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Mescciüa ligure dal …porto di La Spezia

Amici liguri, perdonatemi a priori per questa ossessione che mi è venuta per la vostra cucina…sarà che ferma e chiusa da confini non riesco a stare e devo fare continue incursioni nelle altre regioni d’Italia. E la Liguria è così vicina! Ed è vicina ai miei gusti in fatto di ingredienti, soprattutto per ciò che riguarda gli ingredienti di terra, ancor più degli ingredienti di mare.
Parliamo ancora una volta di legumi con la mesciua, anzi con la mescciüa, che wikipedia indica anche con mesc-ciüa, come si legge, con la s e la c disgiunte e la ü accentata. Tralasciando le difficoltà di pronuncia (e cercherò di avere ripetizioni in questo campo), la parola significa mescolanza, nello specifico mescolanza di legumi.
Pare che la mesciua sia nata sulle banchine dei porti commerciali di La Spezia, quando gli scaricatori si issavano sulle spalle grossi sacchi di ogni merce alimentare, per portarli a bordo e talvolta qualche sacco si rompeva, lasciando andare a terra parte del contenuto. Altre volte i legumi più piccoli, cadevano dai buchi dei sacchi e rotolavano a terra.
La sera, quando il traffico si era calmato, le donne tornavano alle banchine e raccoglievano pazientemente i chicchi fuggitivi. In gran parte si trattava di fagioli e ceci, poi c’erano il grano e il farro, dal chicco ancora più minuto.
Non so a voi, ma a me questa immagine fa venire in mente questo quadro di Millet:

Qui si raccoglievano le spighe scampate ai rastrelli, lì i chicchi sfuggiti dai sacchi, in entrambi i casi doveva essere un lavoro scomodo e di pazienza. Ma riuscivano a portare in casa questa meraviglia di zuppa.

Altre voci più prosaiche raccontano semplicemente che gli scaricatori venivano pagati in natura con l’aggiunta di tutto ciò che si recuperava dai sacchi andati rotti durante le operazioni di imbarco.
Qualunque sia stata l’origine, questo piatto è davvero un toccasana nelle fredde giornate invernali ed ha il pregio di essere preparato in modo molto essenziale e leggero.

Per i legumi secchi bisogna tener conto dell’ammollo:
per i fagioli è sufficiente una notte, per i ceci anche di più. Se non
volete che i fagioli si rompano in cottura, evitate l’aggiunta di
bicarbonato. Il grano o il farro perlato che di solito compro al
supermercato non ha bisogno d’ammollo. Questa volta io ho usato
dell’orzo per sostituirlo, ma il risultato è lo stesso.

La ricetta: Mescciüa ligure


100 g di ceci
100 g di fagioli cannellini
40 g di farro (o grano, o orzo come nel mio caso)

1/2 cipolla
olio evo
sale
pepe

Cuocere separatamente i legumi: per i ceci ci vogliono 2 ore, per i cannellini 1 ora e mezza, per l’orzo circa 1 ora.
Una volta cotti e scolati ho fatto scaldare 2 cucchiai d’olio in una pentola con la cipolla tagliata finemente; ho poi aggiunto i legumi con una parte dell’acqua di cottura ed ho lasciato insaporire per un quarto d’ora, regolando di sale ed aggiungendo verso la fine l’orzo.
Servire la zuppa in fondine, ben calda, con olio crudo e pepe da macinare direttamente nel piatto.

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Disfida Focaccia con due miti del “cibo da strada” ligure

Vi ricordate della giornata alla focacceria Lagrange? E vi ricordate del contest e della mia focaccia genovese-piemontese?

Ecco, con quella focaccia ho catturato l’attenzione di Salvatore Lo Porto e presto (spero) la prepareremo insieme.
Nell’attesa vi racconto cosa è successo il 3 dicembre in un’altra focacceria del circuito, precisamente alla Focacceria Sant’Agostino di via San’Agostino 6 a Torino.

