Tag

Emilia_Romagna

ai fornelli, eventi&co

# 6 – Calendario dell’Avvento – Emilia Mon Amour

Eccoci giunti al giorno 6 e ad un argomento molto importante!
E’ uscito Emilia Mon Amour, l’ebook curato e sviluppato da Cecilia e Micol del blog Muffin e Dintorni.

Dietro questa fetta di mortadella si nascondono le 33 ricette delle foodbloggers che hanno pensato di fare qualcosa dopo la tragedia del terremoto in Emilia. Noi siamo brave a parlare di cibo, lo diciamo sempre, e anche questa volta abbiamo unito le ricette emiliane, che abbiamo cercato-studiato-riprodotto a casa nostra, ai pensieri che questo evento disastroso ci ha ispirato.
Ogni pagina del libro è una pagina dei nostri blog, e come tale conserva quel tanto di quotidiano che ogni giorno mettiamo in rete.
Mercoledì dopo mercoledì, la notizia che si raccoglievano ricette per l’Emilia si è diffusa e la mole di ricette è aumentata fino a divenire tanta da formare un ebook. 
Il lavoro di Micol e Cecilia è stato enorme: hanno raccolto e ordinato tutto il materiale secondo un criterio, hanno inserito le loro ricette di famiglia, hanno curato i rapporti con il grafico che ha offerto la copertina e con la casa editrice: troverete tutte le informazioni qui.
Quello che possiamo fare ora per l’Emilia è acquistare l’ebook che è in vendita al prezzo di 5 euro direttamente sul sito EbookEditore, sapendo che l’intero ricavato sarà devoluto al fondo Coldiretti a sostegno delle imprese agricole, in difficoltà dopo il terremoto di maggio 2012.
Le mie ricette sono alle pagine 36, 40, 42, 53, 61 e 77. 
E’ una grande emozione far parte di questo ebook ed ora la speranza è di poterlo presentare anche con una grande VERA cena, cucinata da noi foodbloggers…e visto che siamo riuscite in così poco tempo a creare un libro, non è detto che non si riesca anche a far questo!! 😉
Teniam bota!!
ai fornelli, ricette tradizionali

Scarpazzone Montanaro e gli strascichi dell’Emilia Mon Amour…

Anche se il mercoledì social dedicato all’Emilia si è concluso, anche questo mercoledì pubblico una ricetta emiliana che ho voluto sperimentare e che non sono riuscita a pubblicare prima. Si tratta dello scarpazzone, una versione dell’erbazzone che in dialetto si chiama scarpasòun e che prevede che venga utilizzata tutta la bietola, non solo le foglie ma anche le coste, fino alla scarpa del cespo.
La bietola non ha sempre goduto di grande fortuna; pare che l’aggettivo “bietolone”, nell’accezione di “codardo”, provenga dalla credenza che il mangiare in grande quantità questa verdura succosa facesse perdere il coraggio, e la credenza era tanto radicata da far proibire questa verdura nei menù degli eserciti.
I contadini di un tempo, invece, impiegavano tutto l’ortaggio, come abbiamo detto fino alla scarpa, senza sprechi. E facevano bene, perché questa verdura è ricchissima di sali minerali.
Se lo scarpazzone-erbazzone tradizionale, preparato anche da Laura, prevede bietola e parmigiano – e talvolta l’aggiunta di ricotta – ne esiste poi una versione preparata con l’aggiunta di riso, lo Scarpazzone Montanaro.  Questa versione era quella delle mondine provenienti dalle montagne dell’Appennino che scendevano nella bassa da marzo ad ottobre, per liberare il riso dalle erbacce, e che ricevevano come salario, per ogni giornata di lavoro, un chilo di riso.
Questo tipo di scarpazzone è il piatto tipico del borgo di Castelnovo ne’ Monti Carpineti, dove si svolge ogni anno una sagra dedicata a questa ricetta.
Alcuni dicono che il vero scarpasoun montanaro non sia ricoperto di sfoglia,  bensì da uno strato di zucchero a granelli e spennellato d’uovo. Altri lo ricoprono con la stessa sfoglia della base, la fuiada, e con pezzettini di lardo o pancetta. In qualsiasi modo lo vogliate fare, servitelo intero o tagliato a rombi: è buonissimo!!! 
Spero che anche questa ricetta tradizionale possa andare ad ingrossare le fila delle ricette emiliane che Cecilia e Micol hanno raccolto per formare un e-book, la cui vendita consentirà di raccogliere fondi per far ripartire subito un’azienda della zona.

