#YesVendemmia alla scoperta dell’arte della vendemmia nel Pinerolese
Grazie a Camera di Commercio di Torino, di Yes! Torino e con la collaborazione di Strada Reale dei Vini quest’anno ho avuto l’opportunità di partecipare a #YesVendemmia, il progetto volto a valorizzare l’arte della vendemmia nella provincia di Torino.
Quattro le zone del Torinese vocate alla produzione vinicola, il Canavese, la collina Torinese, la ValSusa e il Pinerolese. Mi è toccata quest’ultima, terra di scoperta e di approfondimento e a me totalmente sconosciuta sul fronte della produzione vinicola.
La tradizione delle vallate di Pinerolo nella coltivazione della vite ha radici antichissime, e se oggi la DOC Pinerolese, creata nel 1996, raccoglie sotto questa denominazione vini quali Rosso, Rosato, Barbera, Bonarda, Freisa, Dolcetto, Doux d’Henry e Ramìe, tutti unificati sotto il cognome di “Pinerolese”, un’indagine storica porta a scoperte interessanti.
Il Doux d’Henry, o Gros d’Henry, è un vitigno locale dell’area pedemontana da Pinerolo verso Cumiana: pianta autosterile, deve essere coltivato in abbinamento ad altri vitigni perché avvenga la fioritura e successivamente porti frutto. È la varietà più particolare e ricca di storia della zona: secondo la leggenda, infatti prende il nome da Enrico IV di Francia che all’inizio del ‘600 in visita al di qua delle Alpi per discutere un trattato con Carlo Emanuele di Savoia, lo assaggiò e lo gradì molto.
Nell’800 era considerato un ottimo vitigno, da vinificare assieme ad altre uve, la riscoperta del Doux d’Henry in purezza risale soltanto agli ultimi anni.
I legami con la Francia si ritrovano in vitigni, conosciuti oltralpe con altri nomi, ma ugualmente diffusi: è il caso del Pianvert, vitigno autoctono del pinerolese, conosciuto in Francia come Verdes; discorso analogo per il Neiret, conosciuto anche come Chatus, e il Berla cita, detto anche Becouet.
Ancora tra i vitigni autoctoni del pinerolese il Berla Grosa, Lambrusca Vittone, Avarengo, Avanà e i più noti Bonarda, Freisa e Barbera.
Dal 1986 a Prarostino esiste anche un Museo della Viticoltura, ricco di reperti storici, vecchie stampe e fotografie d’epoca e dove sono illustrate le varie fasi di lavorazione, dalla vigna al primo bicchiere spillato direttamente dalla botte, ritratto fedele dei ritmi della civiltà contadina dal passato fino ad oggi.
La ricchezza di varietà nella produzione si stava perdendo. Il successo delle cantine sociali aveva fatto sì che per anni i produttori delegassero a loro l’imbottigliamento e, mentre i vitigni meno produttivi venivano pian piano abbandonati, a scapito della biodiversità, molte erano le cantine che perdevano completamente la vocazione all’imbottigliamento. Oggi si sta lentamente riscoprendo questo aspetto, saranno forse una decina le cantine che imbottigliano nuovamente.
La DOC Pinerolese, nel caso del rosso e del rosato è composta da uve Barbera, Bonarda, Nebbiolo e Neretto, in purezza o congiuntamente minimo al 50%. Il restante 50% può essere di altri vitigni a bacca rossa non aromatici.
Le DOC Pinerolese Barbera, Pinerolese Bonarda, Pinerolese Freisa, Pinerolese Dolcetto e Pinerolese Doux d’Henry, sono composte da almeno l’85% del vitigno indicato nel nome stesso.
La DOC Pinerolese Ramìe è composta da 30% di uve Avanà, minimo 15% di uve Avarengo e minimo 20% di uve Neretto.
Io ho avuto modo di visitare la Scuola Malva Arnaldi, proprio il luogo dove la ricerca della biodiversità e del locale è ragione di studio e approfondimento.
I nomi delle antiche varietà sono ancora scritti sui pali in vigna, testimonianza di un passato che si vorrebbe vedere risorgere. Le tecniche di produzione, visti anche i quantitativi modesti sono artigianali ma molto attente. Quest’anno la produzione è stata drasticamente ridotta dalle grandinate precoci: per molti piccoli produttori, solo le varietà rifiorenti hanno permesso una vendemmia dignitosa.
Su queste basi la festa della vendemmia in pinerolese attirerà già dal prossimo anno un folto pubblico interessato alle sfumature più ricche di tradizione di questa antica arte.