A darsi appuntamento qui, due dei miti liguri del cibo da strada: Biagio Palombo, il mitico Biagio della Baracchetta di Recco, e Vittorio Caviglia, in un momento di godereccia condivisione di saperi.
Biagio della Baracchetta ha portato con sé tutto il sapere maturato in anni di produzione di una delle più buone e autentiche focacce di Recco; Vittorio ha condiviso invece tutte le regole per produrre la farinata perfetta, del giusto spessore, croccante in superficie e morbida all’interno.
Questa disfida tra Farinata e Focaccia di Recco è stata giocata all’insegna della più grande umiltà, con la regola, ripetuta più volte, che alla base di un ottimo risultato c’è un duro e costante lavoro.
Abbiamo scoperto che la focaccia di Recco richiede una buona manualità, ma il segreto sta nell’elasticità dell’impasto e che la farinata vuole soprattutto un buon equilibrio tra gli ingredienti e un forno molto caldo e che sia perfettamente in bolla.
Abbiamo scoperto che le teglie tonde non sono tutte uguali e che richiedono un trattamento speciale.
abbiamo scoperto soprattutto che le cose più buone sono quelle più semplici: pochi ingredienti di qualità e la passione di una vita.

Qui sotto trovate alcune foto della serata e in fondo la mia focaccia di Recco e la mia farinata (prima della disfida focaccia…non credevate mica che vi avrei rivelato tutti i segreti di Biagio e Vittorio?!?).

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La Farinata di ceci su MyTableBlog

Oggi si parla di farinata di ceci, ricetta ligure, ma diffusa con poche varianti anche in altre parti d’Italia.
La ricetta è semplicissima ma ricca di tradizione, a partire dalla teglia in cui viene cotta.
Preparare la farinata nel forno di casa non è semplice, perché essa necessita di una cottura ad alte temperature, però con alcuni accorgimenti si può ottenere un ottimo risultato.
Gli specialisti della farinata impongono di utilizzare un testo, la classica teglia rotonda, di rame stagnato, che deve essere lavato con il detersivo soltanto al primo utilizzo e poi ripulito dagli eventuali resti di farinata solo con acqua tiepida, in modo da non rimuovere lo strato di olio che permette al composto di non attaccarsi. 
Se fate un viaggio a Genova il testo stagnato può rappresentare un utilissimo souvenir da portarsi a casa.
La temperatura del forno deve essere massima al momento di infornare, poi viene abbassata ed infine rialzata poco prima di sfornare la farinata.
La tradizione dice che la farinata canonica dovrebbe essere alta almeno 5mm e meno di 1 cm, ma dato che il forno di casa difficilmente raggiunge i 300°, vi consiglio di fare uno strato leggermente più sottile di impasto, per ottenere una buona consistenza finale.

Per conoscere altre curiosità sulla farinata e la ricetta potete fare un salto sul blog di MyTable.

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Fratelli Carli Day – una visita in azienda

Mi ritrovo finalmente a parlare della mia gita ad Imperia del 22 novembre presso l’azienda dei Fratelli Carli.
C’è stato di mezzo dicembre e il Natale, ma nonostante sia passato del tempo, ci tengo molto a mettere nero su bianco i ricordi di questa esperienza, che consiglio a tutti quanti ne abbiano la possibilità.
Fratelli Carli significa da più di cent’anni olio extravergine d’oliva e, prima dell’avvento dei negozi Carli, a Torino ne abbiamo uno, questo olio arrivava direttamente a casa tramite spedizione. 