La ricetta: Scarpasoun Montanaro
(Ingredienti per due teglie piccole da 20cm di diametro)
-per la fuiada:
300 g farina
80 g di burro (tradizionalmente si usa lo strutto)
1 pizzico sale
acqua gassata molto fredda
-per il ripieno:
1 cespo di bietola
40 g di lardo tagliato sottile
120 g riso
400-450 ml di latte
4 cucchiai colmi di parmigiano reggiano grattugiato
sale
pepe
-per la finitura:
1 uovo
30 g di lardo tagliato sottile

Per prima cosa ho pulito la bietola, togliendo le foglie esterne rovinate e l’ho lessata in acqua bollente salata. L’ho scolata e fatta raffreddare e poi tagliata a tocchetti. L’ho fatta saltare in padella per pochi minuti con un trito di cipolla e circa la metà del lardo, poi ho aggiustato di sale e pepe.
Ho preparato la pasta, mescolando farina, sale, burro freddo a tocchetti e tanta acqua, poca per volta, quanta ne serve per creare l’impasto, che deve essere morbido ma non molliccio. Ho impastato per pochissimi minuti e poi ho messo a riposare la palla in pellicola, in un luogo fresco per una mezz’ora.
Ho messo il latte con un grosso pizzico di sale in un pentolino, l’ho riscaldato e poi vi ho versato il riso, lasciandolo cuocere nel latte; dovrebbe assorbirlo tutto, formando una crema. Poi ho spento e lasciato intiepidire leggermente prima di aggiungervi il parmigiano grattugiato e la bietola saltata.
Ho steso poco più di metà della pasta in due sfoglie molto sottili su due fogli di carta da forno; ho foderato così le due teglie da 20 cm e in ognuna ho messo metà del ripieno preparato, in uno strato alto circa 2 cm. Ho ricoperto entrambe con uno strato di sfoglia ricavato dalla pasta restante e ripiegato i bordi esterni verso l’interno.
Ho bucherellato la superficie con un coltello ed ho spennellato il tutto di uovo sbattuto.
Ho fatto cocere a 180° g in forno già caldo per poco più di mezz’ora. Prima di sfornare, cospargere la superficie dello scarpazzone con pezzettini di lardo e poi far sciogliere al caldo del forno per alcuni minuti ancora.

ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

Pìcula ad caval per l’Emilia Mon Amour, V parte

Ancora un appuntamento con l’Emilia Mon Amour, lanciato da Cecilia e Micol di Muffin e Dintorni, e ancora una ricetta di cucina emiliana ricca di storia e di tradizione. Per chi non sapesse ancora dell’iniziativa un esercito di foodblogger si è mobilitato nella raccolta di ricette emiliane o con prodotti emiliani, per la creazione di un e-book il cui ricavato sarà devoluto ad un’azienda del territorio emiliano per risollevarsi subito, dopo il terremoto.
Questo piatto, dal nome oscuro per chi non conosce il dialetto emiliano, altro non è che “piccola”, cioè tritata, di cavallo.
E’ una ricetta tipica piacentina e pare che fosse servita come pranzo ai cavallanti, ovvero ai corrieri a cavallo ottocenteschi, come dire “portarsi il lavoro a casa”… 😉
Premetto di non essere un amante della carne di cavallo, per i miei gusti un po’ troppo dolciastra, e invece questo piatto mi ha conquistata! Forse la lunga cottura fa sì che i sapori troppo stridenti vadano via e resti soltanto un piatto perfettamente bilanciato. Il segreto è far sì che la carne non si asciughi in cottura, utilizzando una pentola con il fondo spesso e di dimensioni proporzionate alla quantità di carne. Questo piatto va servito subito, appena è cotto, altrimenti diventa stopposo; non è possibile prepararlo in anticipo e poi riscaldarlo.
La pìcula ad caval si serve tradizionalmente facendo una sorta di buco centrale nella polenta calda appena deposta nel piatto e colmando questo buco con la pìcula stessa.
Visto che io l’ho cucinata in un giorno molto caldo ho rinunciato alla polenta, preparandone pochina solo per la presentazione. Ci siamo mangiati, invece, la pìcula facendo una lunghissima scarpetta con il pane e alla fine ne avremmo voluto ancora.
L’appuntamento del mercoledì con l’Emilia Mon Amour si ferma qui, ma io mi sono riproposta di provare ancora tante altre ricette di questa splendida terra… 
Non spegniamo i riflettori sull’Emilia, anzi li teniamo ben puntati, non solo – come spesso accade – durante l’emergenza, ma finchè la crisi non si sarà risolta!
Teniam bota!!

