
Questi panini si servono caldi ma, se non avete una cucina professionale con cento fornelli, potete tenerli in un piatto, a portata di calore, mentre si finiscono di preparare gli altri piatti!!! 

Quelli tondi sono baozi con verdure, quelli lunghi baozi con carne…brutti ma buoni
Ecco il ripieno del baozi

Vi lascio con una breve leggenda sulla nascita dei mantou.

Si narra che il conquistatore Zhuge Liang di ritorno da una delle sue campagne di conquista si trovò davanti un fiume talmente impetuoso che sembrava impossibile guadarlo. Un saggio gli disse che era usanza sacrificare cinquanta uomini per placare gli dei dell’acqua, ma Zhuge Liang era stanco di spargere sangue. Allora fece macellare le bestie che viaggiavano insieme all’esercito e con la loro carne farcì dei panini a forma di testa, tondi sopra e piatti alla base, che fece gettare nel fiume. Dopo che l’attraversamento ebbe successo, ribattezzò questi panini mantou, ovvero testa di barbaro.
ai fornelli

La chiamavano Nastrina…

Alla ricerca della colazione perfetta, sto provando – in gran segretezza nei miei laboratori sotterranei duemetriperdue – a confezionare vari tipi di dolcetti e torte da prima colazione. Prima o poi arriverò a pubblicare tutti gli esperimenti arretrati, alcuni anche piuttosto gustosi, ma che necessitavano di perfezionamento, chi nella cottura, chi nella farcitura.
Questa ricetta invece la pubblico subito, anche se la sfoglia a mio parere doveva essere tirata più sottile, per ottenere una sfogliatura uniforme e anche se, come vedete dalle foto, la forma è tutt’altro che perfetta.
Dovevano essere simili alle Nastrine del Mulino-che-tutti-conoscono, ma con la seconda lievitazione si sono deformate…beh, non importa!!! Perchè le loro pieghine croccantine ci sono piaciute ugualmente.
Sono poco dolci, sebbene abbia aumentato la dose di zucchero, rispetto alla ricetta originale della Cucina di Marble e di Frutta&Zafferano. Forse ci andrebbe una più generosa spolverata di zucchero che caramelli, poco prima di sfornare.
Il sapore del burro invece non è affatto invadente. 
La ricetta: La chiamavano Nastrina
Con queste dosi ne vengono 6 pezzi (vedrete strane dosi, ma ho preferito farne poche perchè come al solito la conservazione è la loro pecca)
112 g farina 
un pizzicotto (circa 3 g) di lievito di birra
50 ml  di latte tiepido
30 g zucchero
15 g burro (a temperatura ambiente!)
1/2 uovo (l’ho aperto, sbattuto con la forchetta e poi pesato)
1 pizzico di sale

per sfogliare:
50 g di burro
30 g di zucchero

Ho prima sciolto il lievito e la punta di un cucchiaio di zucchero in un po’ di latte intiepidito.