E’ giusto fare subito una precisazione: Carli produce una tipologia di olio di sole olive taggiasche, e diverse tipologie di olio che sono blend di oli di qualità superlativa, accuratamente selezionati. 
Vista la mole di vendita non sarebbe possibile produrre solo da olive liguri, poichè esse rappresentano soltanto l’1,7% della produzione italiana; per questa ragione Carli ha cominciato a guardare non tanto alla provenienza degli oli, ma alla loro qualità. Un olio buono e senza difetti, deriva per forza da olive coltivate con tutti i più sani criteri. 
La fase della selezione degli oli, che avviene direttamente in azienda, è importantissima, perchè soltanto oli senza alcun tipo di difetto e che rispondano a determinate caratteristiche possono entrare a far parte del blend Carli.

La visita all’azienda si è articolata durante tutta una giornata su diverse fasi ben coordinate:
– visita ad un uliveto 
– degustazione guidata
– lezione di cucina con pausa pranzo
– visita al museo dell’olivo
– visita all’azienda/comparto produttivo
Le informazioni immagazzinate sono state tante ma interessantissime ed hanno contribuito a darci un quadro molto esauriente di tutto il lavoro utile per produrre un olio di ottima qualità.
Siamo partiti dalla visita ad uno degli uliveti di taggiasche, piantumato nel 2004 con circa 2000 alberi in produzione. Il periodo era perfetto per vedere le olive ancora sugli alberi e pronte per essere raccolte e per capire con quale cura vengono neutralizzate o quantomeno combattute le mosche dell’olivo e come viene effettuata la raccolta. 

Il diserbante utilizzato è idrosolubile e quindi con il lavaggio delle olive viene poi eliminato competamente. Anche lo strumento per scuotere le fronde è stato studiato per non apportare alcun danno alla pianta.

L’oliva è pronta per essere raccolta quando è ancora per metà verde, e deve essere lavorata entro 24-48 ore, pena l’ossidazione del frutto. 

Da ciò si comprende come la raccolta e la lavorazione debba seguire determinati ritmi, che sono poi quelli seguiti da migliaia di anni, anche se le tecniche di lavorazione si affinano e diventano più efficienti. Da 12 kg di olive vengono prodotti circa 2 kg di olio, quindi lo scarto di foglie e noccioli è preponderante.

Dall’uliveto siamo passati alla fase di degustazione: un’esperienza davvero curiosa per un neofita!!
Ci guida Gino De Andreis, uno dei degustatori dell’Azienda Carli, spiegandoci prima i passaggi della lavorazione del frutto, i fattori di influenza sul gusto di un buon olio extravergine di oliva e i sensi coinvolti nella degustazione.
L’oliva e quindi l’olio con essa prodotto è influenzato dal clima, dalla composizione del terreno, dalla gestione dell’uliveto, dallo stoccaggio e dalla lavorazione in frantoio e naturalmente, prima di tutto, dalla varietà di oliva.
Noi assaggiamo diversi tipi di olio evo, alla cieca, cercando di determinarne il grado di fruttato, di amaro e di piccante. Queste note variano a seconda della provenienza dell’olio e sono determinanti per classificare la bontà di un olio. A questa fase arrivano soltanto oli già classificati senza difetti dal punto di vista chimico-analitico. 

Ci districhiamo con eleganza tra olio di sole taggiasche ed eccellente olio del Peloponneso, tra olio siciliano e olio pugliese che sono quelli che nel tempo mantengono di più le caratteristiche organolettiche e scivoliamo verso l’ora di pranzo.
Durante la lezione di cucina sotto la guida dello chef Enrico Calvi del ristorante Salvo Cacciatori di Imperia, cerchiamo di imparare a fare un ottimo pesto ligure: la regola è prima l’aglio con il sale, poi gli altri ingredienti ed infine l’olio che si aggiunge quando il pesto è già stato travasato dal mortaio per non ungerlo e rendere difficoltose le future pestature!!

A pancia piena arriva il momento della visita al Museo dell’Olivo.