La ricetta: Pìcula ad caval

600 g circa di carne di cavallo tritata
1 cipolla tritata fine
50 g di lardo a fettine tritato finemente
250 ml di vino bianco secco
4-5 pomodori pelati
1 peperone
sale
pepe
1 rametto di rosmarino
5 foglie di salvia
un ciuffo di prezzemolo
5 foglie grandi di basilico
1 spicchio d’aglio

In un tegame abbastanza piccolo e dal fondo spesso ho messo la cipolla con il lardo tagliuzzato fine e ho fatto appassire per qualche minuto. Poi ho aggiunto la carne e l’ho fatta rosolare mescolandola bene. Dopo averla ben rigirata da ogni parte ho aggiunto tutto insieme il vino a fatto stufare sempre a fuoco bassissimo per circa 50 minuti. E’ importante che la pentola non sia troppo grande, così il vino non evaporerà troppo in fretta. Nel frattempo ho immerso i pomodori in acqua bollente e li ho pelati e poi tagliati a dadini minuti. Ho lavato il peperone, l’ho liberato dai semi e l’ho tagliato a listarelle lunghe e sottili.
Passati i 50 minuti ho aggiunto pomodori e peperone, ho aggiustato di sale e pepe e ho lasciato cuocere ancora per 50 minuti. Verso fine cottura ho preparato il trito con le erbe aromatiche e lo spicchio d’aglio, l’ho versato sulla carne, ho dato una rimescolata e ho spento il fuoco.
La picula va servita subito, con polenta o con il pane.

ai fornelli, storia & cultura

Mercoledi Social: Emilia Mon Amour, IV parte

L’Emilia Mon Amour non è stata una semplice raccolta di ricette, ma piuttosto la nascita di una storia d’amore con la cucina emiliana. Ci sono talmente tante ricette, preparazioni e prodotti particolari e succulenti che non approfondire questa la conoscenza di questa cucina sarebbe un vero e proprio sacrilegio. Per questa ragione mi riprometto, magari quando il caldo comincerà ad abbandonarci, a provare ancora altre ricette, anche quelle già sperimentate dalle mie compagne di avventura, anche il mitico borlengo, di Anna e di Sonia!!

Questa settimana mi sono dedicata a due prodotti IGP, il riso IGP del Delta del Po e l’asparago verde di Altedo IGP, per due ricette tipiche “alla parmigiana”.

Il riso è una pianta di palude, coltivata anticamente in oriente. L’introduzione in Italia pare avvenne per opera degli arabi, prima nel sud italia.
In un primo momento erano solo i pastori a piantare questa pianta nei terreni che attraversavano, per poi raccoglierne il frutto al loro ritorno.
In seguito fu chiaro come questa coltivazione fosse il primo passo per utilizzare i terreni acquitrinosi bisognosi di bonifica.
Così, intorno al 1400, il riso arrivò nell’estremo lembo est della Pianura Padana. Circa un secolo dopo, ad opera degli Este, se ne cominciò una produzione intensiva e organizzata, proprio per bonificare il territorio, prima che fosse destinato ad altre coltivazioni: quando si dice “due piccioni con una fava”!
In più l’isolamento del territorio evitava il formarsi di patologie e che avrebbero distrutto la pianta e quindi il riso prodotto divenne tanto da essere esportato.
Verso la fine del 700 alcuni patrizi veneziani iniziarono, nei territori del Delta del Po, con metodi sistematici agrari la coltura del riso nei territori appena bonificati, e la crescita continuò nell’800, sempre su più vasta scala finchè, nel 1825, il prezzo del riso superò quello del grano. Il crollo si ebbe solo a fine ‘800 con l’arrivo del riso asiatico sul mercato, che indusse un’inevitabile riduzione degli ettari destinati a coltivazione.