In uno scodellone ho messo la farina e vi ho aggiunto il latte con il lievito, mescolando. Ho poi aggiunto il restante zucchero, l’uovo sbattuto con il pizzico di sale e il restante latte.
Ho poi rovesciato l’impasto sul tavolo e, aggiungendo un po’ di farina perchè non si attaccasse, ho cominciato ad impastare a mano. L’impastatura deve essere energica e durare a lungo fino ad ottenere un impasto liscio.
A questo punto ho aggiunto il burro (i 15 g) spalmandolo sul palmo della mano e amalgamandolo all’impasto finchè non viene assorbito completamente.
Poi ho messo l’impasto in una ciotola, l’ho coperta con un velo di farina e la pellicola per alimenti e l’ho messa a lievitare in un luogo riparato. Deve raddoppiare. Con il caldo di questi giorni ci sono volute due ore circa, io l’ho lasciato anche un pochino in più.
Poi ho proceduto con la sfogliatura.
Ho preparato la crema al burro, montando il burro morbido (i 50g) con lo zucchero.
Ho deposto l’impasto sulla spianatoia infarinata, l’ho lavorato velocemente per sgonfiarlo un po’. Poi l’ho steso in una sfoglia lunga-lunga e larga circa 12 cm. Tirate questa sfoglia molto sottile, circa 2 millimetri. La mia non era sottilissima e poi la sfogliatura ne risente.
Bisogna spennellare la crema al burro su metà sfoglia, e ripiegare sopra l’altra metà. Lo strato di crema deve essere sottile ma uniforme.
Si ripete l’operazione per quante volte riuscite, tenendo conto che la sfoglia tende un po’ a ritirarsi e che bisogna fare almeno 5 o 6 pieghe. Si mette sempre la crema su metà strato e si ripiega sopra l’altra metà. (spero che sia chiaro il procedimento, ma per chiarezza andate a guardare le foto qui)
Una volta effettuate tutte le pieghe, si schiaccia leggermente con il matterello  ho tagliato delle strisce di circa 2 cm. A volerle fare più sottili a me usciva il burro di lato.
A quetso punto si depongono sulla teglia, distanziate perchè cresceranno ancora, effettuando una mezza torsione come con l’incarto delle caramelle.Si lasciano lievitare fino al raddoppio, circa 30 o 40 minuti. 
Infine ho spennellato con uovo sbattuto e zucchero e infornato in forno caldo a 180°.
Le mie hanno cotto in 25 minuti e prima di sfornarle le ho bagnate con acqua e zucchero e tenuto in forno ancora un minuto. 
Il suggerimento è di congelarle, trasferirle in frigo la sera prima e scaldarle poi in forno al mattino, prima di gustarle.
ai fornelli, storia & cultura

Sformatini di couscous con pomodorini, vongole e feta

Il couscous è un piatto antichissimo che affonda le sue radici nella leggenda, infatti si narra che Re Salomone se ne fosse cibato per trovare sollievo dalle pene d’amore provate per la Regina di Saba.
Lasciando la leggenda per la storia, la prima menzione del piatto con questo nome è in un libro andaluso di cucina del XIII secolo. L’autore del volume parla di una meravigliosa ricetta da lui gustata a Marrakesh, l’alcuzcuz fitiyani, descrivendone la ricetta e specificando che esso era già ben conosciuto in tutto il mondo. Non esagerava, visto che durante la dinastia Nasrid, che governò Granada in quegli anni, al couscous era stato addirittura dedicato un poema.
In Andalusia e in tutta la Spagna il couscous era arrivato con gli arabi, ma è assai più probabile che la più importante diffusione sia avvenuta attraverso le migrazioni delle popolazioni berbere del Nord Africa. Infatti in lingua berbera il couscous viene chiamato kuskusu, kisksu, siksu, kusksi, kuskus, a seconda dei dialetti, ma non è mai preceduto dall’articolo al, come avviene nelle pietanze di origine araba.
Linguisti e antropologi, non sazi di notizie e couscous, ipotizzano che le radici di questo cibo si possano far risalire all’Africa sub sahariana e che quello che è stato poi traslato in Europa non sia altro che una rielaborazione di un piatto preparato dalle schiave nere dei tuareg e delle facoltose famiglie marocchine. Il piatto d’origine è ancora ben noto in Senegal e viene chiamato bassi salté; si tratta di un piatto da pastori che ben si adattava al nomadismo degli antichi berberi.
Esiste anche una geografia del couscous che scorrendo la superficie del Nord Africa si ferma all’improvviso al golfo della Sirte, a metà della costa libica, cedendo il passo, verso Oriente al bulghur, letteralmente “grano spezzato”.
Oggi indichiamo con couscous sia la semola preparata appositamente, sia il piatto finito con accompagnamento di carni e verdure. In Nord Africa si serve tradizionalmente in un grande vassoio rotondo, dove attingono tutti i commensali. Basta questo per capire la ritualità e convivialità di questo piatto. Esso segna anche la fine del Ramadan, assumendo una connotazione positiva di abbondanza e benedizione divina.
Rituale anche la sua tradizionale preparazione, alla quale si dedicavano, naturalmente, le donne; esse si riunivano tutte insieme per vari giorni, per preparare una grande quantità di cous cous in grani che si poteva poi conservare per dei mesi. Durante la cottura a vapore della semola non bisognava parlare di cose nefaste ma solo di affetti e di buoni propositi, ma il carattere rituale della preparazione attirò in Spagna l’attenzione nefasta dell’Inquisizione che arrivò a proibirne l’uso!!! Non con grande successo, a quanto pare, visto che il piatto proibito è arrivato fino ai giorni nostri e ormai dappertutto, tanto che si potrebbe creare una mappa dei flussi migratori, seguendo i granelli di couscous.
Lo troviamo in Italia, nel trapanese, cucinato sotto forma di zuppa di pesce ma, fatto ancor più sorprendente, lo troviamo a pieno titolo nella cucina brasiliana, unico risultato positivo della nefasta tratta degli schiavi dall’Africa occidentale, fino a diventare piatto simbolo di Sao Paulo sotto forma di sformato e di dolce.
Per noi mangiarlo è molto più semplice! Il couscous si trova precotto e dà rapidi ed ottimi risultati! L’ideale è accompagnarlo alle carni e verdure della tradizione o a un piatto umido di pesce, ma per uno spuntino leggero, durante la calura estiva, ce lo concediamo anche così.