Il patriarca della famiglia Carli raccoglie reperti sull’olio e sulla sua storia con grandissima passione da moltissimi anni. La visita, come potete immaginare, mi ha affascinato: l’olio d’oliva può raccontare una storia lunga 7000 anni. Appartiene al passato delle civiltà mediterranee e si fonde alle loro vicende storiche, alla loro arte e al loro vissuto quotidiano, restando attuale fino ad oggi.

La visita all’Azienda è molto meno poetica, ma decisamente interessante: 
dalla separazione delle foglie al passaggio delle olive sotto  le enormi molazze di granito, seguiamo tutti i passaggi attraverso la superficie vetrata che circonda il frantoio a ciclo continuo. Tutte le lavorazioni sono sotto i nostri occhi, non si può dire che la Fratelli Carli non lavori alla luce del sole.

Il reparto imballaggio è impressionante: migliaia di bottiglie marciano inarrestabili verso i loro scatoloni, dove viaggeranno verso i consumatori finali. L’olio è filtrato per allungarne la vita, in questo modo non si ossida e può durare fino a 2 anni.

Concludiamo la visita all’azienda Carli con un salto all’Emporio. Qui scopriamo una vasta gamma di prodotti che si svincola dal solo olio extravergine di oliva, ma che racconta una storia lunga millenni di conservazione e di 1000 altri usi, andando dal tonno in scatola sott’olio ai prodotti per la persona.
Visto che si avvicinava il Natale non ho potuto fare a meno di acquistare un panettone all’olio di oliva che, adesso posso dirvelo, era assolutamente delizioso e di una sofficità incredibile!!

Concludo ringraziando l’Azienda della bella opportunità offerta ed augurandomi che altre visite ad altre aziende siano possibili per noi appassionate di cibo, perchè credo che un vero appassionato possa fare la differenza raccontando il “dietro le quinte” dei marchi storici.
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Il Cappon Magro dell’estate

Il Cappon Magro è un piatto di origine antica. 
Le leggende sulla sua nascita sono tante ed ognuna sembra raccontare una parte di verità.
Alcuni dicono che una preparazione simile veniva portata dai marinai sulle navi, l’aceto infatti permette la conservazione dei cibi deperibili.
Altri fanno risalire l’origine del nome alla contrapposizione tra il pesce cappone e il cappone da cortile. Per rispettare le regole alimentari del periodo quaresimale e delle altre vigilie, il cappon magro appagava l’occhio e il gusto, senza essere carne.
Altri ancora parlano della composizione scenografica a strati come di un’invenzione rinascimentale o barocca, quando le tavole imbandite davano lustro ad una casata anche con bizzarre sculture di cibo.
Altri ancora dicono che il cappon magro in origine era un cibo tutt’altro che nobile e che si facesse con gli avanzi dei banchetti recuperati dalla servitù.
Tante diverse spiegazioni per un piatto che affascina, innanzitutto per i suoi colori, per la sua struttura che sfida la gravità e infine per la freschezza datagli dall’aceto. 
Cibo tradizionale della vigilia di Natale, ma anche per il periodo quaresimale, recentemente è riproposto in ristoranti raffinati, con bellissime monoporzioni.
La sua preparazione, un po’ lunga, è facilissima e può essere preparato in casa, in anticipo e sfoderato in un battibaleno.
Io ho fatto una versione con verdure estive, quindi non ci sono broccoletti, cavolfiori e rape rosse, ma altre verdure colorate che si trovano in questo periodo.
La decorazione superficiale può essere fatta con qualsiasi frutto di mare voi abbiate a disposizione. Nelle mie monoporzioni c’era una semplice seppiolina infilzata.