Il riso del Delta del Po, coltivato tra il comune di Rovigo, in Veneto, e il comune di Ferrara, in Emilia Romagna, è da poco diventato IGP. Si tratta di riso di  qualità japonica, gruppo superfino delle varietà Carnaroli, Volano, Baldo a Arborio.
L’attribuzione dell’indicazione geografica tipica tutela un prodotto che ha caratteristiche proprie godibilissime: innanzitutto il terreno fortemente salmastro fornisce una sapidità molto piacevole e particolare al chicco. Inoltre le caratteristiche del terreno fanno sì che il prodotto sia abbondante e sano e il chicco risulti particolarmente resistente in cottura.

L’Asparago verde di Altedo IGP può essere prodotto solo nell’ambito di alcuni comuni della provincia di Bologna ed altri della provincia di Ferrara. A Ferrara, in particolare, troviamo le stesse zone del Delta del Po in cui si coltiva il riso e quindi l’abbinamento era inevitabile, ma invece di proporre il risotto agli asparagi ho voluto parlare di due ricette tipiche emiliane: il sontuoso risotto alla parmigiana, che è unn caposaldo della cucina italiana, quasi una base per milioni di altri risotti, e gli asparagi alla parmigiana, semplicissimi perché già buoni da soli, insaporiti ulteriormente da una grattugiata di Parmigiano Reggiano 24 mesi.

Le ricette: Risotto alla Parmigiana e Asparagi alla Parmigiana

(dosi per 2 persone)

per il risotto:
1 cipolla piccola
30 g di burro
circa 500 ml di brodo preparato con sedano, carota, cipolla, patata, olio e sale
8 cucchiai colmi di riso Delta del Po IGP, di varietà Carnaroli (ce ne vorrebbero 3 a persona + uno per la pentola)
4 cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato


per gli asparagi:
350 g di asparagi verdi IGP di Altedo
2 cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato
olio
sale

Ho lavato gli asparagi e ho tolto la parte di gambo più legnosa, poi li ho messi a lessare in acqua non salata, finchè non erano morbidi. Li ho scolati e conditi con un pizzico di sale e un filo d’olio extravergine.
Nella stessa acqua, intiepidita, ho preparato il brodo, aggiungendo tutte le verdure lavate, la patata sbucciata, olio e sale.
Mentre il brodo raggiungeva l’ebollizione, ho tritato finemente la cipolla.
In una pentola dal fondo spesso ho messo il burro e la cipolla tritata, attendendo che quest’ultima sfrigolasse bene. Poi ho aggiunto il riso, tutto insieme, facendolo tostare a fuoco vivace e poi sfumando con la prima mestolata di brodo.
Ho aggiunto il brodo man mano, mescolando delicatamente, e facendolo assorbire, fino ad avvenuta cottura del chicco. Poi ho aggiunto il parmigiano grattugiato, mescolando accuratamente e successivamente spegnendo il fuoco e lasciando mantecare in pentola coperta per 5 minuti.
Mentre il riso mantecava, ho disposto sui piatti gli asparagi a raggiera, cospargendoli di parmigiano grattugiato. Infine ho impiattato il risotto con l’aiuto di un cerchio coppapasta, decorando con scaglie di parmigiano e una spolverata leggera leggera di pepe nero.

ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

Pisarei e fasò per Emilia Mon Amour – parte III

Quando cercavo una ricetta per il mercoledì social di questa settimana ho scorso l’elenco delle ricette emiliane; servivano primi e secondi piatti ed io, tutto sommato sulle minestre vado forte.
Leggo pisarei e fasò e penso: «mmm… i piselli non mi piacciono molto…» poi però cerco questa ricetta per vederne i dettagli e scopro che i pisarei con i piselli non c’entrano per nulla!! 
La parola pisarei deriva da pigiare, in quanto i pezzetti di pasta si schiacciano sulla spianatoia, un incrocio tra tra orecchiette, cavatelli e gnocchetti sardi, con la particolarità di usare il pangrattato insieme alla farina per l’impasto!
E quindi, subitaneamente, ho deciso: che pisarei e fasò sia!!!
Non è esattamente una ricetta estiva, perché si usano i borlotti e un soffritto di lardo o pancetta, ma la soddisfazione per il palato è davvero superlativa. 
E’ una di quelle minestre quasi asciutte che adoro, che sanno di vecchia cascina, di campagna, di luce di candele e di lavoro…perché fagioli e pisarei mica si tirano su in un attimo. 
Che siano di auspicio a chi subito si rimette in gioco, ai tanti che stanno lavorando sodo per tornare alla normalità!!
E anche con questa ricetta, originaria della zona di Piacenza, lo dico e lo ribadisco: Forza Emilia!!!