La ricetta: Sformatini di couscous con pomodorini, vongole e feta
Non faccio la lista degli ingredienti, perchè mi sono regolata ad occhio.
Il cous cous basta reidratarlo ed è pronto in un attimo; le vongole erano in barattolino, e le ho fatte solo saltare in padella con olio, aglio, un dito di vino bianco e prezzemolo, badando a lasciarle umide, perchè il loro sughino condirà il couscous; la feta l’ho tagliata a dadini, i pomodorini anche e li ho conditi con olio e sale e lasciati insaporire per una ventina di minuti.
Poi ho mischiato tutti gli ingredienti al couscous appena tiepido, ho unto due stampini e vi ho messo il tutto all’interno. Poi ho pressato bene e messo in frigo.
Al momento di servire ho capovolto lo stampino nel piatto e via!
La cosa più lunga da fare sono state le foto!!! 😀

ai fornelli

Confettura verde di zucchine, mandorle e menta e il contest di Dolcezze di Nonna Papera

Cucurbita pepo, ovvero la zucchina! O lo zucchino…perché è un frutto neutro di nome e di fatto. Anche il suo sapore è delicato e quasi acerbo, immaturo, perché la zucchina se colta troppo matura fa i semi – tanti semi – e non è più commestibile.
Questo frutto proviene dagli Altopiani del Messico e i primi a cucinarlo furono gli Atzechi, ma una volta giuntoa qui in Italia non l’ha più abbandonata trovando il terreno ideale per esprimersi in tantissime preparazioni, offrendosi come contenitore dal sapore lieve per un gustoso ripieno o come generoso sostituto delle melanzane nella parmigiana. Ma è nel fritto che ha ottenuto maggior successo, diventando con lo scapece una vera base della cucina italiana.
Poi è decollata verso l’estero dove la parola “zucchini” è sinonimo di verdura ed è rimbalzata, rinnovata, di nuovo in Italia ed ora non più solo con il salato, ma anche nelle preparazioni dolci, fa bella mostra della sua timida delicatezza.

Una confettura alla zucchina vi sembra azzardata? Provate a farla e scoprirete quanto è deliziosa.
L’avevo già vista in rete tempo prima, ma solo di zucchine e zucchero. 
Pensando ad un qualche abbinamento sensato mi sono venute in mente le mandorle, che ben si sposano con la freschezza dell’ortaggio, e le foglie di menta, reminescenza dello scapece!!!