La ricetta: Cappon Magro estivo
ingredienti (per 4 monoporzioni – le coppette erano di 10 cm di diametro)
4 rapanelli (più qualcuno per decorare)
una manciata di fagiolini
2 carote
2 patate medie
1 peperone
3 nasellini (piccoli, va bene qualsiasi pesce a carne bianca, quello che trovate o che vi fa più comodo utilizzare; anche avanzato, purchè sia sufficiente per fare un bello strato)
gallette del marinaio (io non sapevo dove andare a pescarle e ho usato delle gallette integrali, vanno bene anche sottili fette di pane raffermo a mollica fitta) 

per intervallare ogni strato: salsa verde alla ligure preparata almeno 24 ore prima
Ho fatto lessare in acqua salata le verdure separatamente, in modo che fossero al dente, le ho affettate e condite in tanti piattini separati con olio e qualche goccia di aceto. Man mano che si raffreddano si possono mettere in frigo, in attesa che tutte le verdure siano pronte.
Ho lessato il pesce e l’ho condito con olio e limone.
Ho rivestito le ciotole con pellicola per alimenti, poi ho cominciato a mettere gli strati di verdurine.
Prima le fettine di ravanello, poi fagiolini, rondelle di carota, fette sottili di patata, listarelle di peperone, uno strato spesso di pesce a filetti. Ogni strato deve essere intervallato dalla salsa verde alla ligure.
Sopra il pesce ho messo la galletta, pressando bene e poi spruzzandola di aceto.
Ho ripiegato i lembi di pellicola sulla galletta, richiudendo il tutto e mettendo le ciotole in frigo.
Io ho lasciato in frigo una notte intera, tutti gli ingredienti si compattano ben bene e si insaporiscono di salsa.
Al momento di servire, ho capovolto le ciotole nel piatto e decorato con una seppiolina sbollentata e portato in tavola con focaccia genovese ancora tiepida fatta con questa ricetta di Vittorio Viarengo.

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Salsa Verde alla Ligure e il contest della Cuochina

L’ispirazione è ligure e si tratta di una ricetta antica che si perde nella notte dei tempi. Pellegrino Artusi la cita nel suo La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, tralasciando però di citare il famoso Cappon Magro, che la salsa andava a farcire, e la definisce semplicemente “Salsa per il pesce lesso”.
La ricetta originale della salsa verde ligure non mi sembra che preveda il basilico, ma io lo metto perché dà un tono decisamente più estivo alla salsa. Tutti gli altri sapori sono perfettamente equilibrati dopo il riposo in frigo!!
Io ho sostituito l’aceto di vino bianco con l’aceto di mele, che è più delicato.
Bisogna dosarlo man mano, essendo parsimoniosi all’inizio perché il gusto si svilupperà poi, pena il rischio che la salsa diventi troppo “acetosa”…
 
Il bello di questa salsa è che è molto versatile; viene usata per il cappon magro, tra uno strato e l’altro di verdure e pesce, o per il pesce bollito nudo e crudo o alla griglia oppure ancora per la cima genovese. Secondo me è perfetta anche per accompagnare elegantemente delle semplici verdure bollite o meglio ancora delle frittelle di cavolfiore o con l’acciughina.
Dopo il riposo “rituale” di 24 ore, si conserva, grazie all’aceto, per diversi giorni.

La ricetta: Salsa verde alla Ligure

1 mazzetto prezzemolo
1 manciata basilico
1 o 2 fette di pan carré bagnate nell’aceto di mele
1 grosso spicchio d’aglio
2 cucchiai pinoli
2 cucchiai capperi
4/5 acciughe
1 tuorlo d’uovo sodo sbriciolato
una decina di olive verdi
aceto di mele q.b.
olio extravergine d’oliva q.b.

Il procedimento è semplicissimo, ovviamente è la qualità degli ingredienti a fare la differenza.

Ho ammollato il pane in aceto di mele.
Ho lavato e asciugato le erbette e le ho tagliate grossolanamente, così come l’aglio.
Ho messo tutti gli ingredienti in un frullatore, e l’ho azionato ad intermittenza, aggiungendo l’olio a filo.
Deve uscire un composto omogeneo, ma denso.
Infine ho travasato il tutto in un barattolino e l’ho messo in frigo per 24 ore.
Il giorno seguente bisogna assaggiare la salsa e se il gusto acetoso non è predominante, magari aggiungerne qualche cucchiaino.