La ricetta che ho utilizzato è tratta da Il Grande Manuale della Cucina Italiana a cura di Stella Donati, un libro un po’ datato e che, nel mio caso, cade a pezzi. Prima era di mia mamma, ora ce l’ho io, e anche se non so se la ricetta sia filologicamente corretta, vi assicuro che questa versione è una meraviglia.

La ricetta: Pisarei e fasò
(per 2 persone)
Per i pisarei:
150 g di farina
50 g di pangrattato
acqua

Per i fasò:
150 g di fagioli borlotti lessati
1 pezzettino di burro e 3 cucchiai d’olio (nella ricetta originale tutto burro)
30 g di lardo tagliato fine
3 foglie grosse di basilico
1 ciuffetto di prezzemolo
1 grosso spicchio d’aglio
1 carota
1 costa di sedano
½ cipolla piccola
2-3 pomodori pelati

Per prima cosa si preparano i pisarei: in una ciotola capiente ho mescolato insieme la farina e il pangrattato, aggiungendo un pizzico di sale e tanta acqua da formare un impasto lavorabile ed elastico. Ho impastato bene e ho messo a riposare nella pellicola per almeno mezz’ora.
Nel frattempo ho preparato le verdure, carota, sedano e cipolla,  tritandole a cubettini sottili.
A parte ho preparato un trito con il lardo, il basilico e il prezzemolo e l’aglio e l’ho tenuto al fresco.
Passato il tempo di riposo della pasta ho ricavato dei serpentelli di pasta, lunghi e sottili come una grossa matita. Ogni serpentello va tagliato a pezzettini, sulla spianatoia ed ogni pezzettino va schiacciato con il pollice e poi fatto rotolare come per fare un piccolo gnocchetto.

Eccoli:

Ho continuato così  fino ad esaurire tutta la pasta, poi ho cosparso di farina e ho cominciato a preparare il sugo di fagioli.
In una casseruola con il fondo spesso ho fatto sciogliere il burro e l’olio e vi ho versato il trito di lardo, facendolo rosolare per qualche istante. Poi ho aggiunto le verdure. Ho lasciato cuocere per una decina di minuti, badando che non si attaccasse nulla. Poi ho aggiunto i fagioli. Ho insaporito anche loro per qualche minuti, rigirando spesso ed infine ho aggiunto i pomodori pelati schiacciati con la forchetta. Ho lasciato cuocere, aggiungendo qualche mestolo di brodo vegetale che avevo già pronto per puro caso, ma in mancanza va benissimo anche acqua calda.
Mentre il sugo cuoceva ho messo a bollire l’acqua in una pentola capiente, ho aggiustato di sale sugo e acqua e poi ho versato i pisarei, mescolando con un mestolo per fa sì che non si attaccassero gli uni agli altri. Quando vengono a galla sono cotti. Li ho tirati su con un mestolo forato e deposti in una zuppiera e poi conditi con il sugo di fagioli.
E qui sotto cosparsi con una bella spolverata di Parmigiano!!
ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

Le Mistocchine per Emilia Mon Amour parte II

Per il mercoledì social di Muffin e Dintorni, anche questa settimana dedicato all’Emilia e agli Emiliani, come la scorsa settimana, avevo il desiderio di proporre una ricetta insolita e poco conosciuta.
Ho vagato alla ricerca di quelle ricette che non sono sulla bocca di tutti ed infine ho scelto le mistocchine o mistochine, con una sola c, che dir si voglia.
Si tratta di un dolce povero, della tradizione popolare, fatto di farina di castagne e poco altro, che in un tempo in cui c’era tanta povertà, rappresentava una vera gioia per i bimbi. Al giorno d’oggi tanto entusiasmo per queste semplici focaccine può far sorridere, ma un tempo i bambini si accalcavano attorno alle mistocchinaie ambulanti che vendevano sia le caldarroste sia le mistocchine, chiedendo se per caso qualcuna di queste ultime si fosse rotta, per farsela regalare.

