E’ stranissimo accorgersi dopo tanti anni come alcuni ricordi personali che credevo avrei portato dentro per sempre si siano persi nella memoria e siano diventati nebulosi e fragili, come una carta troppo vecchia e consumata; mentre altri, che invece sembravano riguardarmi molto meno da vicino, restano scolpiti dentro, marchiati a fuoco sulla mia pelle.
Ricordo perfettamente dove mi trovavo il 19 luglio 1992 alle 16:58.
Ero in vacanza, in Sardegna, ed era troppo caldo per stare fuori. Il pomeriggio, fin dopo le sei, si stava in casa ed io ero da mia nonna, nell’unica stanzetta al piano superiore di una casa antica che si snoda tutta al piano terra. Ricordo la luce, vivida, dei paesi mediterranei, probabilmente la stessa luce che c’era a Palermo quel giorno.
Ricordo il caldo e ricordo che vivevo un periodo solitario, in cui amavo chiudermi in me stessa, scrivevo su un diario e ascoltavo canzoni alla radio che fermavo su musicassette, da riascoltare all’infinito.
Tra due giorni saranno passati 20 anni, ma ricordo il preciso istante in cui le trasmissioni si sono interrotte e la notizia dell’attentato si è diffusa. Che tutto si è fermato, anche io. Sono rimasta ad ascoltare, mi sono detta: un altro…e adesso?
Il 23 maggio il terribile attentato di Capaci, con cinque quintali di tritolo, aveva falciato il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta; a luglio, neanche due mesi dopo, la stessa sorte era toccata a Paolo Borsellino, sotto casa della madre; con lui persero la vita Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Ai suoi funerali Antonino Caponnetto,
il vecchio giudice che diresse l’ufficio di Falcone e Borsellino, disse: «Caro
Paolo, la lotta che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta
di ciascuno di noi».
Ad un’intervista rilasciata nel 1994, disse anche: «Un giudice vero fa quello che ha fatto Borsellino, uno che si trova solo
occasionalmente a fare quel mestiere e non ha la vocazione può
scappare, chiedere un trasferimento se ne ha il tempo e se gli viene
concesso. Borsellino, invece, era di un’altra tempra, andò incontro alla
morte con una serenità e una lucidità incredibili».
I giudici Falcone e Borsellino sono stati la punta dell’iceberg di una marea di vittime di un sistema tremendo e crudele che voleva/vuole sostituirsi alla legalità dello Stato. Dopo le morti eclatanti dei due giudici, tanti colpi sono stati segnati dallo Stato ai danni della mafia, ma ancora c’è da combattere. Combattere contro una mentalità ancora radicata in molti, anche nelle nuove generazioni, di coloro che erano davvero troppo piccoli per ricordare il 23 maggio o il 19 luglio 1992.
A me, cresciuta in una grande città del Nord, sembra incredibile che ci possano essere giovani siciliani di meno di trent’anni che sostengono che almeno il “sistema mafia” fa qualcosa per quel popolo che è stato dimenticato dallo Stato. Mi sembra terribile che un ragazzo possa vedere il proprio motorino, rubato un paio di giorni prima, ora guidato da un altro ragazzo poco più grande di lui, ma con conoscenze in ambienti mafiosi, e possa dire con una certa indifferenza: «E’ andata così, che posso farci? Niente.» Eppure questa mentalità è ancora radicata in molte coscienze.
Qualcuno sostiene che per essere liberi bisogna andarsene dalle terre del sud, che solo al Nord si può costruire un futuro.
Per fortuna ci sono altri, i Coraggiosi, che si rimboccano le maniche e si sporcano le mani per ricavare qualcosa di buono dalla loro terra.
Dal 2001 dalla volontà di alcuni coraggiosi nasce
Libera Terra, fondata da Don Luigi Ciotti e Giancarlo Caselli; il marchio che raggruppa diverse cooperative aderenti a un progetto di recupero delle terre confiscate alle organizzazioni mafiose. L’esperimento pilota è stato quello della cooperativa intitolata a Placido Rizzotto, nel comune di S. Giuseppe Jato, ma poi ne sono sorte tante altre, in Sicilia, in Calabria e in Puglia.
Le cooperative producono e mettono in vendita prodotti della terra, quali legumi, pasta e farine biologiche, conserve, miele e vino, e organizzano interessantissimi campi di cooperazione per far conoscere a chiunque volesse le realtà del luogo. A 11 anni dal primo esperimento, il cammino è appena iniziato ed ancora in salita, ma è importante che queste realtà di conoscano, per far sì che giunga il mesaggio che un’altra strada è percorribile, non senza difficoltà, per far cambiare le cose.
A questo vino ho abbinato una ricetta tipica siciliana, l’Infigghiulata, un pane condito che si preparava nelle case contadine con lo stesso impasto del pane settimanale e veniva farcito con acciughe o con salame, provola o ricotta, e poi tagliato a fette. Per alcuni il nome di questo pane deriva dal fatto che veniva preparato per i figlioli di casa, per gratificarli con qualcosa di goloso.
Mi piace pensare di aver fatto questa ricetta, in passato preparata dalle donne di casa, per le donne che hanno saputo uscire dal cerchio della mafia, con coraggio e forza; tra le tante: Rita Atria, Serafina Battaglia, Carmela Iuculano, Felicia Bartolotta Impastato…
La ricetta: Infigghiulata
300 g di farina (meglio 100 g di semola di grano duro e 200 di farina 00)
1/3 di cubetto di lievito
½ cucchiaino di miele
1 cucchiaino colmo di sale
Acqua
Per il ripieno:
acciughe sott’olio
pomodori secchi sott’olio
provolone semistagionato dei Nebrodi (si possono usare anche ricotta, lasciata scolare dall’acqua per una notte, oppure salame stagionato, o anche sugo, se si vuole un risultato più umido e “rosso”)
In abbinamento il vino Placido Rizzotto Rosso di Sicilia IGT “I Cento Passi”
Ho preparato l’impasto sciogliendo il lievito in un bicchiere con poca acqua tiepida, il miele e un cucchiaio di farina 00. Ho lasciato riposare per 10 minuti, finchè non era ben gonfio.
Ho mescolato la farina con il sale ed ho aggiunto la miscela di lievito, cominciando ad impastare, aggiungendo man mano l’acqua tiepida fino a formare un impasto morbido e liscio.
Ho messo a lievitare in una grossa ciotola coperta con pellicola unta e ben al riparo dalle correnti, per circa 3 ore.
Ho diviso in due l’impasto e ho ricavato due ovali spessi circa un centimetro, con il mattarello. Su ogni ovale di pasta ho disposto il provolone, i pomodori secchi tagliati a striscioline e le acciughe a pezzetti.
Ho arrotolato ogni ovale, partendo da uno dei due lati lunghi ed ho ricavato due salsicciotti che ho deposto sulla teglia, spennellandoli di olio.
Ho fatto cuocere in forno caldo a 220° per dieci minuti e poi a 200° per altri 10 minuti.
I sapori decisi delle acciughe e dei pomodori secchi si sposano a meraviglia con il vino Placido Rizzotto Rosso.