La ricetta: Confettura verde di zucchine, mandorle e menta
500 g di zucchine freschissime
350 g di zucchero semolato
90 g di mandorle sminuzzate a pezzetti grossi (io, velocemente nel frullatore)
succo di mezzo limone (o uno intero, se è piccino)
30/40 foglioline di menta (se possibile appena colte, che mantengano il loro profumo)

Ho grattugiato le zucchine a julienne.
Ho sminuzzato grossolanamente le mandorle.
Ho messo tutto in una pentola con lo zucchero e ho cominciato la cottura, mescolando fin quando lo zucchero non era completamente sciolto.
Ho lasciato cuocere e quando ha cominciato a bollire ho aggiunto il succo di mezzo limone.
A questo punto ho proseguito la cottura mescolando, e quando la marmellata ha cominciato a rassodarsi (per verificare fare la prova su un piattino, deve fare il velo) ho aggiunto le foglie di menta.
Ho lasciato sul fuoco ancora per un paio di minuti, poi ho riempito i barattoli, li ho chiusi e capovolti, finche non si è formato il sottovuoto.

Con questa ricetta partecipo al contest di Dolcezze di Nonna Papera ” Metti la Natura sotto vetro” 

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Mezzipaccheri al Curry e Gamberi

Il curry ormai, fra ristoranti etnici e ricette fusion, lo conosciamo tutti. Si tratta di una miscela di spezie, tra cui pepe nero, coriandolo, cumino, curcuma e cannella; a volte vi si trovano anche cardamomo, chiodi di garofano, zenzero, noce moscata, fieno greco e peperoncino.
Il termine deriva da cari che in lingua indiana tamil significa zuppa o salsa, facendo riferimento alla preparazione che questa miscela di spezie andava ad insaporire. I britannici hanno fatto confusione ed hanno chiamato curry l’insaporitore e non il piatto finito. 
La miscela in sé in realtà si chiama masala ma proprio per la grande varietà di spezie che ne fanno parte esistono decine di risultati finali differenti, a seconda della preponderanza di una o dell’altra. Il garam masala o il tandoori masala sono i più conosciuti. Quando la miscela viene prodotta artigianalmente, essa rappresenta una sorta di marchio di fabbrica e decreta il successo o l’insuccesso di un cuoco o di una padrona di casa. 
Viene fatta anche un’altra distinzione tra mild curry, più delicato, e sweet curry, più piccante, al contrario di quel che il nome potrebbe suggerire.
Il curry è anche un amico per la salute perchè stimola la digestione, eccitando i succhi gastrici e disinfetta blandamente l’intestino. Ha proprietà antinfiammatorie ed antiossidanti e, grazie alla curcuma, pare proteggere i neuroni da malattie degenerative come il morbo di Alzheimer.
Ed ecco, con il curry, una ricetta per una pasta veloce!!! 

Non ci sono dosi, perchè ci si regola a piacere!!
Occorre in anticipo lessare i gamberi e sbucciarli.
Ho messo la pentola per la pasta sul fuoco e mentre l’acqua raggiungeva il bollore, ho versato in una padella larga due cucchiai d’olio con mezza cipolla (media). L’ho fatta soffriggere un pochino, ci ho aggiunto un dito di vino bianco e ho fatto sfumare.
Ho aggiunto i gamberi, li ho fatti saltare qualche minuto, poi ho versato in padella mezzo bicchiere d’acqua, aspettando che sobbollisse.
Intanto ho salato l’acqua e buttato la pasta.
Ho versato il curry, abbondantemente, perchè ci piace, ma potete regolarvi a vostro gusto, e mescolato.
Quando i gamberi erano ben insaporiti ho spento, aspettando la cottura della pasta.
Dopo aver scolato i paccheri, li ho passati in padella nel sugo al curry, rendendo tutto più cremoso con un cucchiaio di panna.
ai fornelli, storia & cultura