La parola mistocchina sembra derivare dal verbo latino miscere, che significa mescolare e fa riferimento al gesto di mischiare insieme acqua e farina, girando con il cucchiaio fino ad ottenere un impasto lavorabile.
Delle mistocchine bolognesi si ha traccia fin dal Seicento, in numerosi bandi e pubblicazioni ufficiali conservate in archivio storico. Talvolta il commercio di queste focaccine venne addirittura proibito, per ragioni ignote, altre volte ne vengono regolamentati i prezzi, diversi dalla città alla campagna.
Le mistocchinaie erano munite di un paravento per proteggere il fuoco dal vento, e di un trespolo su cui era sospesa la piastra per la cottura. Erano vestite tutte di bianco, con un fazoletto attorno al capo e dei manicotti anch’essi bianchi.
Una delle piu’ note mistocchinaie aveva il suo laboratorio-negozio a Bologna sotto gli antichi portici di via Marsala all’angolo con via Mentana, dove vi era anche un affresco raffigurante la sua professione, ma già da molto tempo, affresco e mistocchinaia sono solo un ricordo nelle menti dei più anziani.

Carlo Goldoni ne L’impresario delle Smirne ce ne ha lasciato una fuggevole immagine in queste poche battute.
«Che vuol dir Mistocchina? Come quella giovane è bolognese, e che a Bologna chiamano mistocchine certe schiacciate fatte di farina di castagne, le hanno dato un soprannome, che conviene alla sua patria ed alla sua abilità.»

Le mistocchine sono immortalate dai versi di questa poesia, che trascrivo pari pari, se vi voleste cimentare con la comprensione del dialetto!! (C’è anche la traduzione in fondo!!)

una mistocchinaia con il tipico fazzoletto bianco in capo
Il Mistuchin

La mistuchinèra l’è tôta biènca:
biènch al fazzulèt ch’la pòrta in cò;
biènch al grimbialò-n ch’l’agh ha adòss;
biènch i calzzêt a mèza gamba;
biènchi il patèl inti pia;
biènchi parssê-n il zzid e i sóvrazzêli.
Un spirai ad ssól al filtra da ‘na sfèssa
fra i tandê-n dla fnèstra e al dvénta ènca lô
biènch par al spulvrazzê-n suspés a mèz’aria.
La zdóra l’è dria impastèr la farina castagna
ch’l’è tènt fina da ssulivèrla ssól a muvrass.
La fa un pastò-n bel ssòd,
e l’in staca di baluchê-n tôt prècis
ch’la pògia, ô.n dria ‘ch’l ètar, ssôl tuliri.
Pù, cul sgnadur pêcul, quèl da pulénta,
la i tira ssutil e tónd tôt intna manira:
il mistuchin igli è bèla chè fati!
L’ali infarina da tôti dó il band,
parchè in’s ataca brisa ala piastra ruvénta
induv ch’ali pògia, tré o quatar par vòlta.
Maninma-n ch’ali prêla, as liva un sbôf’d fôm ch’al spargôia un udór da fèr gnir mêl vôi.
Agh vòl puch, trê-quatar minôt piô ò mè.n,
parchè ch’il môcia al ssu bèl culór caramèla.
Al mucèt ssòt’al tvaiòl al crèss ala svèlta.
Tèndri, musin, prufumèdi, igli è prónti.
Igli è una luvisia.

Le Mistochine

La donna delle mistochine è tutta bianca:
bianco il fazzoletto che porta in testa;
bianco il grembiuleche indossa;
bianche le calze a mezza gamba;
bianche le ciabatte nei piedi;
bianche finanche le ciglia e le sopracciglia.
Un filo di sole penetra da una fessura
fra le tendine della finestra e diventa esso pure
bianco nel pulviscolo sospeso a mezz’aria.
La massaia sta impastando la farina castagna
tanto fine da sollevarsi solo a muoversi.
Ne fa un pastone ben compatto
e ne distacca dei pezzetti tutti uguali, che
appoggia uno accanto all’altro sul tagliere.
Poi, col matterello piccolo, quello da polenta,
li fa sottili e rotondi, tutti allo stesso modo:
le mistochine sono già confezionate!
Le infarina da ambo i lati
perché non si attacchino alla piastra rovente
sulla quale le appoggia, tre-quattro per volta.
Nel rigirarle si alza un sbuffo di vapore

che si disperde con un profumo che fa voglia.
Occorre poco, più o meno tre-quattro minuti,
perchè assumano il loro bel color caramella.
Il cumulo coperto dal tovagliolo cresce presto.
Tenere, mucine, odorose, sono pronte.
Sono una ghiottoneria.