Questa volta l’ho preparata per il Cappon Magro, ma prima l’abbiamo assaggiata su crostini di pane…per vedere se era venuta bene!!! 🙂

Con questa ricetta partecipo al contest Aceto Sopraffino di Veru, La Cuochina Sopraffina, in collaborazione con R2M.

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Genova e la focaccia di Recco La celebre focaccia al formaggio ligure da gustare calda

L’anno scorso all’inizio dell’estate abbiamo fatto una gita a Genova.
Genova è una città che bisogna esplorare, non basta attraversarla di corsa raggiungendo il porto per capire come è fatta. Certo andarci per visitare l’enorme attrazione dell’Acquario è già un passo, ma questa tentacolare attrazione non vi dirà molto sul carattere dei genovesi.
Per sperare di capirci qualcosina in più bisogna entrare nei suoi vicoli, assaporare i suoi profumi, incrociare gli sguardi del popolo multietnico che da secoli la abita.
Genova è una città di mare, il capoluogo di un grande porto e ha alcune caratteristiche che si possono riscontrare solo in città testimoni di così grandi passaggi di flussi umani. A un primo sguardo può risultare caotica, disordinata, come una donna spettinata, sorpresa nella sua privacy e gelosa di conservare la propria intimità.
In realtà ha bellezze da mostrare a chi si addentra con più attenzione tra le sue strade.
 
Il pretesto per la nostra gita è stato la mostra “Caravaggio e l’arte della fuga. La pittura di paesaggio nelle Ville Doria Pamphilj” che era allestita nella villa cittadina del Principe Doria.
Proprio da lì è partita la nostra visita, tra le arcate a tutto sesto di ritmo chiaramente rinascimentale e il giardino all’italiana, tra compartimenti di fiori e piante, pavoni  e la grande fontana del Nettuno in primo piano sullo sfondo del mare.
Poi il giro è continuato tra strette vie, carrugi, come dicono in Liguria. Il centro storico di Genova sembra una scatola di costruzioni abbandonata dopo il gioco. Le case sono sorte fitte fitte, le une sulle altre, e le sorprese spuntano dietro ad ogni angolo. 
Palazzi splendidi e colorati che sorgono all’improvviso dietro un angolo, e luoghi che rasentano la fatiscenza, chiese sopraelevate quasi volessero turarsi il naso davanti al mercato del pesce, migliaia di bancarelle di libri e dischi usati e ogni sorta di locale mangereccio etnico.
La sosta per la focaccia è di rito e poi ancora un’altra Genova. La Genova più modaiola, con la passeggiata affollata di gente, il sabato pomeriggio, i negozi (ancora librerie) pieni, i palazzi più sfarzosi che si svelano lungo via XX settembre.
A cena siamo andati in una trattoria vicino al porto, un locale non alla moda, ma dove abbiamo potuto mangiare ottimi piatti di pesce.
E poi ancora un giro, prima di tornare verso la stazione.
Un giorno solo non basta a conoscerla, ma già in un giorno Genova ci ha lasciato qualcosa di sè!
 
 
La focaccia con il formaggio è la ricetta tipica di Recco, ma anche a Genova si può trovare appena fatta e buonissima!!! Va mangiata calda, quando il formaggio non si è ancora solidificato, per questo motivo nelle panetterie bisogna acchiapparla, a suon di gomitate, appena la sfornano. E, non si sa come mai, ne sfornano sempre troppo poca alla volta.
Il formaggio NON è la prescinseua, perchè troppo liquido o troppo acido… Nel disciplinare viene indicato “formaggio fresco L.L.T., prodotto con latte ligure tracciato”.
La ricetta è più o meno (per chi volesse qui c’è la ricetta originale!) e qui invece trovate la mia versione.
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