La storia di Arthur Guinness e l’Irish Guinness Beef Stew

Un po’ di storia… 😉
Ritratto di Arthur Guinness
Arthur Guinness nacque a Celbridge nel 1725 nella contea di Kildare, e qui venne spillata la prima pinta di birra Guinness, nell’attuale Mucky Duck Pub.
La famiglia vantava di discendere dall’antico clan dei Magennis della contea di Down, ma la cosa non è provata, pare essere più la conseguenza del successo dell’impresa e del tentativo di elevarne ulteriormente il nome.
Il padre Richard Guinness era l’amministratore delle terre di Arthur Price, arcivescovo di Cashel e padrino di battesimo del piccolo Arthur, e forse produsse birra artigianale per i lavoratori della tenuta, come spesso accadeva in campagna.
Arthur Price ricompensò generosamente il suo fattore, lasciando in eredità, nel 1752, ad ogni membro della famiglia Guinness, ben 100 sterline che all’epoca rappresentavano una piccola fortuna.
Nel 1751 Arthur Guinness aveva già fondato una birreria a Leixlip, iniziando a produrre birra ale, cioè ad alta fermentazione a temperature elevate. Utilizzava quindi il procedimento più antico, ancora oggi ben radicato nella cultura anglosassone e fiamminga, che dà luogo ad una birra ambrata, con gusto fruttato, con un amaro più o meno pronunciato.
la firma sul contratto d’affitto della St.JamesGateBrewery
Qualche anno dopo, nel 1759, Guinness fiutò un vero affare e, lasciando al fratello minore la direzione della piccola impresa di Leixlip, si trasferì a Dublino, al St. James Gate Brewery, riuscendo ad affittare questo sito completamente abbandonato per 45 sterline all’anno, con un contratto della durata di 9000 (!!!) anni.
Pare che Guinness continuò a produrre principalmente birra ale  fino al 1778, facendo intanto esperimenti sulla scura.
Nel 1761 sposò Olivia Whitmore, da cui ebbe 21 figli, dei quali soltanto 10 raggiunsero l’età adulta, e soltanto tre di loro divennero birrai; gli altri discendenti furono missionari, politici e letterati.
Dal 1764 abitò nel North Side di Dublino che in quegli anni era la parte migliore della città, prima di cedere il passo al South Liffey, verso la fine del XVIII secolo. La Beaumont House, dove la famiglia Guinness visse, oggi fa parte del Beaumont Hospital.
L’attività di Arthur andava a gonfie vele, visto che nel 1767 fu messo a capo della Corporazione dei Mastri Birrai di Dublino.
Già dagli anni ’60 del Settecento alcuni birrai di Dublino provarono a produrre della birra porter. Con questa denominazione si indicava la stout porter ovvero una birra con caratteristiche un po’ più leggere della normale stout, prodotta ad alta fermentazione e caratterizzata da una tostatura molto marcata che le conferiva il caratteristico colore scuro, con una gradazione alcoolica abbastanza bassa ed aroma amaro intenso, tendente al cioccolato e al caffè.
Una delle prime “pubblicità” Guinness
Solo nel 1778 Guinness cominciò ad esportare birra porter, come testimoniano dai suoi libri contabili. Cominciò la massima espansione della sua attività, con conseguente allargamento dell’impresa, nel triennio 1797-99, assumendo presso di sé alcuni membri della famiglia Purser che producevano stout a Londra dagli anni ’70; in seguito, per alcuni decenni, i Purser divennero consoci.
Da questo momento Guinness si concentrò solo sulla birra scura e alla sua morte la produzione annuale aveva raggiunto le 20.000 botti.