Ormai pare che sopravvivano soltanto nelle sagre di paese, nelle province di Bologna, Modena e Ferrara; nelle città, probabilmente, solo i più anziani le ricordano.
Ed è proprio agli emiliani più anziani che voglio dedicare questo post del ricordo. Sono gli anziani coloro che più soffrono a dover lasciare, anche momentaneamente, la propria casa e le proprie abitudini di una vita intera. Tin bota!!!

Le mistocchine altro non sono che focaccine appena dolci, fatte con farina di castagne, semi di anice e, volendo, buccia di limone. In alcune versioni sono proposte con l’aggiunta di uva passa nell’impasto.
Si accompagnano bene ai passiti e ai vini da meditazione. Io, per enfatizzare il sapore di anice, le ho accompagnate ad uva passa ammollata nella sambuca. E’ un dolce semplice dal sapore veramente antico.

La ricetta: Le Mistocchine
(dosi approssimative perchè sono andata ad occhio)
1 tazza di farina di castagne
1 cucchiaio di semini di anice
buccia grattugiata di meno di mezzo limone
zucchero a velo
uva passa
liquore alla sambuca
Ho messo ad ammollare l’uva passa nella sambuca.
Ho fatto bollire un bricchetto d’acqua con un cucchiaio di semini di anice.
Ho poi filtrato e versato l’acqua calda sulla farina, poco per volta, impastando, fino ad ottenere un composto lavorabile e non troppo molle. Ho incorporato la buccia di limone.
Ho ricavato delle palline di pasta come grosse noci, le ho schiacciate fino allo spessore di mezzo cm e le ho messe a cuocere su una padellina antiaderente arroventata, nel mio caso era quella delle crepes.
Dopo pochi minuti la mistochina si può girare e cuocere dall’altro lato. 

Vanno servite calde, ed io le ho accompagnate all’uvetta che nel frattempo si era assorbita tutta la sambuca!!

ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

Il mercoledì social: Emilia Mon Amour, una Torta Barozzi per gli Emiliani

Quello che sta succedendo in Emilia mi lascia ogni giorno di sasso. Ogni mattina “sfoglio” Twitter per sapere le novità e leggo con attenzione i dati di INGV, con la magnitudo e l’epicentro delle ultime scosse e mi dico: <<Mammamia, un’altra…e un’altra… e un’altra ancora.>>

Il Piemonte, da dove scrivo, non è terra sismica, e non riesco a capacitarmi di cosa significhi vivere in questo momento di precarietà, come si possa dormire la notte, come si possa fare ogni volta la conta dei danni.
L’Emilia nello stereotipo – e nella realtà – è una terra vitale, energica, propositiva e sapere che questo terremoto ha colpito una delle economie regionali più vivide e attive è una dura scossa per tutta l’Italia in questo tempo già di crisi. Ma proprio ora – fin da subito, mentre ancora le scosse si succedono, ed ogni volta ci si augura che sia l’ultima – è importante rilanciare l’economia e la vitalità di questa terra, della quale cibo e turismo sono settori molto significativi. Non si può stare immobili, bisogna ripartire da subito!

Sotto la proposta di Micol e Cecilia del blog Muffin e Dintorni, un gruppo di foodblogger, di cui anch’io faccio parte, ha deciso di dedicare un post, proprio oggi, dedicato ad un prodotto emiliano o a una ricetta di questa regione.

Parlare di cibo ci riesce bene e, anche se non siamo lì, questo è un modo per far sentire al popolo emiliano che li cingiamo di un abbraccio affettuoso e che seguiamo con partecipazione il loro dolore, ma anche che non sarà questa tragedia a spezzare questa regione.
Questo terremoto è piuttosto un triste pretesto per ripartire con più vigore ed energia e fare ancora meglio.