È nota anche la sua tendenza politica, negli anni ’80 e ’90 del Settecento – e in particolare dal 1793 – come sostenitore di Henry Grattan per l’emancipazione dei cattolici, all’epoca pesantemente assoggettati alla dominazione inglese e ai possidenti irlandesi di fede protestante. Probabilmente questa sua tendenza era dovuta al fatto che Grattan volesse ridurre le tasse sulla produzione della birra e, in effetti, durante la grande ribellione del 1798, non si schierò apertamente a favore degli United Irishmen.
Nel 1801 venne prodotta ed esportata la prima West India Porter, antenata della moderna Guinness Foreign Extra Stout.
Arthur Guinness morì a Dublino nel 1803, lasciando l’impresa al figlio Arthur.
immagini pubblicitarie* del 1935, 1956, 1960, 1966
[* le immagini fin qui pubblicate provengono dal sito http://www.guinness.com/]
Con questa pappardella sulla storia di Arthur Guinness qualcuno avrà intuito che si prosegue sulla vena dell’Amarcord vacanziero.
Questo non vi sembrerà un piatto estivo…in effetti non lo è!!! E’ un piatto decisamente adatto ai climi freschi o all’inverno ma, come i miei 10 11 lettori sanno, un anno fa, stavamo per partire per il nostro viaggio in Irlanda.
Laggiù non abbiamo assaggiato tutto ciò che avremmo voluto, visto che il viaggio era abbastanza volto al risparmio… quest’anno non ci sono vacanze, ma nessuno ci vieta almeno di provare a cucinare qui tutti i piatti che in viaggio non abbiamo assaggiato, con il vantaggio che non dovremo ammettere se sono meno buoni dell’originale!!! ;D
Complice in questa impresa è innanzitutto il clima di Torino in questo luglio, fresco e ventilato…ieri sera c’erano 20 gradi, decisamente pochini per il periodo. Inoltre in mio aiuto è venuto un libricino recentemente trovato in rete, che si chiama Cuisine Irlandaise (in francese…O__o’) di Anne Wilson.
La ricetta originale è preparata con carne di bovino adulto, ma io avevo dello spezzatino di vitello a casa e l’idea di farlo all’irlandese, con una lattina di Guinness è venuta da sé. 
Me con Guinness 2010
La birra Guinness sembra quasi nera, ma controluce si possono scoprire sfumature rosso rubino. L’acqua utilizzata per la produzione è quella delle Wicklow Mountain, sebbene per gran parte della birra importata dai locali fuori dall’Irlanda venga usata acqua olandese. 
La differenza si sente!!! 
La nota più evidente è la cremosità della schiuma e anche della birra, che sembra quasi vellutata. La Guinness in bottiglia o in lattina è molto più simile a quella che abbiamo gustato a Dublino, di quella che si può assaggiare qua a Torino da tutti coloro che non sono distributori ufficiali del marchio. Nella lattina troviamo anche una particolare pallina di plastica che permette la formazione della schiuma alta e densa caratteristica della spillatura tradizionale.
Ed ora va in scena l’Irish Stew!!! 🙂
La ricetta: Irish Guinness Beef Stew
(con queste quantità ce lo siamo pappato in due!!)
400 g di spezzatino di vitellone
1 cucchiaio di burro + 2 cucchiai d’olio d’oliva (in origine erano 2 cucchiai di strutto)
1 grossa cipolla
1 spicchio d’aglio
2 cucchiai di farina
250 ml di brodo vegetale (in origine era brodo di manzo)
250 ml di Guinness (io l’ho trovata in lattina al supermercato)
1 carota a rondelle
2 foglie di lauro
1 cucchiaio di timo essiccato
8 prugne secche
pepe sale
prezzemolo fresco

La carne va fatta a pezzettini piccoli.
Intanto ho fatto sciogliere il burro nell’olio e vi ho rosolato la cipolla tagliata finemente. Poi ho aggiunto anche l’aglio e fatto rosolare il tutto.
Quando sono entrambi rosolati vanno tolti dalla casseruola e scolati.
Nel burro-olio restante va fatta rosolare la carne, poi bisogna aggiungere la farina e farla sciogliere.
Appena la farina era sciolta ho aggiunto il brodo, in una volta sola. Quando cominciava ad inspessirsi ho aggiunto la birra scura.
Quando anche con la birra il brodo cominciava a fremere ho aggiunto le cipolle rosolate in precedenza, le carote a rondelle, le prugne, il pepe e lauro e timo.
Ho lasciato cuocere per un’ora circa a fuoco bassissimo, rigirando ogni tanto, finchè il sughetto non era diventato denso e lucido e la carne era cotta.
Nei piatti ho aggiunto una spolverata di prezzemolo tritato fresco.

 
ai fornelli

La Soppressata Calabra e la Cipolla Rossa di Tropea si danno appuntamento per uno spuntino

Ci sono quei giorni in cui non si ha molta voglia di cucinare…a Torino non sta facendo troppo caldo, ma oggi avevo un po’ di commissioni da fare e quindi il pranzo si è risolto con qualcosa che c’era in frigo.
Beh, non proprio una cosa arrangiata, visto che il pane l’ho fatto io e il salume con cui l’abbiamo farcito era della Soppressata piccante originale made in Calabria!!! 😀
Per i panini ho usato l’ormai consueta ricetta del pane veloce, ma ci ho voluto mettere le cipolle rosse di Tropea che con la Soppressata Calabra andavano a nozze!!!
Ho semplicemente tagliato a cubettini minuscoli due cipolle medie, le ho velocemente rosolate in padella e poi asciugate dall’olio in eccesso, aggiungendole all’impasto del pane prima della lievitazione.
Passate due ore ho disposto l’impasto sulla teglia a cucchiaiate, in modo da ricavare dei paninetti rotondini. Eccoli qui:
Passiamo alla Soppressata.
Con questo nome vengono indicati salumi di diverse regioni italiane, anche molto diversi per conformazione e contenuto. Il termine deriva da “soppressare”, “stringere con soppressa”, ma a parte il procedimento il contenuto del budello può essere diversissimo. 
Ad esempio la soppressata senese è un salume composto da parti di scarto, ad esempio la testa, la lingua e le cartilagini del maiale, unite a spezie e poi cotte e stagionate; invece la soppressata molisana è un salume pregiatissimo, confezionato solo con le parti migliori e più magre del maiale.
In Calabria la soppressata viene prodotta in diverse varianti, può essere ad esempio supprizzata ‘ffumicata, ovvero sottoposta ad affumicatura, oppure con la denominazione del luogo dove viene prodotta, famosa è quella di Decollatura, prodotta da maiali allevati solo a ghiande e crusca.
Può essere dolce, aromatizzata con il pepe nero, o ancora piccante, cioè addizionata di un buon quantitativo di peperoncino che non solo le dà un gusto particolarissimo, ma aiuta anche la conservazione perfetta della carne, essendo un antimicrobico.
La Soppressata Calabrese è un salume DOP, denominazione di origine protetta, e viene garantito che per produrla sono stati utilizzati solo maiali allevati in Calabria. La produzione viene fatta in zone montane, ad un clima asciutto e fresco. 
Le parti di carne utilizzate sono sceltissime, coscia, spalla e filetto, e vengono tagliate a coltello, a grana un po’ più grande della salsiccia. Poi vengono miscelate con un 3% di grasso proveniente dalla parte vicina al capocollo. Gli ingredienti aromatici naturali sono sale, spezie e il peperoncino calabrese, per la nostra soppressata piccante. 
Le sacche di budello in cui la carne viene messa sono ricavate dall’intestino crasso del maiale. Vengono riempite, legate e bucate e lasciate asciugare all’aria. Dopo due settimane tutte le soppressate vengono stese su un telo di lino, lasciando tra l’una e l’altra lo spazio di un centimetro. Ricoperte con un altro telo, viene posta al di sopra una tavola di legno con dei pesi che “soppressano”  il salume. Dopo una settimana di pressatura la soppressata va messa a stagionare.
La stagionatura deve durare almeno un mese e mezzo, ma ancor meglio se viene prolungata a tre mesi.
A me piace moltissimo, deve piacere il piccante ovviamente, ma ne esistono anche varianti dolci e quindi, trovandosi da quelle parti, bisogna assolutamente provarla!!!
Ed eccola qui, finalmente affettata e avvolta dal panino. 
Basta accompagnare il tutto da una fresca insalata e il pranzo è risolto!!! 😀
in viaggio, ricette tradizionali