Eugenio Gollini
Io ho scelto di parlarvi di un dolce che è nato in Emilia, precisamente a Vignola, per iniziativa di un pasticcere, Eugenio Gollini, fondatore nel 1887 del caffè pasticceria Gollini.
Questo elegante caffè venne fondato sotto i portici di un antico palazzo, con un arredamento elegante dall’aria retrò e un’atmosfera intima e familiare.
Eugenio Gollini, da buon emiliano, amava sporcarsi le mani, entrare in laboratorio e sperimentare personalmente ricette che perfezionava, giorno dopo giorno, dopo aver sentito i pareri dei suoi clienti. Così nacque anche questa torta, prima detta Torta Nera, poi Pasta Barozzi, ed infine Torta Barozzi, nel 1907, quattrocentenario della nascita del famoso architetto vignolese Jacopo Barozzi. 
Il Vignola
Jacopo Barozzi da Vignola, conosciuto come Il Vignola, fu il più importante architetto del Manierismo, il periodo che segue il Rinascimento.
Nato a Vignola nel 1507, fu attivo per un periodo anche come pittore, studiando le architetture esistenti e disegnandole, diventando un esperto della prospettiva ed un importantissimo trattatista. Applicò la prospettiva in architetture di grande respiro e divenne anche architetto di paesaggio e di giardini, sfruttando una quinta naturale fino a farla diventare cornice per le sue architetture; molto attivo a Roma e nel Lazio, successe a Michelangelo nella direzione dei lavori di San Pietro in Vaticano. Lo si ricorda come architetto della famiglia Farnese, da Villa Giulia al Palazzo di Caprarola, all’incompiuta residenza ducale di Piacenza.
Le scale elicoidali di Barozzi, nel palazzo di Vignola.

La torta che Eugenio Gollini gli dedica è sorretta anch’essa da un’architettura imponente e robusta. La ricetta, dal lontano 1907, è assolutamente segreta. 
Michele Serra assaggiando la Barozzi della pasticceria Gollini l’ha descritta così:
«
…Si presenta come una piccola zolla di terra e come una zolla si
sbriciola… È un incantevole mistero fatto di mille aromi che
confondono il palato in una sinfonia di dolcezza… »
Molti hanno tentato di decifrarne gli ingredienti e molte sono le versioni che si rincorrono in rete e nelle famiglie vignolesi. Non per nulla questa torta, che bisogna assaggiare nella sua versione originale proprio alla pasticceria Gollini, ora gestita dalle pronipoti di Eugenio, è anche la più riprodotta tra le famiglie del circondario ed ognuno sostiene che la propria versione sia la più vicina all’originale.


Per questo mercoledì social ho voluto far parte degli imitatori per un giorno: ho consultato ricette, ho studiato la mia versione e sono giunta a proporvi questa che vedete.

Anche la mia Barozzi è intensa, scura, terrosa e come zolla si sbriciola. Perfetta già così, ho aggiunto solo una nota di colore e di dolcezza con una crema di mascarpone e marmellata di ciliegie. Se volete far di più metteteci in cima una maestosa ciliegia fresca: di Vignola, ovviamente! 🙂
Ah, dimenticavo… la torta Barozzi, quella vera, potete gustarla solo a Vignola, alla pasticceria Gollini. Il borgo di Vignola e la sua rocca non hanno subìto danni ingenti, visitatela al più presto!!!

La ricetta: Torta Barozzi
(circa 12 tortine monoporzione del diametro di 9 cm)
Ingredienti:
300g zucchero
200g arachidi tostate
100g mandorle tostate
100g cacao amaro in polvere
100g burro
6 cucchiaini di caffè macinato
4 uova
1 pizzico di sale
Ho macinato finemente nel mixer le arachidi, le mandorle, il caffè in polvere e lo zucchero. Ho aggiunto il cacao in polvere e mescolato bene fino ad ottenere una polvere omogenea.
Ho messo da parte gli albumi e aggiunto gradualmente i tuorli con il pizzico di sale alle polveri, mescolando bene ogni volta. Si formerà un impasto davvero terroso e denso, difficile da lavorare. Mi sono aiutata con le mani per renderlo omogeneo.
Ho montato a neve fermissima gli albumi; ne ho aggiunto un paio di cucchiaiate all’impasto per ammorbidirlo e poi man mano il resto degli albumi mescolando delicatamente dal basso verso l’alto.
Quando il composto era omogeneo l’ho suddiviso in pirottini da muffin, un paio di cucchiaiate per pirottino, ed infornato a 160° per circa 30 minuti.

Per la crema ho mescolato in parti uguali mascarpone e marmellata di ciliegia e ho appoggiato su ogni tortina una cucchiaiata di composto.
La ciliegia è inumidita e velocemente rotolata in zucchero semolato.

Qua di seguito la lista degli altri blog partecipanti all’iniziativa:
error

Enjoy this blog? Please spread the word :)