Genova e la focaccia di Recco La celebre focaccia al formaggio ligure da gustare calda

L’anno scorso all’inizio dell’estate abbiamo fatto una gita a Genova.
Genova è una città che bisogna esplorare, non basta attraversarla di corsa raggiungendo il porto per capire come è fatta. Certo andarci per visitare l’enorme attrazione dell’Acquario è già un passo, ma questa tentacolare attrazione non vi dirà molto sul carattere dei genovesi.
Per sperare di capirci qualcosina in più bisogna entrare nei suoi vicoli, assaporare i suoi profumi, incrociare gli sguardi del popolo multietnico che da secoli la abita.
Genova è una città di mare, il capoluogo di un grande porto e ha alcune caratteristiche che si possono riscontrare solo in città testimoni di così grandi passaggi di flussi umani. A un primo sguardo può risultare caotica, disordinata, come una donna spettinata, sorpresa nella sua privacy e gelosa di conservare la propria intimità.
In realtà ha bellezze da mostrare a chi si addentra con più attenzione tra le sue strade.
 
Il pretesto per la nostra gita è stato la mostra “Caravaggio e l’arte della fuga. La pittura di paesaggio nelle Ville Doria Pamphilj” che era allestita nella villa cittadina del Principe Doria.
Proprio da lì è partita la nostra visita, tra le arcate a tutto sesto di ritmo chiaramente rinascimentale e il giardino all’italiana, tra compartimenti di fiori e piante, pavoni  e la grande fontana del Nettuno in primo piano sullo sfondo del mare.
Poi il giro è continuato tra strette vie, carrugi, come dicono in Liguria. Il centro storico di Genova sembra una scatola di costruzioni abbandonata dopo il gioco. Le case sono sorte fitte fitte, le une sulle altre, e le sorprese spuntano dietro ad ogni angolo. 
Palazzi splendidi e colorati che sorgono all’improvviso dietro un angolo, e luoghi che rasentano la fatiscenza, chiese sopraelevate quasi volessero turarsi il naso davanti al mercato del pesce, migliaia di bancarelle di libri e dischi usati e ogni sorta di locale mangereccio etnico.
La sosta per la focaccia è di rito e poi ancora un’altra Genova. La Genova più modaiola, con la passeggiata affollata di gente, il sabato pomeriggio, i negozi (ancora librerie) pieni, i palazzi più sfarzosi che si svelano lungo via XX settembre.
A cena siamo andati in una trattoria vicino al porto, un locale non alla moda, ma dove abbiamo potuto mangiare ottimi piatti di pesce.
E poi ancora un giro, prima di tornare verso la stazione.
Un giorno solo non basta a conoscerla, ma già in un giorno Genova ci ha lasciato qualcosa di sè!
 
 
La focaccia con il formaggio è la ricetta tipica di Recco, ma anche a Genova si può trovare appena fatta e buonissima!!! Va mangiata calda, quando il formaggio non si è ancora solidificato, per questo motivo nelle panetterie bisogna acchiapparla, a suon di gomitate, appena la sfornano. E, non si sa come mai, ne sfornano sempre troppo poca alla volta.
Il formaggio NON è la prescinseua, perchè troppo liquido o troppo acido… Nel disciplinare viene indicato “formaggio fresco L.L.T., prodotto con latte ligure tracciato”.
La ricetta è più o meno (per chi volesse qui c’è la ricetta originale!) e qui invece trovate la mia versione.
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